Il canto del pane: Un viaggio tra rime e farine
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Anteprima del libro
Il canto del pane - Ivana Maria Tanga
Introduzione
Del mare e della terra faremo pane,
coltiveremo a grano la terra ed i pianeti,
il pane in ogni bocca, di ogni uomo, ogni giorno
arriverà perché andammo a seminarlo
e a produrlo non per un uomo
ma per tutti,
il pane, il pane
per tutti i popoli
e con esso ciò che ha
forma e sapore di pane
divideremo:
la terra,
la bellezza,
l’amore, tutto questo
ha sapore di pane
Pablo Neruda, Ode al pane
Il canto del pane vuole essere un viaggio nel mondo letterario alla ricerca dei mille simbolismi, dei mille significati di un prodotto che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino di civiltà. Pane cantato, pane invocato, pane pensato, pane sognato. Pane dalle mille metafore. Universo di segni e di simboli. Nutrimento del corpo, ma anche, nutrimento dello spirito. Il pane: il semplice miracolo quotidiano della farina e della poesia
¹.
Cifra di una semantica che, travalicando la mera dimensione alimentare, diviene linguaggio, diviene pensiero, diviene espressione di sogni e di bisogni. Basta con il sangue e con i fuochi di guerra. Del pane della pace abbiamo bisogno!
invoca il premio Nobel bosniaco Ivo Andric², affidando al pane un messaggio positivo, un destino costruttivo. Il pane, dunque, come espressione, come simbolo, come metafora: il pane della pace, il pane della fratellanza, il pane dell’amicizia, il pane dell’uguaglianza. È l’idea del pane che prende forma per divenire altro, per trasformarsi in concetto, in valore, in credo. Possiamo dire che il pane è la forma di un’idea, di un vissuto, di un percorso. Il cibo, in specie il pane – scrive Roland Barthes – trasmette una situazione, costituisce un’informazione, è significativo. Ciò vuol dire che esso non è semplicemente l’indice di un insieme di motivazioni più o meno coscienti, ma che esso è un vero e proprio segno, cioè l’unità funzionale di una struttura di comunicazione
³. Ad esempio, la stessa espressione pane quotidiano, un’espressione molto comune, quasi banale, sottintende gli affanni, le preoccupazioni dell’uomo rispestto alla precarietà della propria condizione esistenziale. La stessa parola compagno, derivante dal latino cum panis, esprime la condivisione del pane, condivisione nella quale si cementa il legame tra persone.
Alimento che interpreta, dunque, un preciso codice semantico, un linguaggio, un percorso strutturato, costantemente in bilico tra Natura e Cultura. Cibo espressivo di una simbologia che racchiude in sé una sorta di alfabeto muto e sotterraneo affidato ai sensi (il gusto e l’olfatto) che conducono nel profondo, all’anima odorosa delle cose
⁴. Cibo-archetipo, marcatore culturale di una civiltà fortemente radicata nella terra.
Quella civiltà mediterranea, fulgida, solare, che chiama madre la terra e che ritiene sacri il pane, il vino e l’olio. Qui sono le tracce del lavoro umano, della fatica del contadino, qui la bellezza è nutrita di pane
annota Lalla Romano nel suo diario di viaggio attraverso la Grecia⁵, colpita dalla bellezza, dal rigoglio di un paesaggio non più vergine, selvaggio, ma antropizzato, addomesticato dalla caparbia volontà, dall’ingegno dell’uomo mediterraneo.
Si potrebbe scrivere un romanzo del pane mediterraneo, raccontarne la fatica e il sudore, le ansie e le tribolazioni di un prodotto che non è solo figlio della natura, ma dell’intelligenza e della tecnica, dell’arguzia e della necessità. Attraverso la storia del pane, possiamo ripercorrere l’intera storia del Mediterraneo. Esso fungerà da elemento di coesione della koiné mediterranea, nel quale si riconosceranno tutti i popoli affacciati sulle sacre sponde. Nel panificare, questi esperiranno tecniche ed esperienze comuni, edificando, così, quella che possiamo definire, con una espressione bellissima, civiltà del pane. Una civiltà per la quale il pane è metafora di un universo in cui ogni bene era necessario. Pertanto niente andava smarrito, perduto, gettato, sprecato
⁶. È così che il pane diverrà alimento quasi sacro, imprescindibile, basilare. Pane e sale bastano ad alleviare i morsi della fame
ci ricorda il poeta latino Orazio (Satire, libro II). Già, pane e fame, un binomio che, da solo, racconta la storia millenaria dell’uomo, la sua incessante lotta per la sopravvivenza, la sua continua, costante ricerca di cibo.
