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La vendetta è un gusto
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E-book154 pagine1 ora

La vendetta è un gusto

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Info su questo ebook

In una Cagliari invernale e cupa, un professore universitario viene ritrovato sezionato in settantasei pezzi, nel suo appartamento, ma questo è solo il primo di una serie di misteriosi, efferati delitti.
Perché tutto ciò? Chi mai può essere capace di tanta violenza? E, soprattutto, con quali motivazioni? I protagonisti della storia sono degli studenti universitari come tanti, come il protagonista, Lorenzo, i suoi compagni di appartamento, la sua ragazza July, che convive con l’amica Betta, e Stella, grande amica e compagna di Lorenzo alla Facoltà di Scienze Naturali. Ragazzi assolutamente normali, e pure ordinaria e banale è la Facoltà che frequentano, affollata di animali impagliati e scaffali con barattoli pieni di liquido in cui si conservano repellenti cadaverini traslucidi e mollicci, sale buie e un po’ tetre, un grande Acquario debolmente illuminato in cui nuotano pigramente cernie e murene. Ma, anche nella tranquilla quotidianità, follia e desiderio di vendetta sono pulsioni sempre in agguato nel più profondo della mente umana e pronte a esplodere, basta il giusto innesco...
LinguaItaliano
Data di uscita5 ago 2012
ISBN9788866900856
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    Anteprima del libro

    La vendetta è un gusto - Giancarlo Ibba

    495

    Appuntamento al Buio

    ZERO

    L’assassino bussa alla porta.

    Rumore di passi, strascicati e lenti. La vittima non si aspetta una visita a quell’ora, si è già infilata pantofole e vestaglia di seta. Ottimo. Il palazzo è silenzioso. L’uomo vive da solo nell’attico. Settimo piano.

    "Chi è?"

    La voce, roca e stentorea come sempre, attraversa legno e acciaio.

    "Sono io. Posso entrare?" risponde l’assassino, con tono educato.

    Dietro lo spioncino balena un riflesso.

    Il bastardo è dubbioso.

    "Ho bisogno di parlarle. Subito. Ho preso una decisione."

    La doppia serratura della massiccia porta blindata scatta.

    L’assassino infila la mano destra sotto l’impermeabile di plastica nera che indossa, ancora lucido di pioggia, senza farsi notare. Impugna l’arma e aspetta che il battente si schiuda. Attraverso le vetrate sporche della tromba delle scale filtra il flash bianco di un fulmine. Il brontolio del tuono rotola sopra la città. Il rumore è simile a quello di un carro a buoi che sobbalza su una mulattiera pietrosa. La pioggia scivola sulle vetrate unte. Le luci della notte sembrano cariche di aspettative. L’aria odora d’ozono, gas di scarico, piscio di gatto e immondizie umide.

    La porta si apre e l’assassino s'introduce rapido nell’appartamento.

    "Non poteva telefonare?" chiede la vittima, perplessa, ritraendosi.

    "No. L’assassino estrae l’arma e colpisce. Odio il telefono."

    "Non si è mai infelici quanto si crede, né felici quanto si era sperato."

    La Rochefoucauld

    Scheletri e Uccelli Morti

    UNO

    Mi chiamo Lorenzo Carta. Due giorni fa, al risveglio, non avrei mai potuto immaginare che, solo un paio di ore più tardi, la mia vita sarebbe degenerata. Naturalmente, come quasi sempre succede nell’esistenza umana, le cose avevano già preso una brutta piega da molte settimane. Quello era soltanto il giorno in cui gli Scheletri del Passato, invece di limitarsi a bussare all’uscio, come Il Corvo di Edgar Allan Poe, uscirono dalle tenebre degli armadi per prendersi la loro vendetta.

    All’improvviso tutto crollò.

    Ecco come sono andate le cose.

    Aprii un occhio cisposo. A fatica scrutai nella penombra screziata della stanza. L’alba. Sbiadita luce perlacea fra le stecche scure e marce della vecchia persiana. Non sembrava tardi. Le sei e un quarto, forse. O qualcosina in più. Mai stato bravo a calcolare l’ora esatta con il sole.

