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Bereshìt, il Principio
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E-book574 pagine8 ore

Bereshìt, il Principio

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Info su questo ebook


Firenze 21 Marzo 2012.
Kevlin osservava spesso quelle succose melagrane nei negozi del centro di Firenze; sapeva bene che provenivano da Israele…
Secondo lui, per qualcuno era stato fin troppo facile scrivere l’inizio della storia del mondo con la parola “Bereshìt” (In principio), come se l’uomo dovesse credere incondizionatamente che tutto avesse avuto un inizio. Kevlin Tomberli però non aveva mai accettato la semplicità di certe affermazioni senza conoscerne il carico emotivo. Voleva sapere quando e perché erano nati i sentimenti che rendono così bella e affascinante la vita, e quali forze primordiali aleggiassero lungo il pozzo dell’Eternità profondo miliardi e miliardi di anni.
In fondo era la sua professione e dentro a quel pozzo, intuiva dovesse celarsi la chiave di ogni cosa che esiste, che si muove e che pensa. Non immaginava che il solo modo per scoprirlo fosse quello di finirci dentro e cadere giù fino al Bereshìt del nulla. Ma fu così! C’era poi lei, Alessandra, la sua piccola stella caduta dal cielo, capace di dare armonia e serenità ad ogni cosa che la circondava.
Tutto sembrava andare per il meglio, fino a quel tardo pomeriggio di inizio primavera in cui Dio si mise nel mezzo… La sua vita non sarebbe stata più la stessa.
 
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2020
ISBN9788897911784
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    Anteprima del libro

    Bereshìt, il Principio - Marco Ridolfi

    Librinmente

    Copyright

    © Copyright Librinmente

    © Copyright Prospettiva editrice

    Civitavecchia, settembre 2020

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171

    della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 9788897911784

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet:

    www.prospettivaeditrice.it

    epigrafe

    "Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo:

    egli ha perfino messo nei loro cuori il pensiero dell’eternità,

    sebbene l’uomo non possa comprendere

    dal principio alla fine

    l’opera che Dio ha fatta."

    (Ecclesiaste 3:11)

    (Nuova Riveduta)

    Nota al Romanzo

    Questo romanzo è un’opera letteraria di fantasia, personaggi e dialoghi citati sono invenzione pura dell’autore. I luoghi geografici, storici, i nomi di personaggi famosi le loro citazioni e gesta, sono invece reali e riscontrabili attraverso qualsiasi enciclopedia ed hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Mentre le scene che si susseguono inserite nel contesto storico-biblico sono un’interpretazione puramente personale.

    Qualsiasi analogia con fatti, luoghi o persone, vive o defunte è assolutamente casuale.

    Il viaggio nel tempo fatto da Kevlin Tomberli è un viaggio fantastico, dove solo i sentimenti dei personaggi faranno da filo conduttore in modo da accompagnarvi in quest’avventura della mente.

    Titolo del Romanzo: Bereshìt il Principio.

    Il romanzo trae spunto dal nome ebraico del primo libro della Bibbia (Bereshìt) Genesi, letteralmente tradotto: in principio.

    L’aggiunta dell’articolo indicativo "il", al titolo porterebbe la traduzione:

    In Principio il Principio.

    dedica

    A Roberta e Mirko

    Capitolo I

    Firenze 21 Marzo 2012 ore 18:20

    Nel suo studio, all’ultimo piano di un signorile palazzo del centro di Firenze, Kevlin Tomberli stava ascoltando la sua paziente preferita.

    Era un tranquillo pomeriggio d’inizio primavera e dalla grande finestra sull’Arno si scorgevano i gabbiani volare in cerchio sul fiume. Ormai da anni, a seguito dei cambiamenti climatici e della difficile reperibilità di cibo sulle coste toscane, si erano spostati nell’entroterra, trovando l’habitat ideale grazie alle vicine discariche di periferia. Nel cielo il luminare maggiore con i suoi raggi dorati aveva già percorso più di due terzi del suo curvo viaggio, ma ciò che lo rendeva speciale, in quello che di fatto era solo un moto apparente per un osservatore dalla Terra, era «quel suo potente cammino silenzioso…». Così pensava Kevlin tra sé e sé, mentre un po’ distratto udiva la donna dai capelli rossi distesa sul divano passare in rassegna pagine sparse della sua vita.

    Per Kevlin, quella grande sfera infuocata da sempre aveva suscitato emozioni profonde nell’animo degli uomini, aveva ispirato un’infinità di pensatori nell’esprimere i loro sentimenti attraverso poesie, saggi, racconti e storie dai contorni coloriti. Era affascinante vedere come quella fonte di luce e calore fosse stata da sempre disegnata con i suoi raggi, più o meno lunghi e rigorosamente gialli, nei quaderni di scuola. Oppure in solchi dallo spessore di un dito sulla sabbia del mare o con gessi sopra i muri delle case, da bambini di ogni parte del mondo come simbolo di gioia e voglia di vivere. Sapeva bene come quella grande stella portatrice di vita per la Terra fosse stata costantemente osservata, misurata e studiata da antichi sacerdoti prima e uomini di scienza poi, vissuti in ogni epoca della storia.

    Come accadeva spesso in Kevlin, quel perpetuo sorgere e tramontare del Sole aveva da sempre incantato anche semplici uomini di ogni angolo della Terra.

    Da lì a poche ore, i suoi raggi sarebbero infatti diventati più rossi producendo i classici riflessi giallo, arancio ed oro sull’acqua del fiume Arno, ed avrebbero così messo in rilievo quelle tinte color pesca, salmone e rosa delle caratteristiche botteghe orafe appese al Ponte Vecchio.

    Erano anni che Kevlin Tomberli ammirava lo stesso scenario, ma ogni volta, quando i rossi raggi del Sole iniziavano a penetrare obliqui dalla sua finestra, allora scostava con un dito la lunga tenda in canapa bianca e cominciava a fissare quel mistico panorama incantato, facendosi coccolare dai suoi pensieri. Quei colori pastello che colpivano gli angoli della sua Firenze sembravano avessero il potere di rilassargli la mente procurandogli la stessa sensazione di un dolce sottofondo musicale. Sapeva che in qualche modo quelle sfumature gli sarebbero servite per mantenere il giusto equilibrio psicofisico, fondamentale per ascoltare le preoccupazioni dei suoi pazienti, mentre restavano comodamente distesi sul divano.

