Gli occhi del male
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Anteprima del libro
Gli occhi del male - Massimo Tirinelli
UN CUORE CHE SANGUINA
LUGLIO 1985
Il professor Terzi si affacciò nella sala d’aspetto e salutò Federico Urbani che lo stava aspettando. «Si accomodi pure.»
«Grazie per avermi ricevuto fuori appuntamento, Carlo.»
Federico Urbani, un uomo snello, con i capelli castani folti, il viso magro, e appena qualche piccola ruga intorno agli occhi chiari, entrò nello studio e sedette in una delle poltrone di pelle marrone che fronteggiavano la massiccia scrivania di foggia ottocentesca.
«Dottor Urbani, da quanto tempo è in terapia con me?» L’uomo corpulento dalla folta capigliatura brizzolata chiuse la porta dello studio. A dispetto dei suoi sessantadue anni Carlo Terzi manteneva un piglio giovanile e arguto. Federico Urbani sembrò colto alla sprovvista. «Non saprei. Sei mesi, forse?»
Il professor Terzi prese posto nella poltrona gemella di fronte a lui. «E, mi dica, cos’è che non la convince riguardo il mantenimento di un rapporto formale tra paziente e psicanalista? Lo suggerisce quello che si chiama codice deontologico. Non è la prima volta che ci troviamo a discuterne» disse con tagliente ironia.
«Mi dispiace, non intendevo essere irrispettoso. Pensavo che tra noi si fosse instaurata una relazione di reciproca fiducia, che giustificasse l’uso del nome di battesimo» disse Federico Urbani, punto sul vivo.
Carlo Terzi preferì non ribattere, percependo tensione nel tono del suo paziente. Al telefono non gli aveva chiesto perché insistesse per vederlo; Urbani aveva accennato a un’emergenza e lui aveva fissato subito l’incontro, visto che l’agenda pomeridiana prevedeva solo due pazienti. Un attacco di panico aveva dedotto Terzi, e sul motivo non si era interrogato: lo conosceva perfettamente.
Lo psicanalista lo fissò sornione. «Oggi lei ha avuto un impegno importante, se non ricordo male.»
Federico annuì. «Ho chiesto a mia sorella Daniela di accompagnarmi in via Enrico Dal Pozzo, secondo il suggerimento che mi ha dato al nostro ultimo appuntamento.»
«Dottor Urbani, da lei mi aspettavo qualcosa di più del nome di una via. Avrei preferito sentire che oggi si è recato al cimitero monumentale di Perugia…» lo apostrofò il terapeuta. Dopo una pausa aggiunse: «Per portare dei fiori a sua moglie.»
«Non si trova forse in via Enrico Dal Pozzo?» replicò Federico con durezza.
Il professor Terzi non rispose. «Mi farebbe piacere leggerla» disse pacatamente.
«Cosa?» Federico Urbani finse di essere sorpreso.
«Lo sa: la poesia che ha dedicato a sua moglie e che ha sicuramente portato con sé con l’idea di darmela, proprio come le altre.» Lo psicanalista si sporse sulla scrivania, puntellandosi sui gomiti. «Sarà bellissima, già lo so. Fino a oggi ho collezionato oltre dieci poesie. Al di là dell’importanza che rivestono sotto il profilo psicanalitico, non dimentico, comunque, che sono opera di un grande scrittore, un’eccellenza della narrativa italiana. Quanti riconoscimenti avrà ottenuto nella sua ormai lunga carriera artistica?»
Federico Urbani abbassò lo sguardo, mettendo una mano nella tasca dei jeans. «Molti. Ma li baratterei tutti in cambio di un solo minuto con Anna.» Consegnò a Terzi un foglio battuto a macchina.
Tu che mi hai insegnato a vestire
l’allegria dell’estate
e la nostalgia dell’autunno
ora insegnami a finire.
Non condannarmi a indovinare
ogni giorno da dietro la porta
se sono tuoi i passi lenti sulle scale.
Portami via: ormai non ho più casa
se non tra le righe di una poesia per te.
«È molto bella, dottor Urbani» commentò il professor Terzi al termine della lettura. «Però, in qualità di terapeuta, la mia attenzione è catturata dal quarto verso… È su questo che dovremo ancora lavorare insieme.»
