Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Scirocco e zagara: Un giallo siciliano per il maresciallo Mariangelo
Scirocco e zagara: Un giallo siciliano per il maresciallo Mariangelo
Scirocco e zagara: Un giallo siciliano per il maresciallo Mariangelo
E-book193 pagine2 ore

Scirocco e zagara: Un giallo siciliano per il maresciallo Mariangelo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Mariangelo mastica amaro. Il cadavere di padre Giovanni Rossi, noto alle cronache per i suoi affari con la malavita locale e l’accoglienza dei migranti, viene trovato nella piscina della sua lussuosa villa. Mentre le alte sfere ecclesiastiche chiedono una rapida risoluzione del caso, il maresciallo Mariangelo e il brigadiere Fascia si fanno largo tra prostituzione, mafia, traffico di migranti e un progetto di accoglienza per orfani. Finiranno in una fiaba nera come la notte più buia, un inferno dal quale non vi è uscita e le nefandezze umane sono lame nel costato dei giusti. Nell’oscurità del crepuscolo le acque del lago si increspano. Una sirena, catturata nelle reti di un pescatore, è costretta a vivere lì, mentre un mostro a sei zampe la osserva, pronto a stringerla nella sua morsa. È proprio il mostro a stuzzicare la voglia di giustizia del maresciallo. Sullo sfondo della città di Barcellona Pozzo di Gotto, tra i sapori di una Sicilia che profuma di Zagare
granite, mentre il sole ottunde le menti e il sangue scorre, invadendo il letto del Longano, Gianluca dovrà sfidare la sua angoscia per il mare e salvare quel che resta del suo matrimonio con Giuseppina, desiderosa di un figlio e di vivere nella sua città natale: Lipari. È proprio nel mare della paura che si nasconde la soluzione alla prima indagine del maresciallo Mariangelo.

Antonino Genovese, classe ʹ84, è Anestesista, Rianimatore e Algologo. Ha pubblicato per ragazzi Il Principe Marrone (Ed. Il Foglio 2007), Il Dottor Maus e il settimo piano (Ed. Smasher 2009), Il Nonno è un pirata! – Il diadema, la lancia e l’uncino (Ed. Il Foglio 2017), Il Nonno è un pirata! – Il Guardiano del tempo (Ed. Il Foglio 2019). Il racconto Zanne è incluso nell’antologia Mosche contro vento (Morellini 2019). Nel 2005 ha vinto il concorso “Racconti Corsari” presieduto da Bruno Gambarotta. Nel 2017 ha vinto il IV concorso letterario “M. Pietrini” organizzato dall’Ass.ne Ca.Le.Co. di Caltagirone (CT) con il racconto Discesa. Nel 2018 il romanzo Il Nonno è un pirata! – Il diadema, la lancia e l’uncino ha ricevuto una menzione al “Premio al valore sociale-AFAP” organizzato da Paginascritta. Nel 2019 si è classificato secondo al premio letterario “Tutti i sapori del giallo” in collaborazione con Il Giallo Mondadori. È il direttore artistico del Gioiosa Book Festival.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2020
ISBN9788869434174

Correlato a Scirocco e zagara

Ebook correlati

Poliziesco per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Scirocco e zagara

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Scirocco e zagara - Antonino Genovese

    Capitolo 1.

    – Devo smetterla di bere! – rimuginò tra sé Bruno Oliva, mentre l’alba dava inizio a una nuova giornata.

    Se il parrino mi vede in queste condizioni, stavolta mi licenzia, pensò.

    Rischiava di perdere il lavoro che gli permetteva a stento di pagare le bollette. Padre Giovanni Rossi aveva una bontà smisurata, ma non poteva approfittarsene.

    Il parroco era stato chiaro: – Ti aiuto solo perché tua sorella è venuta a supplicarmi. Tu hai bisogno di un lavoro. Ti assumo io, ma smetti di bere!

    Per effetto del vino che aveva ancora in corpo sentiva l’ammonizione rimbombargli nelle orecchie, anche a distanza di mesi.