Quel pane-miraggio di appettiti mai veramente soddisfatti sarà il leitmotiv di storie, di drammi, di narrazioni che affondano nella realtà di una condizione umana vissuta ab limine paupertatis. Pensiamo a quel pane quotidianamente ricercato, invocato, con ansia e desiderio dalle plebi meridionali che ritroviamo negli scritti di un Alvaro o di uno Jovine.
Pane sudato
lo chiama Gesualdo Bufalino. Una metafora che, da sola, sembra contenere in sé tutte le sofferenze, tutti i sacrifici affrontati, nei secoli, dal mondo contadino per procacciarsi il cibo quotidiano.
Pane faticato col sudore della fronte
incalza Luigi Pirandello nella novella La cattura⁷.
Lo scrittore Vincenzo Consolo è ancora più drammatico: pane travagghiatu
, pane travagliato, così definisce il pane dei contadini siciliani. Un travaglio che ha inizio da lontano, dal duro lavoro della terra, una terra che molto spesso non era neanche la loro. Nella Sicilia contadina l’uomo dabbene, il lavoratore, era colui che mangiava pani travagghiatu, frutto del proprio lavoro. Al contrario, il perdigiorno, il fannullone veniva definito con l’appellativo di pani persu, pane perso (equivalente del pan perdido spagnolo), o, ancora peggio, manciapani a trarimentu, mangiapane a tradimento.
Pane-scacciafame
è lo scongiuro che sembra echeggiare nelle opere di un Verga, di uno Scotellaro, di un Silone.
Il cantore degli umili, Saverio Strati, nel romanzo Tibi e Tascia, narra di bambini calabresi, affamati, che raccolgono le briciole di pane fatte cadere a terra nelle case dei signori.
Sembra essere intonato dai protagonisti delle opere del meridionalismo verista e, in seguito, del neorealismo meridionalista, una sorta di canto del pane. Voci che sembrano salire dal profondo delle coscienze, dalle segrete di una umanità tradita, ferita nella propria dignità, privata del necessario. Voci che chiedono pane. Sempre e solo pane.
La storia alimentare delle regioni italiane è essenzialmente storia di pane e di granaglie, una storia che si riflette sul sogno contadino e proletario, incredibilmente lungo, del pane buono, abbondante, bianco
⁸. Il pane sarà l’eterno assillo delle classi subalterne, la loro primaria preoccupazione.
Nei periodi di carestia, per panificare si ricorreva a cereali minori come mais, orzo, avena, miglio, farro, ma anche a patate, castagne, ghiande. "Pane di mais, di segale, di avena, di germano mischiato con avena, di castagna, di patate, di erbe, di ghiande, di orzo, di segale, di lenticchie, cicerchie, pane miscitato con mille miscugli, di lupini, di miglio, di vecce, di paglia, di argilla"⁹. Rocco Scotellaro, in un brano del suo romanzo autobiografico L’uva puttanella¹⁰, cita il cosiddetto pane della questua
, un pane di farine miste che i frati di Tricarico raccoglievano nei loro giri di questua attraverso i paesi lucani.
Certamente, nella storia dell’alimentazione umana il pane è uno dei cibi più carichi di valenze culturali. Si conosce un paese solo quando si è mangiato il suo pane
scrive Manuel Vasquez Montalbàn in Assasinio al Comitato centrale, parfrasando Karl Marx. Niente di più vero!
Il pane rappresenta per l’uomo non solo il riscatto dalla fame, ma anche la sua abilità nel dominare la natura, di intervenire sulla materia, sugli elementi, tanto da divenire prodotto culturale per eccellenza, prodotto-simbolo dell’uomo razionale.
Il pane segna l’inizio della nozione della produzione organizzata dall’uomo
(P. Matvejevic).
Nel pane "si stratificano memorie ancestrali, valori simbolici, usanze regionali e