Federico lo guardò stancamente. «Mia moglie sosteneva che le delusioni della vita non mi impedivano di nutrire sempre fiducia negli altri. Tutti, prima o poi, sviluppano una visone critica della vita
mi prendeva in giro. Tu, invece, ti chiedi perché qualcuno dovrebbe farti del male. Tesoro mio, arrenditi all’idea che il male esiste e ha bisogno delle persone per proliferare
. Insomma, una perifrasi piuttosto elaborata per darmi dell’ingenuo. Non era una persona cinica, aveva solo timore che potessi soffrire. La mancanza di quella sana diffidenza che è patrimonio di tutti mi rendeva, secondo lei, particolarmente esposto alla cattiveria.» Sorrise mentre gli occhi si facevano lucidi. «Le sue ultime parole sono state un ammonimento per me. Era preoccupata al pensiero di lasciarmi a sbrigarmela da solo con le faccende della vita. Ti prego, stai attento, tu sei un re che non intende abdicare ai suoi sogni… Non credere alle favole!
Oggi, davanti alla sua tomba, ho capito invece che la favola è finita. E non ho più niente in cui credere.»
«Occorrerà ancora del tempo prima che lei riesca a dire davvero addio a sua moglie» commentò il professor Terzi. «L’elaborazione di un lutto devastante, dottor Urbani, è faticosa. La prima volta che è venuto qui mi ha chiesto di aiutarla e io le ho promesso che l’avrei fatto, ma a una sola condizione: che lei volesse davvero essere aiutato. Ricorda?»
Il paziente sentiva che il nodo alla gola stava per sciogliersi in pianto, e anche lo psicanalista, notando il fremito delle sue labbra, lo intuì.
Al diavolo il rapporto paziente-terapeuta! pensò il professor Terzi. Quest’uomo si sente sperduto, ha bisogno di sapere che non è solo. Guardandolo negli occhi, lo rassicurò: «Il tuo cuore sanguina, Federico, lo so, ma io riuscirò a ricucire la ferita».
Erano le diciannove passate quando Federico Urbani uscì dallo studio del professor Terzi, in zona Monteluce. In strada fu assalito da un’ondata dell’aria bollente che da quasi due mesi ristagnava su Perugia, favorendo il divampare di incendi nelle campagne circostanti, riarse dalla siccità.
Federico si passò una mano tra i capelli con un moto di insofferenza; la tentazione di sfilarsi l’ampia camicia blu scuro, che indossava fuori dai jeans a vita alta, era fortissima, e per un momento contemplò addirittura l’eventualità di togliersi le Superga blu e guidare a piedi nudi. Montò sulla Renault 9 rossa, spaventato al pensiero del caldo asfissiante che avrebbe sofferto per i successivi venti minuti: l’invito a cena di sua sorella Daniela, infatti, l’avrebbe costretto ad attraversare Perugia fino a Porta Eburnea. Per distrarsi, accese la radio. Lo aggredì una musica violenta, un brano del complesso più in voga del momento, i Duran Duran. Gli risultò insopportabile e preferì spegnere.
«Un amaro?» propose Daniela.
Federico scosse la testa.
«Lo ammetto, non è stata una cena memorabile, ma a mia discolpa posso dire che non ho avuto il tempo necessario per fare di meglio» scherzò la donna. «Ho accompagnato Marco e Serena alla stazione, avevano il treno alle cinque.»
«La prima vacanza da solo del mio nipotino! Se la merita, ha fatto un ottimo esame di maturità» sorrise Federico. «Sono sicuro che la Spagna gli piacerà.»
Daniela gli tirò una mollica di pane. «Sentilo. Nipotino
! Mio figlio ha diciannove anni, caro fratello, non continuare a pensare a lui come a un bambino. Di’ la verità, sei più in ansia di me a saperlo in giro per il mondo.»
«Marco è alquanto pazzerello ma conto su Serena» ridacchiò Federico. «È una ragazza con la testa sulle spalle, oltre che molto carina.»
Daniela lo guardò con affetto: sapeva quanto volesse bene al nipote. Per Marco lui era stato quasi un padre, considerato che quello vero, dopo un divorzio sofferto, si era trasferito in Germania con la sua nuova fiamma e nel corso del tempo si era fatto vivo ben poco con il figlio.