    Senza pensarci troppo, aveva colto al volo l’occasione. Il lavoro era sicuro e ben pagato. Aveva rispolverato la sua abilitazione di metronotte ed era stato assunto. Il suo compito era quello di vigilare sulla villa di Padre Giovanni durante le ore notturne. Doveva solo stare accorto che nessuno ficcasse il naso. Il parroco abitava da solo, ogni tanto riceveva qualche visita, ma il più delle volte accadeva di giorno, quando lui era libero. Negli ultimi giorni c’era stato un viavai di personaggi, cuochi, camerieri, giardinieri, manutentori e anche gente illustre. Padre Giovanni Rossi stava organizzando una raccolta fondi per sostenere un progetto benefico. Voleva costruire un ospedale in Guatemala.

    Bruno Oliva asciugò le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte sporgente. Annusò le ascelle. Puzzava. L’odore di vino trasudava dalla pelle e dai vestiti. Tirò fuori dall’anta di un armadietto una boccia di profumo economico e ne spruzzò una dose generosa. Il risultato fu pessimo. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, nella speranza di eliminare l’alone della sbornia. La sera prima si era appisolato come un coglione, buttato giù dalla fiaschetta da quattro litri di un rosso corposo e fruttato.

    Dopo aver rassettato la divisa, controllò la pistola che portava al fianco e fece il giro dell’abitazione, come ogni mattina. Si accorse subito che qualcuno aveva lasciato la luce accesa in piscina.

    Bella vita, quella dei preti, pensò, mentre passava un panno umido sul collo tozzo. Come padre Giovanni Rossi avesse potuto realizzare quell’abitazione lussuosa, con piscina e rifiniture di pregio, proprio non riusciva a comprenderlo. A meno che le fandonie scritte dai giornali non avessero un fondo di verità. A Bruno non importava, il suo unico interesse erano i quattro soldi che gli arrivavano sul conto corrente ogni mese.

    Scacciò via i pensieri e continuò il giro d’ispezione. Se padre Giovanni avesse trovato la luce accesa, un cazziatone non glielo toglieva nessuno.

    Attraversò il cortile a passo spedito. Mentre si dirigeva verso l’interruttore della luce notò un movimento sospetto; non era la prima volta che qualche animale selvatico si abbeverava in piscina, creando scompiglio. La vista, annebbiata dai bagordi notturni, non gli permetteva di mettere a fuoco l’oggetto informe che galleggiava senza vergogna. Man mano che si avvicinava il sentore che non fosse un animale selvatico, ma qualcos’altro non meglio definito, iniziò a procurargli una certa ansia.

    All’improvviso si bloccò. Le gambe persero vigore, non riuscivano a sostenere il peso del suo corpo tarchiato. Bruno fu colto da un malore quando capì che a galleggiare era il corpo di un uomo. Un tremore diffuso lo costrinse ad appoggiarsi alla scultura di marmo della Madonna Addolorata, la quale vacillò pericolosamente. Il sudore, asciugato con parsimonia pochi minuti prima, tornò con arroganza a inondargli le ascelle. Il cuore, placato dalla bella dormita fatta, tentò di fuggire dal petto. A piccoli passi si avvicinò alla piscina. I dubbi che lo avevano assalito furono subito chiariti. I battiti incessanti gli squarciavano il torace. Riconobbe subito il corpo senza vita: era proprio padre Giovanni.

    Il maresciallo Gianluca Mariangelo saltò letteralmente in aria quando la moglie, Giuseppina, gli servì la tazzina di caffè tirandogliela. Per un pelo si scansò ed evitò una macchia sulla divisa.

    – Attenta!

    Il silenzio della moglie significava battaglia; quando era posseduta dalla smania di litigare l’esperienza gli suggeriva che era meglio desistere; dopo sette anni aveva imparato a conoscerla: meglio dargliela vinta e poi chiedere l’armistizio, altrimenti la sconfitta sarebbe stata più dolorosa.

    – Il tredici luglio si avvicina. Voglio vedere dove mi porti quest’anno!

    La provocazione ebbe il potere di farlo agitare, nonostante la sua cautela. Abbandonò i buoni propositi di pace.

    – Ti ho mai deluso? È il nostro settimo anniversario e sarà all’altezza degli altri.

    – Il solito ristorante! – Giuseppina si esibì in una smorfia emblematica.

    Sapeva dove voleva andare a parare la moglie: il suo sogno era vedere i delfini in mare aperto.

