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Una casa sull'oceano
Una casa sull'oceano
Una casa sull'oceano
E-book336 pagine5 ore

Una casa sull'oceano

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Info su questo ebook

Oceane vive con la famiglia Dupont fin da quando è una bambina, ma si è sempre sentita fuori luogo e inadeguata: non sa chi siano i suoi veri genitori e non si è mai sentita davvero amata. La sua madre adottiva le ha raccontato di averla trovata vicino all’oceano, ma è morta prima di poterle dire cosa accadde davvero. Con lei vive anche Julien, il figlio dei signori Dupont, con cui ha un legame davvero speciale che va ben oltre l’amore tra fratelli. Insieme, infatti, affrontano continuamente le angherie di Dupont, un uomo nevrotico e severo che sembra detestare la loro presenza e che fa di tutto per tenerli lontani l’uno dall’altro. Ma ciò che i due non sanno è che dietro il suo comportamento si nasconde una storia fatta di segreti e bugie che è sempre stata loro nascosta: una terribile verità sulla storia di due famiglie indissolubilmente legate tra di loro, sulle vite intrecciate di due donne e dei loro figli.
Oceane e Julien cercano di riscattarsi dalle colpe di un passato che non li appartiene ma che inevitabilmente li condiziona. Schiacciati dagli eventi e dalla scoperta di un violento omicidio, tenteranno in ogni modo di non crollare sotto il peso della distanza e del dolore. Attraverseranno lo spazio e il tempo per salvare il sentimento che li lega e per unire ogni tassello della storia che li ha partoriti, giungendo a un finale inaspettato e commovente.


VERSIONE REVISIONATA, Febbraio 2016
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2015
ISBN9786050354577
Una casa sull'oceano

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    Anteprima del libro

    Una casa sull'oceano - Arianna Mari

    EPILOGO

    PARTE 1 ANIME

    1.

    Tutto cominciò lì, nella nostra casa. In casa Dupont.

    Io, Oceane Dupont, e Julien Dupont, siamo cresciuti lì.

    Ho un ricordo bene impresso nella mia mente, uno di quelli che mi sarebbe tornato spesso davanti agli occhi durante la mia vita.

    Era un pomeriggio di dicembre, gelido, fuori nevicava e in casa tutti erano molto frenetici.

    Era accaduto qualcosa di spaventoso, ma ero bambina e ogni cosa si distorceva davanti ai miei occhi.

    Ci eravamo accorti che qualcosa non andava e ci eravamo semplicemente messi in un angolo, a giocare, o meglio progettare di giocare a qualcosa. Era questo che facevamo per la maggior parte del tempo: pensavamo, immaginavamo quanto più era possibile fare, quanto più ci risultava emozionante, come inventare nuove strabilianti avventure ed entrare in mondi nuovi.

    Il signor Dupont percorreva la stanza con passi lunghi e svelti e ci intimava minacce se ci sentiva alzare il tono di voce. Per questo noi cercavamo di controllare quando sarebbe tornato, per poter ridere liberamente. Il nostro gioco in quel momento era cambiare espressione appena sentivamo i suoi passi, fare un'espressione buffa e immobilizzarci così.

    Con noi c'era Adele, che ci faceva da bambinaia. Non ho di lei un ricordo di gioventù: l'ho sempre vista anziana, come se mai fosse stata giovane e mai fosse cambiata nel tempo.

    Era seduta sulla poltrona davanti al camino, visibilmente ansiosa, come lo eravamo noi tutti in casa, e cercava di lavorare a lana un grande cappello azzurro, ma ogni tanto per il nervosismo sbagliava, imprecava a bassa voce, tra sé, e continuava, interrompendosi solo quando il signor Dupont entrava e ci intimava di stare zitti. Lei arrossiva, aggiungeva qualche rimprovero per noi, scuoteva la testa continuando a parlare tra sé, e riprendeva il lavoro. Ogni tanto con la mano tirava su gli occhiali spessi che le scivolavano lungo il naso. Sembrava una rana gigante vecchia, pensavo. Era l'impressione strana che mi dava.

    Io e Julien continuavamo come se nulla fosse, senza chiederci neanche perché in casa ci fosse quello scompiglio. Ogni tanto qualcun altro passava, il domestico o il medico di famiglia, e accorreva al richiamo del signor Dupont. La cena non era pronta nonostante fosse ormai ora, la signora Dupont non si vedeva in giro, ma non era una novità. Noi bambini la vedevamo raramente e il resto degli abitanti della casa, o dei passanti per quella casa, ancor meno.

