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Amore e caffè vanno serviti caldi
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E-book242 pagine4 ore

Amore e caffè vanno serviti caldi

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Info su questo ebook

Lorenzo Donati non avrebbe mai voluto che accadesse tutto questo! Viveva una vita serena e tranquilla. Faceva l'investigatore privato per casi semplici e sicuramente non pericolosi. Fino a che non accettò di partecipare ad una festa. Una festa in cui destino iniziò a ricamare la sua trama.

LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2014
ISBN9781311523518
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    Anteprima del libro

    Amore e caffè vanno serviti caldi - Andrea Crippa

    Puoi svegliarti anche presto all'alba ma il tuo destino si è svegliato mezz'ora prima di te

    Alla festa nella sua villa di Bellagio l'ingegnere Tucci aveva invitato tutti i suoi conoscenti, i parenti, senza dimenticarsi ovviamente dello studio di avvocati che lo aveva difeso di fronte al foro di Milano.

    Lorenzo Donati era l'unico invitato che non facesse parte della famiglia o dell'entourage dell'ingegnere. Era stato tra i primi a ricevere l'invito: una forma di ringraziamento per le prove che aveva trovato scagionando Tucci dalle accuse di corruzione.

    Donati avrebbe fatto a meno dei ringraziamenti ma soprattutto avrebbe fatto a meno della festa. Potrà dirsi banale o venale, ma a lui bastava correttezza ma soprattutto il pagamento regolare delle parcelle.

    Non aveva confidenza con i suoi clienti. Non aveva confidenza con nessuno a dire la verità.

    Non si era mai divertito alle feste, come non aveva mai nemmeno finto di divertirsi.

    Non si ricordava di aver mai partecipato a due feste organizzate dalla stessa persona. Di norma dopo la prima partecipazione non veniva più invitato. Per sua fortuna, nonché merito.

    Erano le otto di sera quando Donati decise di prepararsi. La barba la aveva già fatta di prima mattina ma, dopo la doccia, guardandosi allo specchio convenne di radersi nuovamente. Provati tutti e tre i suoi completi estivi, abbinandoli a numerose cravatte dai colori improbabili, aveva deciso di arrendersi all'ultimo accostamento. Alle otto e mezza era pronto. Lasciata la stanza della locanda dove alloggiava oramai da molti anni scese lentamente le scale ritrovandosi nella sala da pranzo.

    C'era un discreto numero di avventori che già affollavano a locanda.

    «Guardali i fortunati» pensò Donati, «si stanno godendo la cucina di Monica senza il disturbo di dover presenziare a quella dannata festa».

    La moglie dell'oste era originaria di Bari mentre il marito era nato a Lecco, poco lontano dalla locanda che apparteneva alla sua famiglia da sempre. Il connubio di queste due cucine, per mezzo delle venerabili mani di moglie e marito, aveva generato un nuovo modo di fondere aromi e sapori.

    Il profumo che proveniva dalla cucina era inequivocabile: Monica aveva già pronte le orecchiette alla contadina mentre Carlo era sicuramente intento a preparare gli agoni in carpione.

    «Ispettore, ma non si ferma a cena?» disse Carlo con una punta di delusione, non appena intravide Donati che stava per uscire dalla sala. Nonostante fosse oramai da tempo in congedo dalla Polizia di Stato, l'oste continuava a chiamarlo ispettore.

    «No Carlo, ti ringrazio: ho poco appetito» che triste bugia pensò Donati «e comunque ho un appuntamento a cena con dei clienti» aggiunse poco convinto lui stesso della sua affermazione.

    Carlo si era nel frattempo avvicinato all'amico tanto da non poter essere sentito da altri «peccato Lorenzo, ho preparato i primi misoltini della stagione!» mimando il gesto di chi stacca i pesci dopo l'essiccazione.