    Un tempo, Gianluca amava il mare. Era nato e cresciuto a Barcellona, non la metropoli catalana, ma una cittadina del messinese sorta intorno a Pozzo di Gotto che, prima e meglio di qualsiasi sovrano straniero, aveva reso florida quella lingua di terra che separa il Golfo di Patti dai verdi pendii dei Peloritani. Aveva trascorso la sua giovinezza sulle infinite spiagge di Spinesante e, nell’estate del ’94, preferiva ancora un’uscita in barca a vela col suo amico Giovanni Casale ai mondiali di Roberto Baggio. Si trovavano a qualche chilometro dalla terraferma, quando la barca si capovolse e i due amici finirono in mare. L’arrivo della Guardia Costiera li aveva tratti in salvo dopo due ore di attesa in balia dell’ira di Eolo. L’amico di sventura diventò negli anni a seguire un anestesista rianimatore rispettato, mentre lui aveva vinto il concorso nei carabinieri ed era diventato maresciallo… ma gli era rimasta la fobia dell’acqua. C’erano giorni in cui sposava le teorie induiste e si convinceva di essere stato un gatto in una vita passata.

    – Sai benissimo che io non vado in mare aperto! – urlò Gianluca.

    – Per colpa delle tue paure, io devo rinunciare ai miei sogni! Ho sbagliato a sposarti. Sei il male della mia vita!

    Il male della sua vita. Quelle parole lo avevano ferito. Si sentiva un relitto alla deriva, come quella volta di tanti anni fa, in cui era rimasto appeso alla barca a vela capovolta, aspettando i soccorsi.

    Ma non se ne parlava proprio di trascorrere un’intera giornata su un gommone, per di più in compagnia di fanatici del mare in cerca di delfini.

    Gianluca uscì di casa senza salutare, maledicendo nella propria mente ogni genere ittico conosciuto. La giornata era cominciata male, ma la chiamata di Fabio lo aveva messo ulteriormente di malumore: non si sarebbe mai abituato alla vista dei cadaveri.

    Anche quella volta non si smentì e la scena del corpo senza vita di padre Giovanni Rossi gli procurò conati di vomito a ripetizione. Il caffè bevuto poco prima si prendeva gioco di lui sul prato della villa, situata nella frazione collinare di Maloto, a poche centinaia di metri dal parco Jalari. Soltanto dopo essersi liberato poté dedicarsi al dottor Federico Ignazzitto, il medico legale chiamato dalla procura, il quale non faceva altro che ridere di sottecchi per il voltastomaco del maresciallo.

    – Mangiato pesante?

    Alla battuta risero tutti i presenti. Gianluca incassò il colpo. Conoscevano tutti il suo punto debole. Con un po’ di fortuna e un pizzico di maestria gli omicidi li lasciava ai colleghi più ambiziosi. Negli ultimi anni per fortuna le guerre mafiose si erano ridotte e le uniche morti violente erano quelle causate dagli incidenti stradali.

    Represse l’ennesimo conato e strinse i denti.

    – Marescia’, resistete.

    – Resisto, Patrick, resisto!

    Adesso le risate erano tutte indirizzate al brigadiere capo Fabio Fascia, con quella sua pettinatura che richiamava, alla lontana, Patrick Dempsey, sebbene le somiglianze finissero lì.

    Il corpo di padre Giovanni galleggiava a pancia in giù immerso nell’acqua della piscina. Gianluca notò le pregiate finiture del giardino, il prato inglese curato e le statue, raffiguranti effigi ecclesiastiche, che lo abbellivano. Gli esperti della scientifica, coordinati dal dottor Ignazzitto, aspettarono l’arrivo del sostituto procuratore per tirare fuori il corpo.

    – Buongiorno.

    La voce era inconfondibile. Si trattava di Rosamaria Sbarbato, il magistrato più preciso e puntiglioso con cui Gianluca avesse avuto modo di lavorare. La giornata era cominciata male, ma la vista dei capelli mascolini e il volto arcigno del sostituto procuratore, che spuntavano da un tailleur nero e austero, lo fece ricredere. Al peggio non c’era fine. Gianluca odiava i proverbi, ma era vero: quella giornata aveva toccato il fondo. Maledisse gli astri, tutto il firmamento e anche le stelle ancora da scoprire, passando per i delfini, che leggiadri sguazzavano nel mare di Sicilia.

    Quel cadavere gli sarebbe rimasto sullo stomaco.

    Capitolo 2.

    La pasta al pesto fumava nei piatti. Gianluca desiderava un tè caldo e due fette biscottate, come i ricoverati in ospedale per disturbi gastrointestinali, invece si ritrovava una montagna di carboidrati ben conditi, che lo avrebbero messo fuori gioco. Ma la situazione era delicata e cercò di non peggiorarla.