    Rimaneva strabiliato al pensiero di come miliardi di persone di ogni età e ceto sociale rimanessero affascinate all’immagine di un’alba o di un tramonto. Da quella finestra sull’Arno sorrideva nel vedere le giovani coppie mentre approfittavano di quei momenti romantici per mettere i loro lucchetti dell’amore sulla ringhiera di protezione del busto del Cellini e per farsi qualche selfie tra gli archi arrossati di Ponte Vecchio. Molti altri, invece, arrivavano attrezzati di cavalletto e macchina fotografica ultimo modello per dare il via alla cattura di ogni attimo magico che quel panorama regalava ogni giorno, ogni volta come se fosse l’ultimo.

    La percezione di come il suo amato Sole ed i colori che sapeva disegnare ogni giorno possedessero una forza invisibile era di per sé qualcosa di rassicurante. Tutto gli confermava, ancora una volta, quanto la bellezza tanto effimera come quella di un tramonto, trascendesse le parti più profonde dei sentimenti umani spesso riflessi negli sguardi della gente.

    Altre volte invece gli era capitato che i suoi pensieri aleggiassero sopra la sua amata città. Accadeva quando si affacciava dalle alte feritoie della torre di Palazzo Vecchio e la osservava nel suo colore rosso antico dei tetti che, incastrati l’uno all’altro, sembravano le pennellate di un artista. Con l’Arno che faceva da cornice su uno sfondo che spaziava dalle Alpi agli Appennini e l’azzurro del cielo, gli capitava di pensare con una punta di orgoglio:

    «Questo è il posto più bello del mondo in cui potevo vivere!»

    In fondo era nato lì e questo era ciò che realmente provava dentro. Spesso si chiedeva da dove nascessero quelle sue emozioni e quali sentimenti si celasse nel profondo del suo cuore. Voleva capire se anche in lui si potesse celare un occultato senso patriottico o nazionalistico. Ma Kevlin non aveva di questi pregiudizi. La sua era un’emozione forte che amava definire geografica.

    Credeva infatti, e ne avrebbe trovato le prove, che tali sensazioni venissero impostate dalla natura stessa, o per meglio dire, scritte nei geni e nel DNA di ogni persona non solo per discendenza naturale dai propri genitori, ma anche dal luogo fisico e geografico dove si era nati.

    D’altronde, chi poteva negare quell’innato attaccamento dell’essere umano al proprio luogo di nascita? Da sempre l’uomo aveva lottato per la sua terra, vi aveva fatto le guerre, sparso il sangue e seppellito i propri cari. Da sempre vi aveva costruito le proprie abitazioni abbellendole con gli elementi che la natura offriva ed intorno ad esse vi aveva potuto seminare tutto ciò di cui aveva bisogno per nutrirsi, in modo da perpetuare la sua vita e quella dei propri figli.

    Proprio i vecchi dei paeselli lì attorno alla sua Firenze, ancora dopo generazioni, Kevlin li sentiva affermare con orgoglio frasi in dialetto fiorentino del tipo: «L’olio dell’Antella ell’è migliore di quello di Montespertoli!», oppure «Il mio, quello di Grassina l’è meglio di quello di Greve!». Per non parlare poi del vino e dei prodotti originari della propria zona.

    Sapeva che nessuno di loro avrebbe mai gettato la spugna sul raccolto della propria terra natia; «Quest’anno l’è speciale, vieni a casa mia e te lo fò assaggiare!», dicevano mentre giocavano a briscola seduti al tavolo del circolo del paese.

    Anche quelli erano sentimenti veramente forti e ben radicati nelle zolle di quella terra.

    Diversamente, in una società sempre più tecnologica e modernizzata, confinata spesso dentro le grandi città e sempre pronta a virtualizzare ogni sentimento, l’essere umano si è ritrovato ad essere un numero su tanti, ormai condizionato a vivere e lavorare in luoghi chiusi: uffici, fabbriche, scuole, ed investito per molte ore dalla sola luce artificiale di lampade a basso consumo. Esseri umani, mantenuti a temperatura costante da efficienti impianti di climatizzazione e riscaldamento come fossero prodotti da supermercato. Ormai senza rendersi più conto di dover rimanere saldamente in simbiosi con la natura di cui è fatto, per l’uomo diventa sempre più difficile avvertire che esiste ancora una terra viva sotto i propri piedi, o che sopra la sua testa c’è un Sole e una Luna che, indipendentemente da come indirizza la sua vita, continuano a svolgere le loro perpetue e vitali rotazioni attorno a lui.

    Molti altri, loro malgrado, sono altresì costretti a scappare dai propri luoghi natii, dalla loro terra, ormai impoverita dall’avidità dei loro stessi simili. Uomini che devono così abbandonare le loro case per andare a cercare lavoro in un luogo spesso lontano e sconosciuto, lasciando ancora una volta su quella terra ormai troppo distante, un pezzo del loro cuore. Per scelta o costrizione, in un modo o nell’altro, molti esseri umani, ricchi o poveri che siano, hanno da tempo allentato quel naturale e forte legame per la propria terra natia e per le sue fonti di luce.

    Ma per fortuna quel legame, che evidentemente non è circoscritto solo a certe culture o paesi, esiste ancora sotto varie vesti, celato dentro ognuno di noi. E’ la stessa storia del mondo che conferma come uomini di ogni epoca si sono da sempre sentiti parte integrante della propria terra di origine, tramandando così tale amore e rispetto ai propri figli e poi ancora ai figli dei figli.

    Così, il sangue che scorreva nelle vene di Kevlin e che aveva naturalmente ereditato dai suoi nonni e genitori; anch’essi cresciuti in quelle colline ricche di storia, arte, viti e olivi; aveva contribuito a trasmettere in lui l’amore per la sua terra e per la sua Firenze; attaccamento che sentiva e che non voleva perdere. Rimaneva spesso incantato nell’osservare gli strati sedimentari del terreno quando passava accanto agli scavi dei lavori stradali nel centro storico. Quell’attaccamento naturale era qualcosa che trascendeva la sua razionalità meravigliandolo ogni volta.

    Restava così, sempre più convinto, che il luogo e la terra stessa avessero una sorta di potere nascosto, quasi magico, capace di infondere qualcosa di sé dalla nascita di ogni essere umano e di ogni animale. Per lui doveva esserci per forza un legame misterioso, impalpabile, non certamente misurabile con strumenti scientifici; ma comunque vigoroso, potente e motivante come gli stessi legami di sangue.