    A questa notizia Donati non era preparato. Da quando era stato trasferito alla Questura di Lecco dalla sua città natale Forlì, non si era mai perso la prima apparizione dei misoltini sulla tavola della locanda. Carlo pescava di persona gli agoni in una località che non aveva mai voluto rivelare ad anima viva ed eseguiva direttamente tutta la lavorazione con sale, essiccazione e il riposo nelle scatole di latta: le misolte appunto.

    «In fondo sono solo uno dei tanti invitati e di sicuro uno dei meno socievoli» pensò l'ispettore in congedo. Sarebbe arrivato tardi, è vero, ma chi mai avrebbe notato il suo ritardo?

    Il pensiero non fece in tempo ad allontanarsi dalla sua mente che Donati era già seduto. Il suo tavolo era sempre libero, nell'angolo più remoto della sala. Carlo non lo aveva mai lasciato ad altri clienti nemmeno in caso di gran pienone. L'amico lo aveva abituato ad arrivare a qualsiasi ora e sempre con un considerevole appetito.

    Donati per rimanere leggero si fece portare solo un carpione di agoni, le orecchiette e due porzioni di misoltini. Il tutto innaffiato da un buon Scernì bianco.

    Non mancò un primo prosit per Tucci e un secondo per aver già perso metà festa.

    La prima volta che Donati entrò nell'Osteria del Lac fu per caso.

    Era stato assegnato alla Questura di Lecco come ispettore capo. Il giorno del trasferimento, giunto alla stazione ferroviaria aveva percorso la strada in porfido che scende verso il lago e lì si era fermato ad ammirare lo spettacolo della tempesta. Uno degli eventi più rari e temibili stava imperversando. In pochi minuti il vento freddo proveniente dalla Svizzera aveva portato con sé grosse nuvole nere: lo scontro tra l'aria fredda dei ghiacciai e quella calda del lago aveva provocato grosse trombe d'aria; un vento impressionante aveva iniziato a battere la città formando onde raramente visibili in uno specchio d'acqua così stretto come il ramo di Lecco. L'acqua era torbida e scura; si infrangeva violentemente sulla riva oltrepassando l'argine e inondando la strada costiera.

    Donati fu sempre convinto che quel giorno il lago aveva voluto dargli il benvenuto, a modo suo. Mentre vedeva la furia aumentare, Donati aveva deciso di trovare un riparo entrando nell'Osteria del Lac, un ristorante riconoscibile per delle curiose 'i' disegnate sui muri con mattoni rossi.

    Una lavagnetta, traballante per il gran vento, indicava chiaramente il menù del giorno e la presenza di camere sfitte. La mobilia doveva essere stata acquistata prima della Grande Guerra come pure le tovaglie e le tende fatte della medesima stoffa a quadri bianchi e rossi. Innumerevoli foto in bianco e nero mostravano una smisurata passione per la montagna e per le antiche usanze dei contadini e pastori lombardi.

    L'unica miglioria all'ambiente sembrava essere stata la perlinatura alle pareti ed una splendida, quanto inaspettata in quell'ambiente, stube tirolese in maiolica.

    L'ispettore prese una stanza per la notte e vi fu accompagnato dall'oste.

    Mentre salivano le strette scale in pietra che portano al piano superiore Donati aveva chiesto informazioni sul vecchio seduto all'ingresso della locanda. Il suo comportamento aveva catturato la curiosità dell'ispettore: incurante della pioggia e del vento se ne stava seduto su una panchina posta alla destra dell'ingresso della locanda; le mani appoggiate ad un vecchio bastone, il volto rugoso e segnato dal sole era fisso sul lago.

    Antonio, questo era il nome dell'anziano. Si trattava di una istituzione per l'osteria, praticamente da sempre era stato legato al padre dell'oste; ora che la locanda veniva gestita dal figlio, Antonio continuava a frequentarla giornalmente.

    «Non sperate di ricevere risposta da Antonio» commentò l'oste «e comunque non in italiano».