Federico e Daniela erano sempre stati molto affiatati, e il divario di quasi sei anni che faceva di lei la sorella minore non aveva mai rappresentato un problema. Federico l’aveva vista reagire con forza ai periodi di crisi che entrambi avevano vissuto e stavano ancora vivendo; nonostante il suo aspetto esile e minuto, i suoi luminosi occhi chiari, uguali a quelli del fratello, avevano sempre emanato una grande carica vitale.
Era stato durante il divorzio di Daniela, però, che il legame profondo che li univa era andato oltre il vincolo di parentela: provata dal dolore, Daniela si era appoggiata completamente a Federico, scoprendo di avere accanto un amico vero.
Dal canto suo, Daniela aveva incoraggiato il talento di Federico per la scrittura fin dal primo acerbo manifestarsi, e si era proclamata subito la sua fan numero uno. Quando lui, dopo alcuni tentativi non andati a segno, era riuscito a pubblicare il primo romanzo con una famosa casa editrice, lei ne era stata orgogliosa e felice, e quando poi era stato insignito di prestigiosi riconoscimenti letterari, che ne avevano decretato la fama e il successo, l’orgoglio di Daniela era sfociato nell’ammirazione sincera.
Dopo la laurea in Storia della critica letteraria, Federico si era sposato con Anna, sua fidanzata dai tempi del liceo, aveva affittato un monolocale vicino Parco della Pescaia e per un paio di anni, mentre terminava il suo primo romanzo, aveva lavorato in una libreria di corso Vannucci. La delusione di Anna e di Federico per non riuscire ad avere figli era stata compensata da un legame così unico e intenso da essere preso come esempio dalle persone intorno a loro.
Per Daniela e Anna, amiche da anni, diventare cognate significò rinsaldare il loro rapporto; d’altronde sarebbe stato impossibile non voler bene a quella ragazza così spiritosa e intelligente.
Il matrimonio era trascorso serenamente per quindici anni, fino alla malattia improvvisa di Anna.
Dall’inizio i medici non avevano nutrito alcuna speranza in una remissione della leucemia acuta che l’aveva colpita. Federico per otto mesi si era chiuso in casa, trascorrendo con la moglie ogni istante che li separava dall’addio. Aveva trascurato ogni cosa, perfino il suo lavoro, e quando lei era morta, all’età di quarantun anni, la parte migliore di lui l’aveva seguita.
Daniela aveva assistito al lento disgregarsi di suo fratello, fino ad arrivare al momento in cui il silenzio aveva esteso il suo regno persino tra di loro. Aveva fatto l’impossibile per sottrarre Federico all’ombra nera da cui lui si sentiva attratto, finché un giorno non aveva accettato l’idea che, per aiutarlo, l’affetto non sarebbe bastato; senza nemmeno consultarlo, aveva fissato un appuntamento con il professor Terzi, psicanalista di chiara fama, molto noto a Perugia.
Mentre iniziava a sparecchiare, Daniela ebbe la tentazione di chiedere a Federico com’era andata la seduta con Terzi, ma rinunciò, immaginando il tema dell’incontro: la visita al cimitero.
Quando suo fratello le aveva chiesto di accompagnarlo alla tomba di Anna, per la prima volta dalla morte della cognata, Daniela non aveva esitato, sapendo quanto sarebbe stata logorante per lui quella prova.
Federico si sedette sul divano e poco dopo Daniela lo raggiunse.
«Hai scritto qualcosa in questi ultimi giorni?» gli chiese premurosa.
«Sto sistemando alcuni appunti ma non parlerei di scrivere» rispose suo fratello di malavoglia.
«Prima o poi dovrai ricominciare, Federico» disse Daniela. «Sono quasi due anni che non ti siedi alla scrivania…»
«Lo so bene, non occorre che tu me lo faccia presente.» La voce del fratello si fece più acuta. «È tutto inutile, nel migliore dei casi scrivo due righe e poi mi blocco.»