    Sbadigliai, fino quasi a slogarmi la mandibola. Lentamente, facendo molta attenzione a come mi muovevo, sollevai il braccio sinistro e portai il quadrante fosforescente del mio Sector a pochi centimetri dall’occhio sbarrato. Cercai di focalizzare le lancette verdastre dell’orologio: regalo dei nonni paterni per il mio ventiquattresimo e ultimo compleanno.

    Sei e quaranta.

    Merda fossile... mormorai, spalancando anche l’altro occhio.

    Non era possibile: ritardo bestiale!

    Mi coprii la faccia con le mani e imprecai sottovoce.

    La sera prima, pieno di buone intenzioni e libero da cattive tentazioni, avevo deciso di svegliarmi un po’ prima del solito, diciamo verso le cinque e mezzo, per finire di ripassare gli ultimi tre capitoli del programma di Anatomia Comparata. In teoria, avrei dovuto ripassarli assolutamente quella nottata, ma poi... gli eventi avevano preso una direzione diversa. A volte capita. Non c’è niente di male. Tranne, forse, quando la mattina dopo si deve sostenere un esame di Comparata.

    Mmmh... gemette una voce femminile al mio fianco. Che hai?

    Una ciocca di capelli ricci e biondi spuntava dal bozzolo di lenzuola, coperte e piumone. Nella stanza non c’era neanche un termosifone.

    Sei sveglia? chiesi, con le labbra come piene di novocaina.

    Mmmh… rispose la voce, senza sforzarsi troppo.

    Scusa. È tardissimo. Devo andare.

    Mmmh...

    Dal bozzolo emerse il volto assonnato della mia ragazza.

    Giulietta Mannai, conosciuta da tutti come July.

    Eh? disse, sbattendo le palpebre per scacciare via il sonno residuo.

    Ignorando il freddo, mi misi a sedere sul mio lato del letto singolo e mi abbracciai le ginocchia ancora infilate al calduccio, sconsolato, con i capelli scomposti sulla fronte. Scossi la testa. Il cervello ancora spento.

    Non sono riuscito ad alzarmi in tempo… dichiarai, amareggiato. Dovevo ripassare degli appunti prima dell’esame. Bah! Pazienza.

    July mi posò un bacio veloce sulla guancia ruvida di barba.

    È colpa mia. Non dovevo chiederti di dormire qui da me, stanotte.

    Tranquilla… la rassicurai, voltandomi verso di lei. Per poco non cascai dal letto. Non ti preoccupare. Tanto ho ripetuto abbastanza ieri mattina con Stella. La mia collega. Era solo per scrupolo, capisci?

    Non ti senti ancora pronto? s’informò lei, preoccupata. Vuoi saltare l’appello di questo mese? Quando inizia la prossima sessione?

    A maggio. Mi grattai la testa arruffata e imbronciai le labbra, contrariato da quella raffica di domande. A July piaceva molto chiedere e poco rispondere. No, voglio darlo adesso. È solo che... lo sai, quello Sforza è un crumiro pignolo! L’ultima sessione ne ha sbattuto fuori nove su dieci! È uno che gode a metterti in difficoltà... Un vero stronzo.

    July sorrise. Sbaglio o questo era uno sfogo?

    Sbuffai, irritato. Ah, no! Dai, July, non cominciare con ‘sta storia!

    Perché ti scaldi tanto? Tu sei represso. Quante volte l’ho detto?

    July, quando ci si metteva, sapeva essere spietata.

    Milioni.

    Eppure continui a fare il duro, tenendoti le cose dentro, come una pentola a pressione piena d’ansia fino all’orlo. Alla fine esploderai.

    Stammi lontana, allora. Sono pericoloso.

    Sospirando, July mi prese la testa fra le mani e prese mordicchiarmi il lobo dell’orecchio sinistro. Mi faceva impazzire quando faceva così.

    Anche io lo sono... sussurrò, con il fiato corto. Non sai quanto.

    Non lo sapevo, infatti. Non ancora.

    Comunque sia, dimenticai l’esame per i seguenti quindici minuti.