    D’altronde ogni salmone, ogni tartaruga, ogni rondine e chissà quanti altri animali, ritornano sempre al proprio luogo di nascita. Ci tornano per far nascere i propri piccoli o per morire; in un modo o nell’altro ci ritornano sempre.

    Quella era la sua sensazione interiore, attraverso la quale percepiva continue conferme attorno a lui. Gli bastava spesso cambiare il punto di osservazione e le finestre della mente si aprivano in nuovi scenari mai visti prima.

    Accadeva durante le conversazioni del cuore con Alessandra e perché no, insieme con i vecchi amici dell’università, con i quali nonostante i mille impegni quotidiani, non si era mai perso di vista. In particolare quando le giornate erano più rilassate, davanti ad un focolare acceso di una baita di montagna magari dopo una giornata a giro nei boschi a cogliere funghi. Erano quelle chiacchierate aperte e schiette, in cui puoi dire ciò che pensi senza passare per visionario e dove ci si ascolta con spensierato interesse. Questo perché ciò che esce dal cuore non è visto come un ostacolo o un’offesa al proprio modo di essere, ma può veramente diventare un mattoncino in più per la crescita riflessiva di tutti.

    Kevlin amava elaborare e poi descrivere i suoi concetti attraverso immagini mentali. Così che per i suoi amici, occorreva sicuramente uno sforzo di fantasia nel provare a leggere le sue parole e vederle dalla sua prospettiva:

    «Sapete! Credo veramente che siamo fatti della stessa materia di cui è fatto il suolo del luogo in cui nasciamo!» Asseriva deciso Kevlin, facendosi poi una risata nel vedere le loro espressioni incuriosite.

    Per lui, in questa sua immaginaria proiezione mentale, ogni essere umano avrebbe avuto gli indizi utili per ricostruire il suo antico legame metafisico con tutto ciò che lo circondava.

    D’altronde, proprio nell’antica Tohràh, chiamata poi dai cristiani Pentateuco (cinque rotoli) vi si potevano ritrovare affinità e pensieri simili.

    Era proprio nel Bereshìt (letteralmente in principio o meglio conosciuta come Genesi), il primo dei famosi scritti del condottiero degli ebrei, Mosè, il profeta dei profeti, quello dei dieci comandamenti, che Kevlin cercava spesso prove e associazioni di pensiero a quei legami interiori che portano ogni essere vivente ad amare la propria terra.

    Poche culture antiche avevano lasciato scritti ben documentati sul modo di gestire, spartire e conservare la terra e i suoi prodotti, come quella ebraica, i cui testi e metodi sono arrivati fino a noi attraverso le sacre scritture. Ma bisognava andare ancora molto indietro nel tempo per capirne tutte le correlazioni.

    Rammentò, così, la fatidica frase scritta nella Genesi e che Dio rivolse al primo uomo, Adham:

    …Dalla polvere sei stato tratto e alla polvere tornerai ...

    Parole concise, certo! Parole che da sempre erano state per lui tanto semplici, quasi scontate, e che ora tornavano ad essere alquanto emblematiche. Lo avevano ossessionato fin dall’infanzia, facendolo spaziare tra il credere e il non credere in Dio. Così, ogni volta che scopriva ragioni a sostegno di quel pensiero, subito decine di nuove domande lo caricavano della voglia di saperne di più.

    Fissando quelle fiamme a tratti gialle e rosse mentre scoppiettavano tra i ceppi non ancora troppo secchi, Alessandra ed i suoi amici riflettevano sulle frasi di Kevlin forse un po’ troppo assopiti dalla stanchezza della giornata all’aperto e dall’ aria intrisa di fumo del focolare.

    Poi ad un tratto Massimo Lenzi, uno di loro, tenendo un bicchiere di buon Chianti rosso nella mano sinistra e lanciando uno stecco in mezzo al camino acceso, disse:

    «Siamo materia è vero!» e, dopo una breve pausa, proseguì:

    «E’ come questi legnetti che bruciano nel fuoco e che una volta erano vivi e verdi, producevano foglie e frutti, alla fine però, comunque vada, non rimarrà più niente di ciò che erano...»

    Quelle frasi per un attimo gelarono l’atmosfera e Alessandra si girò verso Kevlin come se aspettasse una sua riposta. Il colore dei suoi capelli alla luce del fuoco sembrava brillare come rame forgiato…

    «Non proprio così Massimo!» Rispose Kevlin spezzando quell’improvviso silenzio:

    «Credo che tu abbia ragione solo in parte! Oggi finalmente sappiamo che l’uomo è realmente composto da elementi chimici, minerali e da sostanze che si ritrovano comunemente nel suolo, e alla morte, in un normale procedimento di decomposizione della materia, restituiremo inevitabilmente ogni cosa di noi, proprio alla terra…»

    La serata era volata via in allegria come sempre e le riflessioni che ne emersero cominciarono a diventare interessanti. L’argomentazione era infatti scivolata su come fosse possibile che Mosè, un ebreo nato in schiavitù e scampato da una delle prime stragi documentate di innocenti, dopo esser stato cresciuto ed educato nella reggia del faraone 1500 anni prima di Cristo, avesse potuto mettere quel concetto per iscritto in modo che divenisse parte integrante della religione del suo popolo:

    Polvere sei e polvere tornerai!

    Era un pensiero rivoluzionario che andava contro corrente all’allora filone religioso e culturale egiziano. Bastava pensare che il suo stesso popolo ebraico non possedeva ancora i propri testi religiosi scritti - almeno quelli canonici - e che al tempo di Mosè si trovava ancora in Egitto da molte generazioni. Il racconto biblico di Giuseppe, antenato del popolo ebraico, riporta che per preparare la sepoltura di suo padre, Giacobbe, fu realizzato il procedimento dell’imbalsamazione secondo il metodo egiziano. Questo ad indicare che, anche se in parte, gli ebrei del tempo di Mosè dovevano necessariamente aver assorbito molte delle usanze e dei costumi della nazione in cui si trovavano come schiavi.

