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Morte nell'Abbazia
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E-book197 pagine8 ore

Morte nell'Abbazia

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Info su questo ebook

Ci troviamo a Valvisciolo, Abbazia cistercense fondata dai Templari, a cavallo tra il mese di novembre e il mese di dicembre dell’anno 1340. La pace del chiostro viene turbata dall’uccisione di un giovane novizio, cadetto di un’importante famiglia di Bassiano. Il Priore del convento dà incarico di svolgere le indagini a Padre Bernardo, Maestro dei novizi. L’aiuto del Capo della guarnigione del Castello di Sermoneta, Feudo dei Caetani, non sembra contribuire a risolvere il fitto mistero che avvolge il monastero. La scoperta della verità si rivela difficile. Lo strano caso dell’Abbazia di Valvisciolo non trova soluzione...

LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2014
ISBN9781311688712
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    Anteprima del libro

    Morte nell'Abbazia - Giovanni Marzella

    I Capitolo

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    Laudi - Primo giorno

    Il frate lo fissò negli occhi. Come responsabile dei novizi era suo preciso dovere vigilare affinché non si verificassero inosservanze della Regola.

    «Giuseppe di Livotorto! Io credo tu conosca la ragione per cui sei qui? Cos'hai da dire a tua discolpa?»

    «Prima dovrei sapere quale sarebbe questa colpa» rispose sprezzante il novizio.

    «Hai sottratto del cibo alla cucina e... no, non affrettarti a negare, ti hanno visto.»

    «Fare la spia è peccato, padre.»

    «Lo è, ma io mi preoccuperei più dei tuoi di peccati. Quando Nostro Signore disse: Chi è senza peccato scagli la prima pietra, se ne andarono tutti, ricordi?»

    Il novizio, giovane cadetto della più ricca famiglia di Bassiano, tacque, ma la sua postura non sembrava riflettere contrizione o rammarico per ciò che era accaduto. La veste non riusciva a celare membra vigorose, scalpitanti come quei cavalli che il morso trattiene a stento. Le mani, salde, erano più adatte a far roteare una spada che a tenere un rosario. La fronte, alta, liscia, si arrestava dinanzi a una fitta foresta di capelli neri che lasciavano scoperte due orecchie leggermente sporgenti. Lungo e diritto correva il naso, pronunciato spartiacque tra due zigomi affioranti dalle guance come spuntoni di roccia; poco più giù la linea della bocca, una striscia scavata tra un paio di labbra carnose che incorniciavano un sorriso incerto e timoroso.

    «Sai cosa ti aspetta figliolo?»

    «Qual è la mia punizione padre?» sbottò il giovane, non facendo nulla per nascondere la propria impertinenza.

    «Non avrai alcuna punizione. Desidero che i novizi imparino ad amare la Regola, perché solo così sapranno rispettarla. Se ti punissi, finiresti per odiarla e ti sarebbe sempre più difficile conformarti ad essa, anzi, saresti portato a violarla ancora.»

    Padre Bernardo colse un moto di sorpresa nell'espressione di Giuseppe di Livotorto e se ne compiacque. Difficilmente un discorso può fare breccia in un cuore indurito, incapace di meravigliarsi. La parola è come un seme e nessuna pianta è mai germogliata da una roccia.

    «Padre Bernardo!» la voce del frate guardiano sulla porta della cella interruppe il corso dei suoi pensieri, «Padre Filippo ha chiesto di lei. L'aspetta in Chiesa.»

    Quando il reverendissimo Padre Filippo, Priore dell'Abbazia di Valvisciolo, chiedeva di qualcuna delle sue pecorelle, non era consuetudine lasciarlo aspettare.

    «Fratello Guglielmo! Accompagna questo giovanotto da fratello Albino. Credo abbia bisogno di un aiuto con le erbe medicinali. Bada Giuseppe di Livotorto, che non è una punizione.»

    Una leggera increspatura percorse le labbra del ragazzo. Si trattava di un sorriso, impercettibile, appena accennato, che non sfuggì all'occhio attento del Maestro dei novizi.

    La via per raggiungere la Chiesa, dall'edificio dove si trovavano le celle dei monaci, era il chiostro.

