Dove la terra finisce: Il viaggio gastrosofico di Eugenio Montale in Normandia e Bretagna
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Anteprima del libro
Dove la terra finisce - Pierpaolo Pracca
Montale
Montale goloso
A volte, le tracce più nascoste o poco studiate che un poeta nel corso della vita lascia di sé – un appunto, una riflessione in un articolo di giornale – servono a comprendere meglio la sua biografia, la sua umanità.
Questo saggio si propone di presentare uno scorcio dell’universo privato di Eugenio Montale legato ai suoi viaggi e ai suoi soggiorni nel nord della Francia, all’interno di un arco temporale che va dal 1951 al 1956. Soggiorni dai quali emerge un materiale documentario minimalista che forse ci aiuterà a cogliere il sottofondo umano, troppo umano, di un autore conosciuto più per la sua grande poesia che per i gusti culinari o per le sue stravaganze private. Ma forse questa è proprio un’occasione per rivolgere il nostro sguardo a quello spaccato fatto di documenti – meno nobili e apparentemente più lontani dalla parola poetica delle antologie – nei quali emerge l’uomo Montale, con le sue curiosità culinarie e le sue considerazioni gastrosofiche. Sappiamo della passione di Montale per il canto, meno è conosciuta quella per il buon cibo. Da bravo genovese amava la torta pasqualina, il pesto – in particolar modo quello ricavato dal basilico che cresce nelle latte sui tetti di Genova –, la cima, il vino delle Cinque Terre.
Che la pesca e i viaggi fossero, certamente, le quasi sole occupazioni degli uomini è un fatto che spiega i caratteri della cucina ligure. Di conseguenza, è una cucina per gli assenti, insomma per quelli che tornando (non si sa tra quanti giorni) dovevano trovare in dispensa qualche cosa da mangiare. Perciò questa è l’origine di meravigliosi piatti freddi. La cima ripiena, la torta pasqualina… Sicuramente innumerevoli altri ripieni (di zucchine, di melanzane, di sardine, di cavoli), i sott’aceti, i sott’olio. Infine i funghi in addobbo, in pratica tutte le cibarie che non hanno nulla da perdere se il loro ipotetico consumatore non è ancora apparso all’orizzonte. Unica eccezione la panizza (di farina di ceci) che dovrebbe essere divorata caldissima prima che giunga a tavola. (da Paesaggi della Riviera di Levante, 1970).
A questa elegia dedicata ai sapori della sua terra natia possiamo poi aggiungere, come riporta Umberto Curti1, una vera e propria confessione nella quale Montale dichiara apertamente la propria golosità:
Nacqui lurco, mi adusai alla voragine del gargarozzo (mi giustifico sempre coi gelati di Giacomino); numerosi sapienti mi predissero il Terzo Cerchio. Candida Gina, la Musa al liminare mi salverà per il rotto della cuffia. Eugenio Montale goloso come Leopardi.
Orgoglioso dei cibi della sua terra – dallo Sciacchetrà, che considerava superiore al Porto, alle acciughe messe a marinare o sotto sale nelle arbanelle, ai limoni dai quali ricavare una prelibata marmellata – Montale era inoltre solito collezionare i menù dei ristoranti e delle trattorie che frequentava, soffermandosi sui prezzi e sugli ingredienti dei piatti. Non ci sorprenderanno quindi le sue considerazioni culinarie e la partecipazione in qualità di relatore2 – in quel di Milano, nel lontano 1964 – alla presentazione di un ricettario, La cucina di Falstaff, a opera del noto gastronomo abruzzese Vincenzo Buonassisi. Ma la sua attenzione per il cibo traluce anche da una sua poesia – Al mare (o quasi) – dove descrive i bambini intenti a raccogliere i pinoli utili per preparare la galantina:
L’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina…
Inoltre, come ricorda l’indimenticato Gaetano Afeltra3 – suo collega per anni al Corriere della Sera – da bon vivant qual era Montale non sapeva rinunciare al rito quotidiano del marron glacé, che era solito celebrare puntualmente alle diciotto al caffè Alemagna di via Manzoni, accompagnato dalla fedele governante Gina Tiossi. La passione per i ristoranti e per i loro frequentatori mette in luce un Montale ironico e arguto, capace, non senza compiaciuta ironia, di studiare gli altri nell’espletamento di una attività primaria come quella di mangiare e bere.
Il cibo, tuttavia, non è sempre collegato