    Eppure non usciva mai. Era una donna molto magra, delicata, con carnagione bianchissima e una voce sottile, per cui la sua assenza non ci turbò; pensavamo semplicemente che il signor Dupont fosse molto nervoso, cosa che spesso accadeva, per motivi a noi sconosciuti.

    Per noi bambini lui era così: sempre arrabbiato, soprattutto con noi.

    Io e Julien, sul tappeto, prendemmo a fare un altro gioco. Con la carta dovevamo tentare di costruire un oggetto. A me non riusciva proprio. Niente. Julien rise, mi regalò la sua barchetta; ci mettemmo a colorarla scrivendoci su i nostri i nomi. Poi Julien ebbe un'idea di cui si sarebbe presto pentito. Era bambino, amava il rischio, amava le avventure, amava provocare suo padre.

    «Vieni con me!» esclamò entusiasta, prendendomi per mano. Mi fece segno di seguirlo verso la porta. Gattonammo piano piano in modo che Adele non se ne accorgesse.

    Quando raggiungemmo la porta, parlando a gesti, mi disse di andare dall'altra parte, senza farmi vedere.

    «Perché?» gli sussurrai, avvertendo forse un brutto presagio.

    Mi fece segno di andare e basta, e io, anche un po' emozionata, mi guardai intorno, poi gettai uno sguardo lungo il corridoio, e vedendo che non veniva nessuno corsi piano dall'altra parte. Eravamo entrambi ai lati della porta.

    «E ora?» chiesi impaziente.

    Lui mi fece segno di aspettare. E io aspettai. Era il mio compagno di giochi, non potevo contraddirlo. Ero palpitante e fremevo dall'emozione.

    Quando Julien udì i passi svelti del signor Dupont, mi disse con sicurezza: «ADESSO!», ma io non capii, non feci in tempo a chiedergli «Adesso cosa??» che il signor Dupont varcò la soglia della porta e Julien si aggrappò ai suoi piedi con un urlo, mentre io restai immobile, stupita. Voleva far spaventare il padre, fargli una specie di piccolo assalto, uno scherzo, ma io mi frenai, non riuscii ad imitarlo, paralizzata. Vigliacca.

    La reazione del signor Dupont non fu quella sperata dal figlio. Ripresosi dallo spavento, lo afferrò per le spalle e lo scaraventò con furia contro il muro.

    «Come hai osato!» tuonò, guardandolo furibondo, gli occhi che lampeggiavano, sgranati, il rossore sparso a chiazze sulle guance.

    Julien rimase immobile, sconvolto, mantenendosi una mano dolorante.

    «Rispondimi!» gridò il signor Dupont avvicinandosi di un passo, minaccioso.

    Adele balzò su, mettendosi una mano sul cuore e lasciando cadere il cappello. Io rimasi dall'altro lato pietrificata, di spalle a loro, piena di vergogna.

    Julien balbettò: «V-volevo solo… fare uno… s-scherzo…»

    «Uno scherzo, dici? Uno scherzo? NON OSARE MAI PIU' AVVICINARTI, CHIARO?»

    Julien annuì, ammutolito.

    «Dov'è l'altra?» esclamò poi il signor Dupont, guardando verso Adele. Nell'istante in cui il padre si fu voltato, Julien mi fece segno di nascondermi, e io prontamente mi misi accucciata dietro la poltrona, mentre Adele rispondeva: «Mi sono distratta solo un istante e…»

    Ma il signor Dupont aveva visto il minimo movimento di Julien che mi indicava qualcosa e se la prese nuovamente con lui. Lo afferrò per il colletto: «Tu! Dov'è Oceane, eh? Dove l'hai mandata?»

    Julien arrancò, senza riuscire a respirare bene.

    «Rispondi!!»

    «È… in… bagno…»

    Il signor Dupont lo lasciò cadere in terra, guardò Adele che annuì per confermare, le disse freddo: «Stasera non cenerà, rinchiudilo nella sua stanza. Voglio che ci resti fino a domattina», e a passi svelti si allontanò.

    Julien, ancora affannato, toccandosi il collo, rimase in terra allibito.