    «E in quale altra lingua dovrebbe rispondermi?» aveva pensato Donati. La risposta era arrivata due giorni dopo quando per la prima volta aveva sentito il vecchio mentre parlava con un avventore: si esprimeva esclusivamente in stretto dialetto lariano difficilmente comprensibile dall'ispettore nei suoi primi mesi di permanenza alla locanda.

    Uscito dall'osteria dopo il leggero assaggio delle prelibatezze del giorno, Donati si diresse verso il lago. Su una panchina sedeva Antonio che, con aria compiaciuta e divertita, fissava Donati e il suo vestito.

    «Sto andando a una festa a Bellagio» disse Donati quasi giustificandosi per il vestito.

    L'aria compiaciuta di Antonio si trasformò in un gran sorriso «Oh Lurenz!» lo biasimò il vecchio «ricurdes che el lagh de Comm el g'ha la furma de 'n omm; una gamba a Lecch e quell'otra a Comm, el nas Dumas èl cuu a Belas» disse Antonio sorridendo e sottolineando l'ultimo capoverso come se Bellagio non meritasse di essere frequentato.

    Donati sorrise pensando quanto il campanilismo fosse simile in tutta Italia e come fosse capace di piegare la realtà fino a sfottere un paese anche solo per la sua posizione geografica.

    Per raggiungere la villa dell'ingegnere, Donati aveva deciso di utilizzare il traghetto che percorre la rotta da Lecco a Bellagio. Non doveva guidare e si sarebbe goduto la traversata del lago che non riusciva a fare tanto spesso quanto avrebbe voluto.

    Navigare sul lago nelle sere di primavera donava sensazioni splendide. Sia per la gradevole temperatura dovuta alla brezza che da nord rinfrescava le notti lariane, che per il magnifico teatro di stelle che una navigazione nel centro del lago sapeva regalare.

    La primavera si era fatta attendere fino all'ultima settimana di maggio quando, dopo molti giorni di vento e pioggia, il sole aveva fatto capolino dalle nuvole e da allora non aveva più lasciato la scena, alternandosi con la luna in una danza incessante.

    Donati acquistò un biglietto di andata e ritorno all'imbarcadero e salì immediatamente sul traghetto che nel frattempo era attraccato al molo. Come sempre si sedette all'esterno per godere della navigazione.

    I boschi che di giorno rispecchiano nell'acqua il loro colore verde acceso, ora erano avvolti da una profonda oscurità.

    Il cielo era illuminato da una miriade di stelle. In quella notte l'assenza della luna aiutava a distinguere perfettamente tutte le costellazioni. L'acqua del lago era ancora più nera dei boschi circostanti; qualche riflesso creato dai fari delle macchine che costeggiavano il lago squarciava come una lama quel ventre cupo in cui Donati amava perdersi.

    Non aveva mai avuto paura del buio. La sua vera vita era nata dal buio all'età di tre anni quando era stato adottato da una famiglia di Forlì. Prima dell'incontro con i suoi genitori adottivi c'era solo una grande oscurità nei suoi ricordi. Ogni sforzo per ricordare restituiva solo tristezza; o forse era meglio dire sofferenza.

    Il giorno in cui incontrò i suoi genitori adottivi, i suoi veri genitori iniziò la luce.

    Li terminò il primo capitolo della sua vita.

    Il vuoto lacerante aveva iniziato a colmarsi a poco a poco solo durante i primi anni della sua infanzia.

    L'adolescenza aveva rimesso tutto in discussione. Venne in quel tempo la presa di coscienza di essere stato abbandonato.

    Questo era il nodo di tutto.

    Un nodo che gli aveva stretto la gola come un cappio. Perché era stato abbandonato? Perché non esistevano informazioni che potessero aiutarlo a capire? Perché i suoi genitori adottivi non erano in grado di rispondere a tutte le sue domande? Perché allora erano così sicuri che la causa dell'abbandono non fosse stato il suo comportamento con i genitori biologici?