Rimproverandosi per aver toccato un argomento ancora troppo delicato, Daniela cambiò discorso. «Sai che ieri mi ha chiamato zia Eliana? Mi ha chiesto tue notizie, notizie vere, ha tenuto a precisare. Si è lamentata che la liquidi sempre con il solito Tutto bene, zia cara
. Mi stavo chiedendo perché non vai a trovarla a Casa Letizia. Siete così affiatati, voi due, ti farebbe bene scambiare due chiacchiere con lei. E poi un giro in macchina è un buon pretesto per uscire di casa, no?»
«Zia Eliana. Mi manca tanto! In effetti è un bel po’ che non la vedo…» rimuginò Federico.
Daniela scoppiò in una risata, mentre raccontava: «Si è lamentata che l’ambiente è un vero mortorio. Sì, ha usato proprio queste parole! Troppi vecchi
mi ha spiegato, seria. Quando le ho ricordato che Casa Letizia è una residenza per anziani, ha risposto ridendo che allora c’è stato un errore e la dobbiamo portare via da lì: lei non è anziana, è una persona diversamente giovane!».
Anche Federico rise di gusto e, nel guizzo di allegria che gli aveva acceso lo sguardo, a sua sorella parve di scorgere l’uomo brillante che era stato fino a due anni prima. Eccolo qui, il mio fratellino, pensò con malinconia, a quarantadue anni rimane un uomo ricco di fascino.
Al momento dei saluti Daniela lo tenne stretto forte a sé. «Sarai stanco, oggi è stata una giornata difficile, me ne rendo conto. Ci sentiamo domani.»
Lui le sfiorò la guancia con un bacio.
«E vai a trovare zia Eliana, le farà piacere» insistette Daniela.
Federico promise che ci avrebbe pensato e uscì.
CASA LETIZIA
Poco distante da Monte del Lago, Casa Letizia, l’istituto per anziani dove soggiornava la zia di Federico Urbani, sorgeva su una bassa collina dalla quale si godeva un meraviglioso panorama del lago Trasimeno.
Immersa nel verde di un vasto parco, l’elegante struttura aveva più che altro l’aspetto di un hotel a cinque stelle, in cui non mancavano le attività ricreative, il centro benessere, la palestra, le aree di svago e perfino un ristorante con piatti à la carte. Le camere, singole e doppie, erano ampie e accoglienti, dotate di telefono, aria condizionata e televisione, e soltanto i corrimani nei servizi igienici e la presa per l’ossigeno accanto al letto ricordavano la loro reale destinazione d’uso.
Federico e sua zia Eliana sedevano su una panchina sotto un tiglio profumato; com’era già accaduto con Daniela, la donna si stava lamentando degli ospiti di Casa Letizia e il nipote, piuttosto divertito, tentava invano di calmarla.
«Zia, devi essere comprensiva» disse Federico, sforzandosi di rimanere serio. «Non sempre si ha la fortuna di avere una salute di ferro come la tua!» L’uomo glissò sull’ischemia dell’anno precedente e sui recenti episodi di aritmia cardiaca.
«Tesoro caro, con questa gente non si può parlare di nulla al di fuori di pillole e di visite mediche!» ribatté stizzita l’arzilla ottantaseienne. Richiamò l’attenzione di Federico sull’uomo con la sedia a rotelle che procedeva verso di loro lungo il viale alberato. «Ecco, quello che sta arrivando è un perfetto esemplare della fauna locale: Roberto Cervini. Gentile, dalle maniere garbate, ma uno strazio inenarrabile, credimi!»
«Andiamo, non essere cattiva: quel poveretto non deve passarsela bene, ha un’aria piuttosto malconcia…» Federico faceva fatica a non ridacchiare.
«Sì, confermo, è veramente disastrato per i suoi sessantotto anni» convenne sua zia acidamente. «Un ictus l’ha ridotto così appena un mese dopo essere andato in pensione. Insegnava italiano in un liceo classico di Perugia. Ha avuto un discreto recupero, ma le facoltà mentali sono rimaste compromesse. Siamo arrivati qui insieme, e all’inizio c’era un bel rapporto perché è un uomo sensibile e di grande cultura, e anche un valente pittore. Purtroppo poi ha avuto un crollo e ora anche lui fa parte di questa schiera di zombie!»
Da lontano l’anziano sulla sedia a rotelle continuava ad agitare una mano in segno di saluto.
«Ti pareva, eccolo lì che mi sorride! Ha una vera fissazione per me, dice che sono la persona più simpatica di questo