    Adele gli si avvicinò e lo tirò su, a metà tra la tenerezza verso di lui e la voglia di sgridarlo.

    Io tremavo dallo spavento. Sul tappeto affianco a Julien c'erano piccole macchie di sangue.

    Lui subito corse nel mio nascondiglio, mi vide sconvolta e mi prese subito per mano. Così mi accorsi che la sua mano sinistra sanguinava per un taglietto che si era provocato urtando.

    «Julien, la tua mano!» gli dissi allarmata.

    Lui la fissò ancora stordito, poi mi disse: «Non è nulla…»

    Adele si avvicinò e con cura gli mise un cerotto. Eravamo tutti e tre in silenzio.

    «Forza, adesso fila in camera» disse rivolgendosi a Julien, sempre con un tono di falso rimprovero.

    Quella sera non potei vedere Julien, che era chiuso a chiave in camera, e cenai sola con Adele annoiandomi a morte. Ma quando fu ora di dormire sgattaiolai fuori, bussai alla sua porta e gli sussurrai: «Buonanotte Julien.»

    Avevo deciso che non mi sarei nascosta più. Che l'avrei seguito, quando possibile. Che non gli avrei lasciato più addossare la colpa di qualcosa.

    Lui non rispose, ma per farmi capire che aveva sentito batté due volte il pungo contro il muro, che per noi significava sì, ok, via libera.

    Non ho più dimenticato, per tutta la mia vita, lo sguardo di Julien quella sera, né il tono della sua voce quando mi disse «Non è nulla», pensando che invece quella cicatrice sulla mano gli rimase per sempre. Non il segno, quello no. Qualcosa di più indelebile. Qualcosa come una ferita sempre aperta su cui spargere sale.

    2.

    Il pomeriggio in cui accadde quest'episodio la signora Dupont morì.

    Si sparse la voce che fosse stata malata da tempo, e nessuno faticò a crederci, visto il suo aspetto. Nel quartiere in cui vivevamo tutti sussurravano al nostro passaggio e non appena scorgevamo lo sguardo altrui venivamo ricambiati con un sorriso finto. Tutti sapevano tutto di tutti senza mai darlo a vedere, ed era un continuo chiacchiericcio mai rivolto alla risoluzione dei problemi o all'aiuto verso il prossimo.

    Noi eravamo così piccoli che non ci eravamo accorti davvero di nulla, né di una malattia, né di altro. Quel giorno sia io che Julien perdemmo la madre.

    Ma forse è necessario fare un passo indietro per capire come è possibile che io e Julien la perdemmo, non essendo fratelli.

    Per una vita mi sono sentita un'estranea in casa d'altri. Non sono mai riuscita a sentirmi al posto giusto. Stavo scomoda in ogni luogo, stravolta nella mia identità - sola e invadente.

    Io ero quella in più, la piccola Oceane che gli altri tenevano come un peso. Parlavo a bassa voce, cercavo di non fare troppi guai con Julien, di prendere tanti bei voti, di non spendere alcun soldo, perché quelli non erano i miei veri genitori.

    Quando avevo appena qualche giorno, fui trovata dai signori Dupont.

    Questo è ciò che mi ha sempre riferito la signora Dupont. Era una donna solitaria, molto introversa.

    Ma io e lei avevamo un segreto. Alcune volte, la sera, di soppiatto veniva nella mia stanza a raccontarmi una storia. Mi teneva stretta e, accarezzandomi i capelli, mi raccontava delle favole, o tra le altre cose, il racconto che preferivo: come mi avevano trovata.

    È un racconto a cui si stenta a credere, probabilmente ricco di particolari fantastici; per me che ero bambina erano di conforto, mi facevano sentire quasi speciale.