    «Quella egizia era letteralmente una religione politeistica e zoolatrica, composta da decine di divinità animate e inanimate, come il Sole, la Luna, le stelle, molti animali, il fiume Nilo e tante altre ancora considerate come veri e propri dei. Lo stesso faraone era venerato come discendente dalle divinità e alla sua morte terrena avrebbe intrapreso il viaggio che lo avrebbe portato da loro. Il famoso rituale dell’imbalsamazione faceva parte di tutto questo complesso meccanismo ed era incentrato alla conservazione e preservazione del corpo fisico in maniera tale che non si deteriorasse in polvere. Il raggiungimento della vita eterna, attraverso vari passaggi nell’aldilà, era quindi una credenza fondamentale di quell’antica civiltà in cui Mosè era nato e vissuto», aggiunse Alessandra sicura di quelle info storiche.

    «Giusto!» Esclamò Kevlin e prendendo la parola proseguì…

    «Invece Mosè, come se un fulmine a ciel sereno l’avesse colpito, mise per iscritto nel suo primo libro, che poi sarebbe diventato parte iniziale della Bibbia, che il corpo del primo uomo Adham, direttamente creato da Dio, alla sua morte non avrebbe intrapreso nessun tipo di viaggio in nessun regno dei morti o in qualche sorta di aldilà. Per lui, figlio adottivo della figlia del Faraone, cresciuto ed educato in tutta la sapienza degli egiziani, il rituale della preservazione del corpo fisico alla morte tramite l’imbalsamazione non serviva affatto a garantire alcun passaggio verso qualche luogo migliore o in qualche reame abitato da dei; per Mosè la vita dell’uomo finiva con la morte, punto e basta!»

    «La conosco fin troppo bene quella storia Kevlin…» lo interruppe Massimo Lenzi mentre guardava ancora quello stecco che aveva gettato nel fuoco ormai diventato un tizzone fumante.

    «E’ proprio quello che si legge nel Bereshìt in termini alquanto sintetici! Secondo il testo scritto, la morte dell’uomo, intesa come cessazione di ogni attività sinergetica, risulta infatti sopraggiungere dal risultato di un comportamento volontario e contrario all’originale progetto divino e questo, in base al secondo e terzo capitolo della Genesi, avrebbe portato all’annullamento completo dell’essere vivente, sia del suo corpo fisico che dei suoi pensieri. In sintesi, Dio lo avrebbe condannato all’auto-degenerazione e l’uomo sarebbe tornato alla polvere di cui era stato fatto… Ho detto bene professor Kevlin?» Fecero tutti una lunga risata, felici di quella giornata a contatto della natura.

    Ma in Kevlin, i pensieri della mente non si potevano fermare!

    Oltre al forte amore che aveva per la sua fantastica Toscana, Kevlin sentiva come se una forza interiore lo spingesse in ogni luogo del mondo, voleva scoprire fin dove arrivava l’essenza della bellezza e dove era che ogni sua sfumatura diventava magicamente nuova. Tutto ciò si verificava ogni volta in cui Kevlin poteva rivolgere i suoi occhi verso l’infinito, oltre i palazzi delle città, fin dove la linea di quel magnifico pianeta cominciava a curvarsi. Ovunque si potesse scorgere le tracce del grande artista della natura, là, era sicuro che l’avrebbe trovata.

    Sapeva che quello era l’istante in cui le terre del mondo si potevano fondere nei suoi orizzonti con il calar del Sole, quando ogni volta si trasformava in un prezioso rubino rosso sull’anello del confine; sempre, davanti ad una nuova alba e ad ogni nuovo tramonto.

    Accadeva quando le verdi foreste della Terra si specchiavano nelle dolci e azzurre acque dei laghi ricreando immagini gemelle di se stesse!

    Accadeva anche quando le vette innevate dei monti andavano a incastonarsi tra le stelle dei cieli, come fossero regine vanitose avvolte da candide pellicce mentre sfoggiano le loro corone di diamanti; allora sì, che ogni luogo era meraviglioso!

    Attraverso gli occhi della sua mente, ogni angolo della Terra sembrava infondergli costantemente energia vitale, mentre continuava a roteare in un perpetuo rigenerarsi per restare ogni volta diverso e sempre strabiliante, dove la bellezza continuava a fare capolino senza mai svelarsi.

    Quel modo in cui osservava ogni cosa gli trasmetteva nuovo fascino e bellezza che illuminavano la sua mente e rimanevano depositate nel cuore, maturando la gioia di esistere. Gli occhi di Kevlin non si sarebbero mai riempiti dal vedere dentro il grande spettacolo della natura in quanto essenza primordiale di ogni cosa bella, ed il pianeta Terra, almeno fino a quel momento, rimaneva il miglior luogo su cui vivere!

    Era questa sua passione per l’impalpabile senso del bello a farlo costantemente cavalcare sull’onda dei suoi pensieri. L’arte, le persone, i colori, ed ogni cosa su cui si poteva respirare il profumo della bellezza lo mandava in estati, tanto da riuscire ad isolarsi per ore in mezzo a tanta gente.

    Come un’ape che vola saltando da un fiore all’altro alla ricerca del prezioso nettare completando così lo scopo della sua esistenza, anche Kevlin voleva ricercare la conoscenza della realtà delle cose proprio come fosse nettare da trasformare in miele. Voleva scoprire il Re’shit di tutto e tutto ciò che si poteva nascondere dietro l’essenza prima della bellezza, tanto desiderata da ogni uomo quanto effimera, evanescente e irraggiungibile.

    In un modo o nell’altro ci sarebbe riuscito!

    Sapeva che avrebbe dovuto cominciare analizzando tutti quei suoi stimoli interiori attraverso una giusta chiave di lettura. Li doveva comparare con gli istintivi tratti comportamentali presenti nella razza umana ed infine, era sicuro, i risultati gli avrebbero permesso di trovare le risposte che cercava.

    Ma c’erano altri tasselli vaganti nella sua mente che avevano comunque ancora bisogno di collocarsi al posto giusto. Erano immagini mentali che ruotavano attorno a quello strano impulso interiore, quasi fosse una smania presente nell’ uomo e apparentemente assente negli animali, di voler lasciare un segno del proprio percorso di vita, qualcosa che parlasse di se alle generazioni future.

    E l’uomo ne aveva lasciati a milioni di segni nel corso della sua storia!