    Padre Bernardo discese le ripide scale di pietra che conducevano al pianterreno pregustando le piacevoli carezze dell'aria fresca del mattino. Uscendo dalla porticina di legno che immetteva nel porticato, inspirò profondamente. Era una splendida giornata di fine novembre. Il cielo era terso e il sole penetrava nella duplice fila di piccole colonne che delimitava il perimetro della parte scoperta.

    Padre Bernardo avvertì il senso di pace che regnava, incontrastato, nel convento. Camminando con passo misurato il suo sguardo fu rapito dai glicini rampicanti che rivestivano, per un tratto, il corpo della costruzione che si affacciava sul cortile. I passeri si posavano sui capitelli delle colonnine di marmo e volteggiavano giocondi attorno al pozzo, raggiungibile da tre vialetti pavimentati che tagliavano, da altrettanti lati, il tappeto erboso che lo circondava.

    Erano passati venti anni da quando era entrato nell'ordine, ma fatta eccezione per le ossa che avevano cominciato a scricchiolare e per i capelli che avevano cominciato ad imbiancarsi, non era cambiato. Non solo nell'aspetto esteriore – era alto, magro e ancora diritto come l'albero di una nave – ma anche nello spirito. Nonostante fosse cresciuto in un convento, la vocazione era stata una scelta ponderata di cui non si era mai pentito. Anzi, con il tempo era divenuta più matura e gli aveva permesso di apprezzare sfumature della vita religiosa che non aveva mai considerato durante i primi anni.

    Il frate afferrò la maniglia della porta che si trovava sulla fiancata della chiesa e aprendola si trovò all'interno, precisamente alla fine della navata laterale. Un profumo d'incenso lo accolse, dando l’impressione di promanare dagli stessi blocchi di pietra, a conferma della sacralità del luogo.

    Padre Celestino, il maestro del coro, stava provando un salmo. Con fermezza fece ripetere un passaggio ai frati accomodati sugli scranni e intenti a seguire il librone del salterio che campeggiava sul grande leggio girevole.

    Padre Filippo, seduto su una panca di fronte all'altare, ascoltava il canto, accompagnando con leggeri movimenti della testa la melodia, quell'andirivieni di alti e bassi, tipici del gregoriano, che si levava dall'abside e permeava l'intera chiesa. Le dimensioni dell'edificio, l'altezza da terra delle capriate, non permettevano al suono di disperdersi, ma lo contenevano quel tanto che bastava per renderlo pieno, corposo e per far giungere le parole pulite, chiare, comprensibili. Le note accarezzavano con dolcezza le pareti, sulle quali nessun affresco o stucco faceva bella mostra. San Bernardo di Chiaravalle raccomandava che le chiese cistercensi non fossero riccamente decorate affinché i monaci non trovassero motivi di distrazione dalla preghiera.

    Il Maestro dei novizi si mosse silenziosamente verso l'altare lasciandosi trasportare dalle note del canto. Il Priore, per quanto immerso nell'ascolto del coro, percepì la presenza di colui che aveva mandato a chiamare e si voltò. Con un cenno del capo fece capire a Padre Bernardo di avvicinarsi e quando gli fu accanto sollevò la mano perché l'aiutasse ad alzarsi. Quindi, sorridendo, lo invitò a seguirlo verso il fondo della chiesa.

    La luce delle torce ingigantiva le rughe sulla fronte del Priore e un'avanzata calvizie rendeva ormai irriconoscibile la tonsura. L'età reclamava il suo triste obolo, ma se l'incedere di Padre Filippo era un po' traballante, gli occhi avevano conservato la vivacità d'un tempo.

    «Caro Bernardo» si rivolse con familiarità a quello che considerava uno dei confratelli con maggiore esperienza all'interno dell'Abbazia, «Il mio animo, col passare degli anni, si fa sempre più sensibile e questo mi provoca grandi consolazioni insieme a grandi turbamenti. Ho fatto un sogno questa notte. Un'orrida bestia, una specie di drago, minacciava il convento. Tutti fuggivano e urlavano, ma uno dei novizi affidati alle tue cure, Giuseppe di Livotorto si parò dinanzi al mostro fronteggiandolo. Invano da più parti si levarono voci per pregare il ragazzo di venir via, ma lui... non si muoveva finché...»