    Più tardi, verso le sette e un quarto, consumammo una rapida colazione nella piccola cucina del minuscolo appartamento, due singole, bagno e cucina, che July condivideva con la sua amica del cuore. Mentre mangiavamo biscotti alla crema e caffè, seguimmo in silenzio alcuni videoclip sulla TV quattordici pollici di July, perennemente sintonizzata su MTV. In quel momento c’era un video molto bello di Jon Bon Jovi.

    Beh... devo scappare! annunciai, posando la tazza sul tavolo.

    Chiamami, ok? July non staccò gli occhi dallo schermo. Ciao.

    Ciao.

    Il nostro rapporto non era mai stato convenzionale.

    Quando lasciai la mia sedia e indossai il mio solito cappotto blu, sulla soglia dell’angusta cucina apparve una figura barcollante, sbadigliante e scarmigliata. L’amica del cuore. Una cretina totale. Non la sopportavo.

    "Bonjour... salutò, accasciandosi sulla sedia libera. Caffè?"

    Elisabetta Raju non salutava mai in italiano: era plebeo.

    Betta! July sorrise, alzando lo sguardo. Stravedeva per la sua sexy coinquilina. Erano compaesane e si conoscevano fin dai tempi delle scuole medie. Un’amicizia nata sui banchi e cresciuta nei locali notturni. No, il caffè è finito... Prendi il mio, tanto io non ne voglio più.

    Betta sedette sulla sedia che avevo lasciato libera, senza degnarmi di un’occhiata, allungò una mano e afferrò la tazzina semivuota. La scolò. Poi sospirò, incrociò le braccia sopra il tavolo e vi posò la faccia gonfia.

    Nottataccia? domandai, tanto per dire qualcosa, mentre verificavo di aver preso le chiavi dell’appartamento e infilavo il libretto degli esami nella tasca del giaccone. Deve aver piovuto quasi fino all’alba.

    Nel frattempo, July piluccava le briciole di biscotto rimaste sul piatto e scrutava con espressione ermetica la massa di capelli rossi di Betta.

    Quest’ultima, senza sollevare la testa, rispose: "Sono a pezzi, gente. Ho ballato fino all’alba su quel cubo del cazzo. Un deficiente ubriaco mi ha pure toccata. Una serata schifosa: musica hip-hop e pioggia di merda! Tutto per cinquantamila misere lire. Mi sono stufata di questa vita."

    Era quello che diceva ogni mattina e dimenticava tutte le sere.

    Sogghignai. Toccata dove, Betta?

    July mi scoccò un’occhiata al cianuro.

    Feci finta di non vederla e sprofondai le mani nelle tasche dei jeans.

    Betta comunque non mi degnò di una risposta. Era come se non fossi presente. Tra noi due non c’era un grande feeling. Ci sopportavamo, più che altro, per il bene di July e in nome del quieto vivere. Amen.

    Bene! esclamai, con un finto entusiasmo da avanspettacolo che non mi apparteneva, avvicinandomi alla mia ragazza. Io vado. Ci vediamo.

    In culo alla balena! disse July, sorridendomi.

    Crepi il lupo! replicai, toccandomi le palle attraverso la tasca.

    La baciai sulla guancia, salutai Betta (che non rispose) e uscii.

    Erano le otto meno venti.

    DUE

    Le strade erano lustre di pioggia. Le nuvole temporalesche si erano diradate, sospinte dal maestrale, lasciando filtrare la luce soffusa di uno slavato sole invernale. L’aria era frizzante e il traffico ancora limitato. Pochi pedoni in circolazione. Adoro le glaciali mattine di metà febbraio.

    Uscii dallo squallido condominio, in perfetto stile Ventennio Fascista, che ospitava l’appartamento di July e Betta, esalando nitidi pennacchi di condensa. Il gelo mi pungeva la faccia e le pozzanghere erano orlate da una spruzzata di brina. Uno stormo compatto di storni spiccò il volo dall’enorme ficus in cui aveva cercato riparo per la notte. Il microclima cittadino, caldo e ricco

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