    Gli aspetti più eclatanti dal punto di vista di Kevlin diventavano evidenti quando si soffermava sulla realizzazione delle grandi opere edili, come maestosi templi, edifici, ville reali e palazzi di tutto il mondo, senza neanche trascurare le immense piramidi egiziane. Tutte queste avevano lo stesso denominatore comune. Erano in un qual modo inserite nel meraviglioso quadro decorativo della natura e del creato. Se gli edifici dei sovrani di ogni epoca dovevano esser contornati da immensi parchi, giardini e animali di ogni specie e multicolori in modo da dar lustro e regalità al nome dei regnanti, anche le armoniose piramidi, apparentemente circondate da sola sabbia, dovevano fondersi nella più perfetta armonia con l’elegante volta celeste. Tutto era stato pensato e fatto in modo da creare una perfetta simbiosi con la sublime bellezza della natura in modo da lasciare un ricordo permanente, un nome, nel tempo e nello spazio.

    Per Kevlin doveva necessariamente esserci una qualche spiegazione logica e razionale che stava all’origine di un tale dispendio di tempo, forze ed energie. Non si dava per vinto. Voleva sapere che senso avesse quella forza impellente che aveva spinto l’uomo in quella direzione.

    Erano infatti comportamenti che Kevlin reputava irrazionali dal puro punto di vista evolutivo. Voler tramandare il ricordo di sé, farlo attraverso la costruzione e realizzazione di cose importanti, grandi e durature. Ed infine, abbellire il tutto con ciò che la natura ha da offrire, doveva trascendere da una forza interiore che andava oltre la semplice vittoria del più adatto e del più forte.

    Il semplice atto di portare dei fiori sulla tomba dei propri cari, di per se non aveva senso. A chi servivano di fatto? Perché investirci del tempo e del denaro? Eppure, ancora una volta ancora quel gesto. Tutto ciò che è la sua vita e la sua morte, l’uomo l’ha sempre voluta contornare con la bellezza di ciò che la natura possedeva in sé.

    Il ricordo, la tomba, la lapide, la scritta; poi i fiori, il giardinetto attorno, le piante, il senso di pace di ciò che offre la natura…

    Era proprio questa persistente simbiosi onnipresente in tutti gli strati comportamentali della storia dell’umanità che lo affascinava, la correlazione tra Vita, Morte e Natura.

    «Infatti, non a caso, molte opere architettoniche che l’uomo ha realizzato, per essere complete nella sua bellezza, dovevano inevitabilmente esser contornate da quegli elementi che solo la natura poteva fornire. Senza quella speciale decorazione, ogni opera poteva risultare imperfetta, mancante di quel tocco che la potesse rendere completa!», diceva Kevlin durante le sue lezioni.

    «In questa ottica, si può ben affermare che la natura di per sé, abbia il duplice potere di adornare sé stessa, in quanto essenza di una bellezza intrinseca, e di poter decorare con successo anche ogni opera realizzata dall’uomo. Decorare, è proprio il termine adatto. Significa rendere d’oro, o rivestire d’oro, nel senso di abbellire o rendere prezioso qualcosa… così, applicando questo termine nell’arte della pittura, ritroviamo che le decorazioni venivano applicate su cornici di legno in dipinti di particolare pregio. La tecnica era molto precisa: venivano stesi finissimi fogli di oro sopra la cornice lignea precedentemente bagnata con della colla, poi con morbidi pennelli vi si premeva la foglia d’oro zecchino in modo da farla aderire e stendere alla perfezione facendo attenzione che coprisse ogni insenatura o intarsio. Il risultato era come se l’intera cornice lignea fosse composta da un solo blocco massiccio di quel prezioso metallo. Una volta finito il lavoro, la stessa cornice intarsiata ed ora dorata svolgeva il suo sublime compito: dare luce, valore e risalto al quadro.»

    Kevlin integrava spesso questo ragionamento ai gruppi che si riunivano nel suo studio, citando per l’occasione un piccolo dipinto esposto nella Galleria d’arte Moderna a Palazzo Pitti.

    Si trattava di un’opera del Borrani, che riproduceva L’estasi di Santa Teresa d’Avila del Bernini. L’artista vi aveva infatti profuso tanta cura, sia al dipinto sia alla forma della cornice, prima intarsiata e poi completamente dorata. La particolare cornice risultava costruita a gradini in modo da dare alla scena del dipinto il senso della profondità, tridimensionalità e preziosità. Era evidente che il soggetto primario fosse la santa del dipinto, ma senza quella cornice la scena non avrebbe avuto lo stesso valore. Di fatto era la cornice che finiva in bellezza quell’opera artistica.

    La natura, come quella cornice, dava lustro e bellezza ad ogni pensiero dell’uomo.

    Ma si poteva fare di più. Kevlin usava spesso le sue profonde riflessioni sulla vita e la bellezza per aiutare i suoi pazienti:

    «Solo attraverso i giusti sentimenti per le cose belle si può aiutare un osservatore ad ammirare tali sfumature in modo che possa apprezzarle. E solo con una mente che lavora in questa direzione si può imparare a cogliere lo spettacolo che avvolge l’intera scena!» poi aggiungeva:

    «…Una cosa che ci piace, d’altronde, non è sempre bella e basta! Spesso bisogna fare uno sforzo cosciente per comprendere perché quella cosa suscita in noi certe emozioni… Molte volte capita che non sappiamo nemmeno noi perché un tramonto ci attira tanto da fermare l’auto sul bordo della strada e correre ad aspettare che il Sole cali dietro l’orizzonte. Ci vuole impegno e desiderio per capire cosa si nasconde dietro alla prima impressione. Molte cose che ci circondano, se non tutte, hanno sempre un loro contorno che le valorizza e capire come sono fatte, e quali sono gli elementi che ne risaltano il valore, è un lavoro mentale fondamentale per la salute del nostro io interiore. Vedete cari amici…» proseguiva Kevlin:

    «…Riuscire ad osservare le cose in modo da apprezzarne la bellezza può aiutarci a far emergere ed esternare le nostre buone caratteristiche, indispensabili alla qualità della vita, quei tratti positivi del nostro animo che spesso teniamo celati sotto la cenere delle nostre paure. Non basta semplicemente fermarsi su ciò che colpisce i nostri sensi primari. O per dirla in senso figurato, non dobbiamo fermarci ad ascoltare chi bussa alle porte di accesso dei nostri stimoli, senza andare a vedere chi è!», faceva allora una pausa e poi continuava: «Se invece impariamo a riconoscere le nostre emozioni e scopriamo perché una cosa ci attrae, queste diventeranno forze nuove e positive per i nostri stati vitali!»