    La signora Dupont si coricava accanto a me, io avvertivo il suo calore e la sua voce sottile, e così diceva: «Nevicava. La città era ricoperta di bianco. Faceva così freddo che dalla bocca uscivano nuvolette, e il vialetto era ghiacciato. Julien aveva meno di un anno, e mio marito aveva dovuto svolgere alcune commissioni in una cittadina lontana; io non avrei voluto lasciare Julien solo, ma in quel freddo mi dispiaceva vedere Jacques partire per due giorni tutto solo, così rimase qualche giorno con Adele. Dopo il viaggio, ci riposammo in hotel finché mio marito dovette uscire per un convegno, e io restai in stanza. Trascorsero le ore ma non sapevo proprio come occupare il tempo, così decisi di uscire. Avevo un desiderio segreto, quello di vedere l'oceano. Mia madre me ne parlava sempre. Così mi spinsi fino alla costa. Grandi dune di sabbia nascosero inizialmente alla mia vista quell'immensa distesa d'acqua. Quando mi trovai lì di fronte, in un freddo pietrificante, mi commossi. Mi avvicinai solo di poco alla spiaggia, quasi timorosa. E fu in quel momento per me così speciale che sentii un pianto. Pensai subito di averlo immaginato, invece continuai a udirlo e mi spaventai. Mi guardai intorno, ma niente. Cercai di muovermi in direzione del pianto, finché scorsi un piccolo portenfant.

    E lì, avvolta da un doppio strato di coperte, c'era una bambina, con gli azzurri come l'oceano. Vedendomi subito smise di piangere.

    Fu un miracolo trovarti viva, dato il freddo e la tua tenera età. Intorno a me non c'era nessuno. Ti portai in albergo con me, e quando Jacques tornò ci recammo subito alla polizia per scoprire qualcosa. Ma purtroppo non c'erano né indizi né testimoni. L'idea di affidarti a qualcuno non mi saltò mai per la testa. Il tuo era stato un richiamo, proprio nell'attimo in cui avevo visto per la prima volta l'oceano. Così decidemmo di chiamarti Oceane. Da quel momento sei stata mia figlia. Arrivasti in un momento magico. E credo che anche tu sia un po' magica, bambina mia!»

    I nostri incontri segreti erano per me sempre una gioia, alleviavano quel senso di peso che mi portavo dentro ovunque andassi. Mi affascinava l'idea di essere stata trovata in un modo così speciale. A volte credevo che mi avesse davvero portata l'oceano.

    Io sapevo, lo vedevo dal suo sguardo, che la signora Dupont mi amava. Non potevo dire lo stesso del signor Dupont. Era una persona nervosa, che noi tutti temevamo.

    Mi guardava con imbarazzo. Spesso non osava rivolgermi la parola. Quando io e Julien ne combinavamo una, pur sapendo che io ero coinvolta, non puniva mai me, ma sempre e solo lui, cosa che mi mandava in bestia. Gli facevo capire in tutti i modi che in quei casi doveva punire anche me, ma niente. È vero che non volevo farmi notare troppo, il che con Julien era impossibile; ma quando venivamo scoperti volevo addossarmi anch'io la colpa. Julien non si arrabbiava, accettava la punizione e dopo aver aspettato con impazienza che terminasse riprendevamo come prima le nostre scorribande.

    Arrivò un certo punto della sua vita in cui, semplicemente, capì che era lui quello non bene accetto dal padre. È una cosa difficile da comprendere, ma fu con una certezza disarmante che lo seppe. Quella sua certezza che io invece non ebbi mai del tutto, continuando a sentirmi la figlia di nessuno - dell'oceano, dell'acqua? Poteva aver quella grande distesa d'acqua cullato e partorito anche me?

    Sicuramente il giorno in cui la signora Dupont morì un gran cambiamento invase la casa.

    Se ci fosse stata lei, negli anni a venire, forse a Julien non sarebbe stato così chiaro con quanto disprezzo il padre lo trattava. Se la signora Dupont non fosse morta, forse non avrei continuato a vivere nella menzogna a lungo. Forse.

    Per cui, quel giorno io e Julien perdemmo la madre. Eravamo bambini, è vero. Era lo stesso giorno in cui Julien si procurò quel taglio, e io decisi di stargli accanto. Ma da quel giorno fummo meno bambini di quanto si può credere.

    Continuammo a giocare, inventare, ridere. Ma la sera nessuno più mi raccontava storie. Soprattutto, quando mi feci più grande ed ebbi un gran bisogno di risposte, non c'era nessuno a potermele fornire. Così come quando ero stata trovata, la signora Dupont se ne andò in un giorno gelido, di neve.

    Non fu un periodo facile per me, quello.

    Ci sono alcuni periodi della mia infanzia che rivivo con grande precisione, come quel momento. Nessuno sapeva della profondità del rapporto tra me e la signora Dupont, nessuno poteva capire e avevo solo sette anni: il mio mondo crollò.