    Si sedette e masticò amaro fin dal primo maccherone. Non riuscì a nascondere una smorfia.

    – Non ti piace? – chiese Giuseppina.

    – È ottima, ma…

    – Ma… non è di tuo gradimento? – Il tono era severo. Le labbra strette e gli occhi fissi su di lui. Una leggera contrazione del volto mise in risalto un accenno di rughe attorno agli occhi.

    – No, amore, è solo che… – Cercò di giustificarsi, ma lei non gliene diede il tempo.

    – Se non ti piace lo puoi dire.

    Giuseppina abbassò lo sguardo e iniziò a mangiare, infilzando i maccheroni con rabbia. Gianluca fu felice di essere abbastanza lontano dalla forchetta della moglie. Poteva comprendere il suo nervosismo.

    – Non ho detto che non mi piace, ma solo che…

    – Sono bastate le smorfie del volto!

    Gianluca Mariangelo aveva un difetto. Non riusciva a mentire. Anche se dalla bocca non uscivano suoni, il volto diceva tutto, senza segreti. E la moglie lo conosceva bene.

    – Stai ingigantendo la situazione, non credi?

    – Io? Esageri tu con questa storia del mare, dei cadaveri e tutte le tue stupide paure! E poi non ci sei mai! Sempre a fare da zerbino al capitano… come caspita si chiama? – disse, in un moto d’ira.

    – Micalosso…

    – E poi quell’altro brigadiere, che se ne stia in Sila anziché rompere le scatole a noi siciliani!

    – Che cosa c’entra Fabio? Ormai abita a Barcellona da un decennio! Oggi ce l’hai proprio con tutti!

    – E poi questa città è sporca. Siamo invasi dalla spazzatura e dall’inquinamento della raffineria! Mi hai portato a vivere in un posto orribile!

    Il pugno che Gianluca batté sul tavolo fece sobbalzare i piatti. La donna si zittì e per un istante sembrò intimorita. Poi fissò gli occhi verdi smeraldo nei suoi, mostrando tutto lo sdegno per quel gesto. Lui avrebbe voluto abbracciarla e dirle che un figlio lo desiderava anche lui e che Barcellona non era poi così male. Ma affrontare argomenti del genere in quel momento non era una scelta saggia. Uscì di casa senza aggiungere una parola, imprecando contro la costellazione di Orione. La prima che gli venne in mente.

    Il corpo di padre Giuseppe Rossi era stato ritrovato da poche ore, ma già le telefonate fioccavano. Gianluca per tutta la mattinata non fece altro che assecondare le raccomandazioni fatte dal capitano Micalosso, assente giustificato da circa tre anni, ovvero fin dal giorno in cui lo aveva nominato suo sostituto nel comando della stazione dei carabinieri di quella cittadina. L’ufficiale seguiva tutte le operazioni da Messina, delegando a lui tutte le incombenze.

    La telefonata di Micalosso non fu la più tragica. Dovette sorbirsi le ramanzine del sostituto procuratore. La Sbarbato era un pit bull, una volta che azzannava la preda non la mollava più. E probabilmente, in questo caso, più che l’assassino, temeva la propria inesperienza, poco abituato a gestire situazioni simili.

    Bisogna avere tatto. Gliel’avevano detto tutti e in tutte le lingue conosciute.

    Gianluca era stralunato, si sentiva come se fosse appena sceso dal ring dopo un incontro con Rocky Balboa. Entrò in caserma con la voglia di scaricare il nervosismo sul primo che gli capitasse a tiro. Era un anonimo edificio degli anni Novanta, situato in una zona poco distante dal torrente Longano, che separa Barcellona da Pozzo di Gotto.

    Dietro l’enorme portone di ferro grigio, il carabiniere Marcello Dominici scattò sull’attenti appena lo vide varcare la porta d’ingresso.

    – Buongiorno, marescia’ – l’accento campano, che ogni mattina alimentava il buon umore di Gianluca Mariangelo risuonò nell’androne. Ma quel giorno rispose con un grugnito nervoso.

    Il maresciallo percorse il lungo corridoio che lo conduceva al proprio ufficio. Sul suo cammino incrociò il brigadiere Fabio Fascia, calabrese d’origine, ma ormai barcellonese a tutti gli effetti. Come al solito era intento

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1