    Per i suoi pazienti questo doveva essere un esercizio mentale come compiti da fare a casa, affinché ogni giorno potessero riuscire a discernerne tutti i fattori che ruotavano intorno alle cose che colpivano i loro sensi e che li avrebbero stimolati. Questo avrebbe contribuito egregiamente ad allargare le loro menti verso la positività della propria vita. Imparare ad apprezzare era uno dei cavalli di battaglia di Kevlin e una grande forza motivante. Non tutti afferravano questi concetti, spesso le difficoltà della vita, il retaggio culturale, o semplicemente un’infanzia fatta di delusioni e privazioni portavano molti suoi pazienti a rimanere impassibili a tali stimoli. Così Kevlin insisteva e riprovava con esempi semplici:

    «Provate a pensare ad un fiore, una rosa!», Diceva…

    «Cos’è che vi attira? E’ forse la sua bella forma? O sono i colori dei petali? O è il suo profumo? Certo, tutte queste cose sono attraenti e cogliere in valore di ogni singolo elemento è molto importante. Ma proprio l’esser riusciti ad apprezzarne i singoli componenti in modo separato ci aiuta a comprendere meglio l’insieme; è l’armonia che nasce dall’unione di tutti i singoli elementi che rendono la rosa completa, perfetta ed estremamente piacevole ai nostri sensi!»

    Comprendere e applicare questi nuovi metodi cognitivi, li aiutava a stimolare la mente verso l’apprezzamento delle cose e, quindi, a non cadere nella banalità di una vita puramente ripetitiva e superficiale. Così, adottando quel metodo nelle varie fasi della giornata, molti potevano lavorare sulla propria personalità ricreando nuovi stimoli in chiave positiva atti a rendere più significativa la propria esistenza.

    Per Kevlin tutta la natura era percepita come una cosa perfetta, fatta di innumerevoli singolarità in modo da produrre la bellezza nel suo senso più completo. Amava cercarne la correlazione e l’armonia tra tutte le sue forme, disegni e colori disseminati in miriadi di specie e varietà. Combinazioni che erano costantemente in grado di generare nuovi equilibri e stabilità nella psiche umana.

    Proprio la bellezza tornava ad essere, così, una costante in tutta la storia dell’umanità. Kevlin si riferiva al naturale bisogno dell’uomo di ricercarla continuamente in quanto appagante e al desiderio di averla e toccarla per poter rendere piacevole il proprio scorrere del tempo.

    Di fatto, la realtà era che tale stato d’animo aveva condizionato da sempre idee, progetti, obbiettivi e scelte di vita dell’uomo come se fosse un padrone esigente che detta ordini imperativi. In un modo o nell’altro l’uomo si è ritrovato come costretto dalla stessa forza indomabile che ha dentro, a realizzare le sue imprese spesso folli alla pari di uno schiavo ubbidiente.

    Queste innumerevoli costruzioni mentali lo portavano a consolidare ogni giorno la fondatezza delle sue idee e come un torrente in piena in cerca di argini sicuri, sentiva il bisogno di continue certezze. Prima o poi avrebbe trovato la chiave giusta.

    Capitolo II

    Ognuno il suo giardino

    Lo studio dove riceveva i suoi pazienti era finemente arredato. C’era una scrivania in legno massello con sopra un portapenne in ecopelle ed un blocco per appunti. Il pc portatile al centro del tavolo era costantemente connesso ad internet in Wi-Fi e sulla destra un vecchio telefono in bachelite nera inizio 900 ancora funzionante aveva la ghiera con numeri neri su sfondo bianco e il filo ancora rivestito di stoffa; un vero pezzo da museo. Poi, all’angolo di sinistra del piano scrivania, un singolare orologio digitale con grandi numeri delle ore, dei minuti e dei secondi; vi si poteva leggere nella seconda riga anche il giorno il mese e l’anno corrente. La poltrona, era la sua inseparabile collaboratrice di lavoro. Anch’essa in ecopelle color vinaccio, braccioli imbottiti e pistone regolabile a gas, gli permetteva di allentare la tensione muscolare mentre ascoltava i dolori dei suoi pazienti. Vi era anche una libreria alla parete nord, anch’essa in massello di noce del 700’ con accanto un semplice attaccapanni a muro. Sui ripiani della libreria, oltre ai vari libri di scienze umane e psicologia di personaggi illustri come Sigmund Freud, Maslow ed altri, vi erano alcuni romanzi storici e d’avventura degli scrittori più famosi che Kevlin aveva già letto durante i brevi periodi di vacanza che si concedeva. Tenere ben a vista una varietà di argomenti aiutava i suoi pazienti, inconsciamente, a sentirsi come a casa. Kevlin sapeva molto bene come la presenza di libri sistemati su ripiani, possa trasmettere un’influenza rassicuratrice e positiva. Infine, nello scaffale in alto c’erano varie traduzioni moderne della Bibbia: la Cei, la Diodati, la Riveduta, la Bibbia di Gerusalemme e la Luzzi.

    Il divano dormeuse moderno in ecopelle bianco stava al centro della sala in modo che anche i suoi pazienti fossero a proprio agio. Tutto il resto dell’arredo attorno doveva servire per rilassare e trasmettere un senso di pace. Gli altri oggetti di complemento come il lampadario e l’abat-jour erano della stessa serie in vetro soffiato di murano con leggere finiture colorate. C’era poi un grande mappamondo in legno, vicino all’ingresso, che amava far girare ogni mattina appena entrava a lavoro. Accostato al divano che poggiava sul grande tappeto di manifattura orientale Qum, fatto di seta e pura lana Kork, c’era un grazioso portariviste fatto a cesto ed intrecciato con foglie di mais, con accanto un piccolissimo tavolino dove spesso vi lasciava dei fazzolettini di carta per asciugare le lacrime che inevitabilmente sgorgavano dai dolori profondi dell’anima dei suoi pazienti.

    Le pareti leggermente ambrate, patinate con encausto fiorentino, variavano di tonalità con l’alternarsi dell’illuminazione interna ed esterna, mentre fuori, i riflessi delle varie sfumature del cielo sembravano diventare una perfetta cornice.

    Sulla parete Sud, la bella pianta di ficus dalle grandi foglie verde scuro dava il suo singolare tocco di vita. L’aveva posta vicino alla finestra, in quanto formava un bel contrasto con il colore bianco del tendaggio in canapa. Era stato grazie a quelle giuste combinazioni, tra la luce giornaliera e il grande vaso di terracotta dell’Impruneta che sembrava aver trovato l’habitat ideale.