    Ricordo che non volevo uscire dalla stanza. Che abbracciavo il cuscino e piangevo ogni sera. Non sapevo cosa volesse dire la parola morte, e penso che sia un concetto spaventoso per chiunque, figuriamoci per una bambina già sola al mondo.

    Non riuscivo a spiegarmi in nessun modo dove potesse andare a finire una persona una volta morta. Che significava morta? La sua voce, il suo viso, le sue storie, le sue esperienze? Dove andava a finire tutto? Non riuscivo proprio a capire.

    L'idea che dopo aver conosciuto una persona non l'avrei più vista per il resto della mia vita era un'idea così pazzesca da sembrare ridicola, e insopportabile. E dove va questa per persona mentre io trascorro la mia vita? E poi dove andrò io? Non sapevo neanche niente sulla mia nascita, figurarsi sull'idea di morire.

    Non dovetti affrontare solo la perdita di una persona che io consideravo madre, ma soprattutto dovetti accettare pensieri orribili che non sapevo ancora di poter produrre. Il tempo passava e io non riuscivo a smettere di pensare alla morte. Col senno di poi, posso affermare che da quel giorno portai in me, in una stanza nascosta della mia essenza, quelle domande senza risposta, quella paura agghiacciante.

    L'inverno divenne primavera e poi estate e io non sorridevo più.

    Almeno di giorno riuscivo ad essere più serena, come tutti i bambini ero distratta da tante cose, ma quando scendeva il buio quei brutti pensieri ricominciavano ad ossessionarmi. Neanche Julien mi tirava su. La notte avevo gli incubi e Adele correva per calmarmi, ma era assonnata e stanca, e a un certo punto mi chiese solo di smetterla.

    Fu allora che Julien cominciò a venire nella mia stanza. Mentre tutti gli altri dormivano, mi sentiva urlare nel sonno e poi piangere sommessamente. Sognavo mani che mi agguantavano, visi neri, sentivo di soffocare. Mi sentivo sempre più un peso, soprattutto con questa fissazione che avevo.

    Ma quando una notte Julien entrò di soppiatto in camera tutto finì. Mi strinse forte e mi asciugò le lacrime, e questo per tantissime notti. Lavava via le lacrime, le raccoglieva con un dito e mi abbracciava. Ci volle del tempo, ma quando poi capii che qualsiasi cosa sarebbe accaduta lui sarebbe corso da me, mi calmai.

    Riprendemmo a giocare con più spensieratezza, smisi di pensare alla morte; semplicemente decisi di non dimenticare la signora Dupont e le sue storie. A volte sembrava che tutto fosse stato un sogno, quella bella signora che mi amava da lontano; ma poi ricordavo i tratti del suo viso e l'amore nei suoi occhi, e mi ripromettevo di non scordarla mai.

    Chi non superò la cosa fu il signor Dupont. Non si presentò al funerale e da quel giorno divenne ancor più nevrastenico, e per Julien le cose non fecero altro che peggiorare.

    Era un uomo infelice, portava sulle sue spalle colpe di cui mai nessuno avrebbe realmente compreso il peso.

    Il giorno del funerale eravamo al piano di sotto con Adele ad aspettare Dupont, ma lui non arrivava.

    Julien decise di andarlo a chiamare. Bussò alla porta della sua stanza, ma non rispose nessuno.

    Poi aprì piano e lo trovò seduto alla sua scrivania, fissando il vuoto.

    «Papà?» chiamò Julien timoroso.

    Quello, senza voltarsi, chiese piano: «Cosa c'è?»

    «Dovremmo andare …»

    «E dove?»

    «Al funerale della mamma.»

    Il signor Dupont si girò lentamente, e fu come se qualcosa scattasse in lui.

    «Tu! Vattene!» gli ringhiò contro. «È colpa tua!»

    Julien sgranò gli occhi e corse via, sbattendo la porta alle sue spalle. Suo padre non fu presente al funerale, Julien non ebbe mai il coraggio di chiedergli di cosa era colpevole.

    Non lo chiamò mai più papà.

    3.

    Adesso io e Julien dovevamo cercare di farci notare il meno possibile, perché vederci per il signor Dupont era insopportabile. Rendeva tutto più divertente, per un verso.

    Disegnammo una mappa della casa, inventando dei nostri passaggi segreti e punti di ritrovo. Ci vedevamo di nascosto, facevamo cacce al tesoro; Adele non riusciva a starci dietro, né tanto meno ci provava, adesso che la signora Dupont non c'era più.