    Crescendo si era dato delle risposte, le uniche ponderabili. L'amore dei genitori adottivi aveva fatto il resto. Aveva capito che loro erano i suoi genitori, loro erano il padre e la madre, loro avevano generato quello che era diventato. La ferita era guarita ma gli strascichi erano ancora presenti. La sua diffidenza, la sua introversione, il suo modo di fare scorbutico e irascibile erano sempre pronti a ricordargli il suo passato, poiché venivano dal suo passato.

    Ed era quel suo stesso passato che lo aveva fortificato, reso immune alle miserie che era costretto a condividere con i suoi clienti. Suicidi, omicidi, violenze di ogni tipo e perversione. Questi erano i reati su cui di norma lavorava; su cui meditava la notte, dei quali cercava sempre il movente.

    Le risposte alle sue domande le trovava sempre. Capiva come si svolgevano i delitti, trovava i colpevoli, spesso individuava i moventi: o almeno quelli che sarebbero stati sufficienti per una giuria. Al contrario non riusciva mai a capacitarsi come un padre potesse abusare dei figli; o come un figlio potesse uccidere i genitori.

    La sirena del traghetto fece sobbalzare Donati distogliendolo dai suoi pensieri. Gli venne in mente l'indagine appena terminata; non perché fosse rimasto impressionato da particolari fatti o situazioni, ma per una sensazione di disagio che gli provocava.

    L'argomento che lo faceva maggiormente pensare era il caso di corruzione in sé. Se fosse stato il giudice delle indagini preliminari, Donati avrebbe archiviato immediatamente il caso senza procedere oltre. Certo lui poteva contare su molti anni di esperienza che al contrario il giudice in questione non aveva. Ciononostante la facilità con cui aveva potuto dimostrare l'innocenza di Tucci dimostrava quanto fosse stato banale quel caso.

    L'unica spiegazione per cui il giudice poteva aver deciso di proseguire con le indagini e andare in giudizio era l'equazione secondo la quale un imprenditore edile di grande importanza doveva per forza aver corrotto degli amministratori pubblici per potersi arricchire.

    Una seconda sirena annunciò l'imminente arrivo al molo di Bellagio.

    Appena girato il promontorio, ancora prima di vedere le luci del porto non si poteva far a meno di essere rapiti dai colori dei fuochi artificiali provenienti da una splendida villa ottocentesca, illuminata a giorno per l'occasione. Ad occhio e croce quattrocento invitati animavano già la villa come il parco ad essa adiacente. A questa vista, Donati rimpianse amaramente d'aver accettato l'invito; in cuor suo era quanto mai deciso a tornare a casa il prima possibile.

    Giunto al molo, Donati si incamminò a piedi e in pochi minuti giunse ai cancelli della villa di Tucci. Non si ricordava di esserci mai entrato. Moltissime ville sul lago di Como erano aperte ai visitatori i quali potevano godere dei loro meravigliosi giardini. Questa villa invece Donati se la ricordava perennemente chiusa e vuota.

    Tucci gli aveva garantito che sarebbe stato un semplice incontro di ringraziamento. Il sobrio ritrovo tra pochi intimi, come lo aveva descritto l'ingegnere per tranquillizzare Donati ed invogliarlo ad essere presente, si rivelò nella sua vera natura fin dal primo istante.

    I vialetti del parco della villa erano illuminati da fiaccole in bambù infilzate a terra, la maggior parte degli alberi erano addobbati con lunghi fili di luci bianche che ne risaltavano la struttura creando l'illusione di un giardino d'inverno. Grandi fari puntavano dal basso sulle facciate della villa facendone risaltare i preziosi altorilievi, le numerose opere presenti nel giardino e le statue di numerosi felini allineate lungo il lato destro della villa.

    Numerose tavolate erano state disposte lungo i viali del parco adiacente alla villa; ogni buffet era imbandito con una specialità differente di pietanza, ognuna delle quali era accompagnata dai vini più adatti, serviti da camerieri in livrea.

    Una piscina era stata installata di fronte alle doppie scale della facciata principale della villa. Era ricolma di acqua, diverse ragazze invitate per quell'occasione, vi si erano già tuffate e stavano giocando tra di loro.