    La voce dell'anziano frate s'incrinò e i lineamenti del volto si contrassero come se i suoi occhi stessero rivivendo le terribili immagini appena descritte. Poi, facendosi coraggio, con un sospiro continuò: «Il drago... spalancò le sue enormi fauci, si chinò sul ragazzo e... l'azzannò. Ne fece strazio fino a rilasciarlo esanime a terra... orribilmente dilaniato.»

    Il Priore si portò una mano alla fronte, quindi, con tono accorato, si rivolse al Maestro dei novizi: «Fratello... sono... preoccupato, ho... timore che possa capitare qualcosa ai nostri...»

    «I sogni possono essere premonitori ma a volte riflettono solo le nostre paure, quello che non vorremmo accadesse mai. Forse, quanto avete sognato dimostra semplicemente la sollecitudine di un padre per il bene dei suoi figli.»

    «Voglia il cielo che sia così, Frate Bernardo, voglia il cielo.»

    II Capitolo

    Torna all’indice

    Terza - Primo giorno

    «Padre!» udì il maestro dei novizi mentre, assiso sui sedili di pietra del lato nord del porticato del chiostro, era assorto a meditare su quali passi affidare al lettore di mensa.

    «Cosa c’è Giuseppe?» chiese Fra Bernardo sollevando gli occhi sul ragazzo che gli si era avvicinato.

    «Debbo chiedervi il permesso di raggiungere la casa di mio padre» proseguì il novizio con tono perentorio. «La donna che mi ha fatto nascere e mi ha cresciuto da che mia madre, nel mettermi al mondo, morì, giace gravemente malata e ha chiesto di vedermi» precisò il giovane. «Credo» riprese con la voce leggermente incrinata «che non le resti molto tempo.»

    «Perché chiedi a me il permesso?» domandò il frate. «C’è il Priore che…»

    «Il Reverendissimo Padre Filippo» lo interruppe il novizio «a cui già mi sono rivolto, ha detto di non avere nulla in contrario alla mia richiesta, ma di subordinare il suo consenso alla vostra preziosissima opinione.»

    A Fra Bernardo parve di riconoscere una sottile vena d’ironia nelle parole del suo allievo, tanto che arrivò persino a dubitare che il Priore avesse usato l’aggettivo preziosissima per riferirsi alla sua opinione. «Se il Capo di questa Casa ha espresso il suo consenso, come potrei io negarlo» decise alla fine di rispondere, raccogliendo un mezzo sorriso dal giovane postulante.

    Ragazzo difficile, giudicò il frate non appena Giuseppe di Livotorto si fu allontanato per raggiungere il carro che lo aspettava nel piazzale. D’intelligenza acuta, sebbene sovente preda dell’ira e incline al sarcasmo, il giovane riscuoteva l’interesse e le simpatie del Maestro dei novizi, il quale vedeva in lui qualcosa di buono, qualcosa di più profondo di quello che trapelava, celato dietro la scorza rude di cui il novizio era solito ammantarsi.

    Il silenzio del chiostro era totale. Sembrava quasi che con la partenza di Giuseppe di Livotorto fosse divenuto più profondo tanto che il frate si dedicò senz’altro indugio ai brani da leggere per il pranzo che si sarebbe tenuto all’ora sesta.

    A Padre Bernardo tornò in mente la prima volta che aveva ricevuto l’onore di fare il lettore di settimana. Si trovava all’Abbazia di Fossanova, nel grande refettorio con il bel pulpito di pietra che sovrastava la tavolata ove sedevano i confratelli. Ricordava ancora le parole dell’Inno che bene si adattavano allora all’animo del giovane che, con voce rotta dall’emozione, recitava:

    Glorioso e potente Signore,

    che alterni i ritmi del tempo,

    irradi di luce il mattino

    e accendi di fuochi il meriggio…

    Il maestro dei novizi si rivide nei panni di chi, di lì a poche ore, saltando il pasto per consumarlo in seguito con i fratelli adibiti ai servizi settimanali di cucina e di mensa, avrebbe letto o cantato in refettorio, prendendo solo un po’ di vino prima di edificare l’uditorio con la sua voce. Decise, quindi, di scegliere l’Inno che poco prima aveva ricordato a memoria e di procedere con la lettura: Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio…