    Io e Julien, con la mappa in mano, le sfrecciavamo davanti senza neanche che avesse il tempo di accorgersene. Quando poi Dupont era al lavoro, ne combinavamo di tutti i colori. Giocavamo a nascondino, aggiungendo delle variazioni di nostra fantasia. Organizzavamo scherzi a tutti gli altri bambini, che poi piangevano e venivano a lamentarsi a casa, soprattutto quello del vicinato con cui non avevamo nessun tipo di legame. Ci squadravamo sempre dall'alto al basso, spesso invidiando i nostri giochi o tristi per il nostro rifiuto di fronte a quelle che vedevamo come minacce di intromissione nel nostro mondo.

    «Perché non controlla di più questi bambini?», chiedeva ogni madre ad Adele, se eravamo fortunati, o al signor Dupont, che più di rado era a casa. Semmai si fosse verificato quest'ultimo caso, saremmo stati rovinati. Julien era punito per giorni, e per giorni non potevamo vederci. Era per questo motivo che avevamo architettato di comunicare bussando alla parete. Le nostre stanze erano l'una accanto all'altra.

    A volte comunicavamo con i bigliettini, altre con le bussate sul muro, altre ancora Julien sgattaiolava nella mia stanza, e sotto le coperte, accendendo una torcia, ci raccontavamo storie di paura, storie divertenti, fin quando non cadevamo addormentati, distrutti.

    Il signor Dupont non scoprì mai quest'ultima nostra abitudine, anche grazie ad Adele che mai portava spia quando spesso ci trovava addormentati vicini, mano nella mano.

    Ma i rimproveri venivano anche da scuola. Non eravamo nella stessa classe, ma negli intervalli io e Julien cercavamo d'incontrarci in ogni modo e questo non piaceva alle maestre. Avevamo un attaccamento fuori dal comune, tipico dei gemelli.

    Poi un giorno il signor Dupont mi iscrisse a una scuola di danza classica.

    Capii solo dopo che era un modo per tenermi lontana da Julien. Lì per lì ne fui prima spaventata e poi felice. Lo considerai un privilegio che mi era stato dato, e poi era la prima volta in cui davvero facevo qualcosa senza Julien.

    Appena entrata rimasi terrorizzata ed ebbi il forte desiderio di andarmene a casa. Non conoscevo nessuno, sentivo lo sguardo delle altre ragazze su di me e tutte mi sembravano bravissime, arroganti e dispettose. La direttrice fu molto dolce con me, ma io non volli sapere niente e mi fece portare a casa da Adele. Il giorno dopo ero meno impaurita. Mi sentivo tanto impacciata, cercavo di seguire con attenzione; tornai a casa stremata per la fatica, non cenai neanche né parlai con nessuno, e mi addormentai di colpo.

    Man mano mi abituai al ritmo degli orari e alla fatica. Cominciai ad appassionarmi, a farmi delle amiche, a stare bene in quell'ambiente quasi quanto a casa.

    Inizialmente sembrò che tra me e Julien le cose non fossero più le stesse, che il signor Dupont fosse riuscito nel suo intento di separarci. Julien si sentiva un po' tradito poiché io dedicavo il mio tempo ad altro invece che a stare con lui, ma poi trovammo il modo di ripagare la mia assenza. Quando tornavo, per quanto stanca fossi, ci raccontavamo tutto quello che avevamo fatto. Fu anche grazie al nostro parziale distacco che incontrò Mathias.

    Negli anni successivi fu un punto fermo nella vita di Julien. Soprattutto quando diventammo più grandi, prese a far parte della famiglia - quella composta da me e Julien, intendo. Non c'era mai lui quando c'era il signor Dupont, poiché immagino che lui volesse tenerlo fuori dalla parte oscura della casa.

    Eppure, per quanto crescessi il legame con Julien non faceva che rafforzarsi.

    Ho moltissimi ricordi di me e lui in quel periodo. Ripensandoci, mi sembrava sempre che lui fosse forte, sicuro, immune al dolore, allegro. Lo vedevo inimitabile, eccezionale, senza difetti, e non so dire se perché ero bambina, o se già allora il nostro legame era fin troppo stretto, io lo veneravo. Era il mio eroe.