    Diversi bersò addobbati con motivi caraibici piuttosto che africani, asiatici o sudamericani fungevano da punti nevralgici dell'intrattenimento. Ognuno aveva il suo arredamento e stile. Alcuni addirittura possedevano una piccola pista da ballo ovviamente con musiche nel medesimo tema dello stile del bersò.

    Donati cominciò a passeggiare nervosamente per i vialetti del giardino a volte incuriosito dalle persone che incontrava, a volte divertito.

    Gli invitati erano per lo più ragazzi giovani, in contrasto con quanto si era aspettato.

    L'ingegnere Tucci era un sessantenne con pochi interessi per le nuove generazioni. Non aveva figli ed era molto riservato nelle sue conoscenze. Gli invitati erano molto curati nei vestiti e spesso si vedeva una precisione maniacale con cui molti si sistemavano i capelli o altri accessori di abbigliamento.

    A Donati sembrava di essere in un party con divi di Hollywood. Gli atteggiamenti di superiorità e i discorsi quasi completamente incentrati sulla moda e la mondanità diedero una ulteriore conferma all'ispettore che si trovava nel posto sbagliato con le persone sbagliate.

    Più li guardava, divertito dai loro atteggiamenti, più gli sembrava di essere lontano anni luce da loro. Sicuramente il suo pessimo carattere non gli aveva dato la possibilità di farsi molti amici con cui confrontarsi da ragazzo come nemmeno da adulto.

    Erano cambiati così tanto i giovani da quando lo era stato lui? Cosa li ispirava, cosa li muoveva? Si trattava di edonismo? Epicureismo? Narcisismo?

    Poteva essere cambiato il mondo così velocemente? «In fondo,» pensò Donati, «i ragazzi di oggi non potevano essere così diversi da come era stato lui in passato. Era passata una sola generazione in fin dei conti! O almeno lo sperava».

    Forse anche suo padre aveva pensato la stessa cosa di lui quando da giovane, invece di dedicarsi al lavoro si impegnava nello sport o si dedicava all'informatica.

    Comunque mise le mai avanti ringraziando, ancora una volta, di non avere avuto figli.

    Donati decise allora di lasciare il giardino e di entrare nella villa.

    Dopo aver passato una dopo l'altra le prime quattro stanze senza riconoscere nessuno degli inviati, l'ex ispettore di polizia si era convinto che i suoi presupposti di una brevissima permanenza alla festa erano sfumati: avrebbe voluto incontrare rapidamente qualcuno che poi potesse confermare la sua presenza alla festa. Non gli interessava incontrare Tucci o altri, bastava che qualcuno lo vedesse.

    Visti gli scarsi risultati tanto valeva a questo punto unire l'utile al dilettevole. Donati si mosse veloce attraverso la sala centrale e uscì nuovamente in giardino; si diresse verso il tavolo più vicino nella speranza di trovare una qualsiasi pietanza calda: i piatti freddi, soprattutto se consumati in piedi, gli erano sempre risultati indigesti.

    Il menù proposto dal primo tavolo imbandito risultò per lui non commestibile: sushi giapponese in tutte le sue forme e sapori.

    Gli altri ospiti erano assolutamente deliziati dalle scelte gastronomiche del padrone di casa: vere e proprie resse presso i molti tavoli imbanditi sottolineavano quanto fosse una sua personale diffidenza quella che provava per tutti i cibi che non provenissero dall'Italia.

    Sempre più innervosito dalla situazione, Donati decise di riprendere la sua ricerca estendendola al parco della villa, intenzionato a incontrare il prima possibile almeno una persona conosciuta.

    Risollevato come dall'apparizione della Madonna, Donati scorse da lontano l'avv. Costantini, socio anziano dello studio legale che difese Tucci. Di tutto lo studio, l'avvocato Costantini era l'unico che godeva della stima di Donati sia per il rispetto che aveva per tutte

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