    Per ultimo, accanto alla parete del Sole, quella est, aveva posto la sua amata Vichitra-vina, bella da vedersi e mistica nel suo contempo. La teneva come fosse un amuleto scacciapensieri, ed il suono che ne usciva quando si pizzicavano le sue tre corde pareva far vibrare l’anima. Subito sopra aveva fissato una piccola mensola in legno leggermente inclinata ad uso leggio in modo da sostenere una vecchia bibbia, che teneva aperta sul suo verso preferito, Eccl.3:11.

    Tutto, secondo la fantasia di Kevlin, serviva a dare la giusta armonia all’ambiente, tanto che, ogni volta che la luce del Sole entrava dalla finestra, leggermente smorzata dalle tende in canapa, variava la sua tonalità riflessa dalle pareti, riproponendo le sue particolari sfumature.

    Infine la posizione dello studio, anch’essa contribuiva a rendere quell’angolo artificiale qualcosa di unico. Era situato all’ultimo piano di un antico palazzo in pietra vicino al ponte Santa Trinità ed aveva una grande porta-finestra si affacciava direttamente su un terrazzino sul lungarno degli Acciaioli.

    Era proprio da lì che si poteva ammirare il sorgere del Sole ad est, dai monti delle verdi foreste Casentinesi appena sfumati dietro la leggera nebbia mattutina, per poi seguirne l’intero corso alto nel cielo finché non scompariva ad ovest dietro il gruppo montuoso di Montalbano. Quelle sensazioni interiori di pace e relax, che Kevlin aveva esaltato dal modo in cui aveva arredato quel suo ambiente, trovavano nuovamente riscontro nelle più disparate opere umane compiute nel corso della storia.

    Così la sua mente correva ad immaginare quello che dovevano essere i giardini pensili babilonesi, terrazze a gradoni con piante di ogni tipo e fiori colorati che ben contrastavano con il colore delle pietre dei muri e della sabbia del deserto tutto intorno. Oppure i palazzi reali sia dell’oriente che dell’occidente, decorati con motivi architettonici di ogni genere e sempre adornati con piante e alberi, corsi d’acqua e fontane zampillanti.

    Certamente tutte quelle meraviglie architettoniche fatte per deliziare gli effimeri sensi dei potenti di allora non avevano niente a che fare con il semplice studio di Kevlin; ma l’amore e la dedizione per le cose belle era la stessa.

    Molte di queste antiche dimore, sono ancora oggi abbellite da giardini attentamente curati e parchi percorsi da canali e ruscelli artificiali, che a loro volta riempiono vasche o stagni sottostanti. Da queste, con raffinate opere d’ingegneria, vengono alimentate cascatelle e fontane in modo da riprodurre nella maniera più naturale possibile gli eleganti giochi e suoni dell’acqua che si potevano ritrovare in natura.

    «Quanta soddisfazione prova lo stesso essere umano quando diventa disegnatore di qualcosa che lo delizia!» Pensava tra sé.

    «Spesso però!», rifletté con una punta di rammarico, «Quello stesso uomo, soddisfatto di ciò che ha realizzato, non possiede l’umiltà di rendersi conto che tutto ciò che desidera e concretizza lo disegna su una tela già stesa e con colori già pronti e preparati in anticipo…»

    Kevlin sapeva per certo che ancora oggi ci stiamo portando dietro emozioni e pensieri vecchi di migliaia di anni ed il naturale desiderio dell’uomo di abbellire il proprio luogo di dimora con elementi e colori della natura lo si poteva percepire anche dalle piccole cose. E di questi istinti predominanti vi trovava tracce nelle attività quotidiane di uomini semplici. Kevlin ricordava spesso con piacere i gesti di suo padre, ormai avanti negli anni, che ogni giorno si dedicava con cura al loro giardinetto di casa.

    Si scendevano sei gradini dalla terrazza di cucina per ritrovarsi poi al livello del giardino pavimentato a ghiaia bianca. Lì davanti c’erano due grandi aiuole con erba verde, tipo prato all’inglese e al centro due grandi ciliegi. Intorno al tronco vicino ai bordi delineato da mattoni in cotto, c’erano vari vasi di gardenie, che pur delicate, grazie all’ombra protettiva degli alberi, riuscivano a far sbocciare i loro profumatissimi fiori bianchi ogni anno.

    Papà vi toglieva le erbacce e le insistenti piante di tarassaco che regolarmente crescevano spontanee ai bordi e, dopo aver tolto le foglie morte dai vasi dei fiori, dedicava il restante tempo a potare e controllare la salute del grande roseto cresciuto lungo il muro, sulla parete confinante con le altre proprietà. Quella pianta era lì da prima che vi andassero ad abitarvi, e suo padre ne era innamorato. L’aveva addomesticata su fili di ferro ancorati al muro e ogni mattina ne piegava dolcemente i rami in modo che ogni suo boccio potesse esporre il suo fiore verso casa; era il suo regalo silenzioso per la mamma. Si trattava del tipo rampicante la Mrs. Herbert Stevens e anch’essa come le gardenie e i ciliegi produceva fiori rigorosamente bianchi e dal profumo molto intenso.

    In contrasto, lungo le pareti laterali del giardino aveva costruito altre aiuole rettangolari e vi aveva piantato bulbi che davano tulipani dalle sfumature multicolori. Era toccante sentirlo canticchiare alcuni motivi della sua giovinezza mentre raccoglieva quei delicati petali bianchi caduti sul terreno.

    Gesti semplici quasi spontanei che andavano a intrecciarsi nella passione istintiva di ricreare il suo piccolo paradiso intorno a casa. Anche queste, per Kevlin, erano azioni che trovavano le sue origini ancora una volta nel Bereshìt.