    Capisco oggi quante cose mi abbia nascosto.

    Faceva di tutto per non deludere il padre; s'impegnava a scuola, si prendeva la colpa di cose che non faceva per dimostrargli la sua bontà d'animo, si toglieva di torno al momento giusto, non parlava mai a sproposito. Sentiva il continuo bisogno di farsi accettare da lui - in una lotta disperata e inutile, in cui era sempre il solo a perdere.

    Non era più il bambino spensierato. Se per me fu difficile, e a quel tempo non capii nemmeno io, per lui lo fu il doppio. Lo credevo invincibile.

    Senza la signora Dupont, che lo difendeva con calore, era solo contro il padre.

    Se penso a quanto mi sentivo un peso io, capisco, dopo aver conosciuto i fatti, che era qualcosa di trascurabile paragonato al peso portato da Julien.

    Questo spiega ancora meglio perché il nostro legame era così forte. Eravamo la salvezza l'uno dell'altro, in quella casa. È così che crescemmo: di giorno in libertà, di sera, quando il signor Dupont tornava dal suo lavoro in banca, calava il silenzio. La cena era cupa. Per il resto della serata non potevamo far alcun rumore per non disturbare il signor Dupont, e dovevamo andare a letto presto. Se tutto andava bene, Julien non subiva alcuna scenata.

    Ma la delusione che provava, il suo senso di inadeguatezza, non poteva restare tale per sempre. E questo il signor Dupont avrebbe dovuto saperlo.

    Per quanto si può voler bene a una persona, a un certo punto non si tollera più di venire feriti. C'era qualcosa che lui cominciò a provare, di più forte, più distruttivo: la rabbia. In Julien questo processo durò anni, tutti gli anni della sua crescita. Dunque, il cambiamento fu così graduale che era troppo arduo da cogliere. Ma il bambino che si buttava ai piedi del padre per fargli uno scherzo no, quello non esisteva, era seppellito da qualche parte e non riaffiorava mai.

    Ma quando Julien era con me era tutta un'altra storia, lui era diverso. Noi potevamo architettare di tutto, fare progetti, litigare infinitamente e poi fare pace in un secondo, ma con me era sempre se stesso, non cercava di mascherare nulla. Non appena Dupont compariva, smetteva di ridere o anche solo di sorridere e non c'era storia: nessuno poteva convincerlo a fare qualcosa in sua presenza - era finito il tempo dei giochi di nascosto.

    Trascorsero gli anni, abbastanza da non essere più bambini ma neanche ragazzi. I primi segnali della nostra crescita cominciarono a diventare evidenti.

    Andavamo a scuola e ci aprivamo al mondo esterno, non ci vedevamo più la sera di nascosto. Non veniva più così spesso la notte nella mia stanza, non bussavamo più sul muro per comunicare.

    Oltre alla naturale perdita di interesse per le cose infantili, cominciammo a provare quell'imbarazzo tipico dell'uomo con la donna e viceversa; la consapevolezza di essere di due diversi sessi, e soprattutto la scoperta del nostro corpo, alimentata dalle nuove conoscenze a scuola, creò un sottile muro di disagio tra di noi.

    Ma più ignoriamo le cose, più esse peggiorano.

    Per questo sono contenta ripensando al nostro primo vero litigio. A volte mi chiedo se senza quell'episodio saremmo rimasti due estranei per tutto il periodo dell'adolescenza.

    Nella cerchia delle mie amiche c'era una ragazza, Samara, la tipica ragazza che è più avanti delle altre: fa già cose che alla sua età non dovrebbe e non fa che vantarsene. Maglie aderenti, seno sporgente, tanto trucco e lunghe ciglia dal mascara abbondante. Capitò che proprio quel tipo di ragazza s'invaghì di Julien.

    Sapendo che abitavamo assieme (ci chiamava i fratellastri, cosa che mi dava sui nervi), mi implorò di presentarglielo.

    Da un lato la detestavo, poiché era vanitosa e anche un po' tonta, dall'altro lato provavo invidia verso di lei: tutti la adoravano. Quando mi disse della sua cotta, dapprima mi venne da ridere. Chiamai Julien e gliela feci conoscere.

    Lui sorrise e lei era tutto uno sbatter di ciglia e occhiatine.

    Poi li fissai bene e tutto cambiò. Vidi in lui uno sguardo

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