    Padre Bernardo si rese conto immediatamente di quanto l’ascolto della Parola avrebbe potuto far bene a Giuseppe di Livotorto, la cui educazione e crescita spirituale maggiormente lo preoccupavano tra i novizi. Si augurò, quindi, di riaverlo in convento per il pranzo, all’ora sesta, confidando nella capacità della Scrittura di toccarne la sensibilità e di placare quel suo animo così irrequieto ed esuberante, facile all’inquietudine e spesso riottoso alla disciplina.

    Un rumore cupo e lontano giunse tra le mura dell’Abbazia, ferendo lievemente il silenzio incontrastato del chiostro. Nubi nere dovevano essersi addensate sui monti e il vento, sollevatosi all’improvviso, recava distinto l’odore della pioggia.

    Il maestro dei novizi accusò un brivido di freddo mentre una folata più forte lo investiva carezzandogli rudemente le guance. Molti dei suoi confratelli sarebbero stati capaci di prenderlo per un cattivo presagio, ma non lui: la sua mente razionale e la sua fede assoluta nella provvidenza lo spingevano risolutamente a scacciare qualsiasi pensiero che sarebbe potuto facilmente scadere nella superstizione.

    A Giuseppe fece un certo effetto rimettere piede nella casa paterna, rivedere il cortile dove, bambino, aveva giocato tante volte con il fratello ad inseguire le lucertole tra le fenditure delle pietre del muretto, risalire gli alti gradini che conducevano alle stanze da letto, respirare il profumo dei dolci nel forno, rintuzzare le feste scodinzolanti di Osso e di Macchia, lasciati cuccioli e ritrovati ormai splendidi cani da caccia.

    Il visitatore non fu accolto dal padrone di casa – il padre si era dovuto allontanare per un affare importante, come gli fu spiegato – ma da Benedetto, il maggiore, che gli si fece incontro dandogli il benvenuto dalla soglia della stanza dove la levatrice stava combattendo la sua ultima battaglia contro la morte. «Ti trovo bene fratello» gli disse accennando un sorriso «l’aria del convento ti sta facendo bene.»

    «Già» rispose asciutto Giuseppe «è… qui?» riferendosi alla stanza da dove Benedetto era uscito per salutarlo.

    «Oh, certo, vai, vai» riprese questi «è da ieri che non fa altro che parlare di te tutto il giorno. Non volevamo disturbarti, distoglierti dalle… tue occupazioni insomma, ma… ha insistito tanto e… sai com’è fatto nostro padre, ha preteso che l’accontentassimo e ti ha fatto mandare a chiamare. È rimasto molto dispiaciuto quando ha saputo che non ci sarebbe stato al tuo arrivo. Gli avrebbe fatto piacere salutarti di persona.»

    Giuseppe non rispose, ma fece per entrare deciso nella stanza. Benedetto, intuendone le intenzioni, si spostò di lato per lasciarlo passare. «Vi lascio soli!» esclamò non appena il fratello ebbe varcato la soglia «Mi scuserai, ma debbo impartire alcuni ordini alla servitù. Nostro padre si è raccomandato che, in sua assenza, sia io ad occuparmi di mandare avanti questa casa. Bene. Se ti fermerai per il pranzo ci rivedremo più tardi, altrimenti porgi i saluti di nostro padre al reverendissimo Priore» e, così dicendo, sparì dalla vista.

    Erano sempre stati diversi Benedetto e Giuseppe, tanto freddo e razionale il primo quanto passionale e impulsivo il secondo. Le differenze, crescendo, li avevano fatti allontanare e, prima che Giuseppe entrasse in convento dietro raccomandazione paterna, i loro rapporti si erano ridotti ad una cordialità di facciata e ormai andavano consumandosi stancamente nella più completa indifferenza. La stessa indifferenza che Benedetto sembrava mostrare per tutto ciò che lo circondava, non amando lasciarsi coinvolgere dagli accadimenti e volendo, costantemente, conservare il controllo di se stesso e delle situazioni. L’esatto contrario

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