    In quelle pagine vecchie quanto l’umanità, vi si narra del primo uomo e della prima donna venuti all’esistenza letteralmente in un "Pardes", in ebraico frutteto o giardino ben curato, con confini precisi, ricco ancora una volta di ogni cosa bella da gustare e da vedere. Kevlin non aveva bisogno di cercare molto lontano, nei dintorni della sua città aveva di che riflettere. Anche l’antica famiglia dei Medici a Firenze era oggetto di considerazione per Kevlin in quanto poteva ripercorrere alcune tappe delle loro storie e gesta molto da vicino. Aveva osservato molti dei loro lavori, e messo a confronto esaminato le opere di altri sovrani vissuti in altri luoghi della Terra. Ciò che ne risultava, era vedere che molti di questi avevano mostrato atteggiamenti simili. Sembrava veramente che avessero tutti gli stessi gusti! Cambiava il luogo, il periodo storico e gli stili artistici, certo, ma i modelli comportamentali relativi a gesta e atteggiamenti -intesi come forze motivanti che spingono un uomo a prendere determinate decisioni- erano essenzialmente gli stessi.

    Così che nuovamente, come dal cilindro di un mago, riappare quella forza dominante, il valore che viene dato alla bellezza della natura continua ad essere una sola costante umana.

    Molti regnanti avevano infatti investito ingenti ricchezze per abbellire e gestire quegli spazi verdi che contornavano le loro splendide dimore. Tra i loro desideri, spesso legati all’immagine e al potere, c’era quello di poter dimostrare di possedere qualcosa di unico, raro e bello. Per questo esisteva una vera e propria macchina in movimento formata da uomini e mezzi, con lo scopo di ricercare le piante più esotiche e rare in tutto il mondo, per poi trapiantarle nei loro parchi. Catalogavano minuziosamente le loro erbe, i frutti e i fiori e ricercavano gli alberi più belli e strani da tutti i continenti, come i famosi Cedri del Libano e dell’Himalaya o il Corbezzolo di Grecia o le famose Palme Esotiche che ritroviamo ancora oggi piantate nei loro giardini.

    Particolare attenzione veniva mostrata per le piante di agrumi nelle loro moltitudini di specie naturali o ibride. Niente era lasciato al caso. Giardinieri specializzati curavano tutto l’anno la loro salute e la loro crescita. Furono infatti costruiti ambienti adatti allo scopo, come enormi serre e limonaie, dove fin dal XIV secolo i Medici si deliziavano nel ricreare attraverso vari tipi di innesti a marza posti sotto corteccia sulle piante originali nuove specie dalle forme più bizzarre. Tra le tante, c’era appunto quella che conosciamo con il nome di "Bizzarria", agrume ibrido che risale alla metà del 1600 e che entra a far parte della variegata collezione medicea nel giardino della Villa di Castello. Anch’essa è ancora una volta un altro piccolo esempio di come la passione per quello che la natura ha da offrire, nell’infinità della sua bellezza, sia una forza predominante che ha influito sull’uomo di allora e continua ad agire sull’uomo moderno.

    Ed era vero! Proprio in quel paradiso artificiale, vi si possono trovare piante di limoni, aranci e mandarini vecchie di trecento anni che ancora oggi producono il loro originale frutto.

    Sono gli esperti giardinieri di oggi che come allora, grazie al loro amore e alla loro dedizione, sono riusciti a far rivivere, mantenere e conservare quegli ibridi centenari dai frutti strani e colorati. Il suo grande amico del Parco Monumentale di Castello vicino Firenze, l’aveva più volte accompagnato a vedere quelle piante così preziose che ovviamente per lui erano come figlie.

    Di ognuna sapeva tutto: nome, specie, innesto, storia, e mentre gli raccontava qualche segreto del mestiere, a Kevlin pareva che la vita dell’amico fosse legata da un filo invisibile al bisogno di perpetuare quel lavoro dei suoi predecessori nel voler rendere qual giardino il più bello del mondo!

    D’altronde era sufficiente fare un giro per la Toscana e visitare personalmente le famose Limonaie e serre dei Medici, poste a fianco delle loro magnifiche ville per capire i sentimenti di chi le aveva volute e di chi vi aveva lavorato.

    Nuovamente Kevlin guardava oltre, osservando i contorni temporali di quegli agrumi, la sua mente non poteva non fare un salto indietro nel tempo ed immaginare quelle stesse piante stavolta toccate dalle mani dei giardinieri di allora al servizio di regnanti e sovrani. A Kevlin veniva la pelle d’oca, alla meraviglia di quel pensiero!

    L’istintiva dedizione alla natura come forma di arte e bellezza, anche se enfatizzata da manie di grandezza di persone ricche e potenti, era ed è di per sé, un tratto onnipresente dell’animo umano che non si è mai affievolito con il trascorrere del tempo.

    Tutto questo riportava Kevlin al suo punto di partenza:

    «Cosa è che in fondo spinge un essere umano a dedicare tempo e risorse nell’ inseguire cose tanto effimere come la bellezza di una pianta o di un fiore?», Il salto nella sua mente era automatico, ogni cosa che lo colpiva lo riportava sempre al punto iniziale, al Bereshìt, lì ci doveva essere la risposta.

    La bellezza, come sensazione emotiva per ogni cosa bella -sia oggettiva e soggettiva- veniva istintivamente anelata e come una donna vanitosa si faceva attendere e desiderare. Veniva cercata e infine, una volta trovata incrementava la sua forza impellente affinché potesse essere goduta il più a lungo possibile.

    Ne conseguiva un circolo virtuoso: più la cosa bella durava nel tempo più il ricordo del suo possessore e artefice sarebbe rimasto vivo.

    Kevlin ritornava spesso a pensare all’uomo, ai suoi desideri impellenti e come questi lo spingessero a cercare legittime motivazioni per realizzarli. All’uomo, che fin dall’inizio della sua storia aveva cercato di conseguire i propri obbiettivi scaturiti principalmente dai propri desideri, desideri che andavano ben oltre le sue necessità oggettive e tutto a costo di enormi sacrifici. Grandi opere ingegneristiche, tecniche, edili, solo per menzionarne alcune, per poi incastonarle tutte come fossero pietre preziose nel grande diorama (Spettacolo illuminato a giorno) della natura. Ponderava ancora sull’uomo, che nel fare e nel portare a compimento i propri propositi, prova ancora oggi intense emozioni e grandi soddisfazioni interiori che lo realizzano nel profondo dell’anima.

    «Forse non ci penserà mai razionalmente, ma quell’uomo è felice in relazione a ciò che ha fatto, in quanto nel suo cuore ha saputo dare uno scopo alla sua vita…», così Kevlin concludeva i suoi pensieri.

    Per lui comunque, esisteva dell’altro. La ricerca della bellezza, così ottenibile attraverso tanti sacrifici, andava a cozzare con l’ovvia impossibilità di

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