A cena con la Locandiera
Di Flavio Russo
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Anteprima del libro
A cena con la Locandiera - Flavio Russo
Introduzione
"Se t’inganno, prego el cielo de perder quello che gh’ho più caro: l’appetito".
Parola di Arlecchino; quindi parola di Carlo Goldoni, che alla maschera rattoppata ha affidato, per sempre, i suoi messaggi più veri. Già, perché nelle commedie goldoniane niente è più indispensabile di un solido appetito: più degli abiti alla moda, delle maniere affettate dei salotti e ancora degli stessi zecchini necessari per comprare tutto e tutti.
Non c’è commedia in cui non si mangi almeno una volta, sia cena, pranzo o colazione, o almeno uno sfizietto pomeridiano, o uno spuntino rubato a qualsiasi ora in qualsiasi cucina.
Mangiano dame e cavalieri, vedove e cicisbei, lavandaie e servitori: questi ultimi soltanto quando e dove possono. Mangiano anche i vecchi mercanti avari, padroni delle case e dei loro contenuti: pietre, mobili e persone; anche se si sfamano con cibi poverissimi, quasi scadenti, sconditi e stracotti: perché anche i bocconi costano, soprattutto quelli obbligatoriamente offerti a ospiti inattesi, se non indesiderati, a pretendenti abusivi delle figlie, a servitori comunque poltroni.
Nessuno meglio di Goldoni conosce il suo tempo e il mondo di coloro che si stanno facendo padroni di quel tempo, e del tempo a venire: i borghesi della mercatura e i legulei che devono giustificare i loro profitti; e i medici e gli speziali ai quali tocca curare, empiricamente ancora, le loro stressatissime consorti; e i profittatori pidocchiosi e volpini, asserragliati in cupi studioli, speculando sulla loro stessa avarizia. Infine, gli slombati epigoni della decaduta nobiltà di spada, costretti ad assediare le loro figlie per rimpinguare i propri dissipati patrimoni.
E nessuno meglio di Goldoni sa rappresentarli, quel tempo e quel mondo, con altrettanta maliziosa ricchezza di particolari, con altrettanta adesione, con altrettanta autentica simpatia; così da metterne i difetti, e i vizi, alla berlina, ma senza reale offesa, con la certezza anzi di stare indagando una importantissima trasformazione della civiltà, di ritrarre sul nascere quella novella storia
che Goethe riconoscerà solo più tardi.
Goldoni si diverte nello scrivere e nel rappresentare le sue commedie perché vi mette dentro, consapevolmente, la vita; e la vita è fatta certamente di pregi, ma questi la rendono più noiosa, mentre la vivacizzano i solari difetti e la soddisfazione delle necessità primarie.
Delle quali il mangiare è la primaria in assoluto, quella che si ripresenta, puntualissima, più volte al giorno; quella che dichiara al mondo, a voce alta, lo stato di salute dei personaggi, garantendo ogni volta che l’imbroglio della vicenda troverà il suo scioglimento: quello che proprio si attende un pubblico che sa benissimo di vedere, sul palcoscenico, rappresentato se stesso.
Cibo, dunque. Cibi, anzi: elencati con la precisione di un compilatore di menù del Caffè Quadri; descritti con l’acquolina in bocca, con l’orecchio teso a captare uno sfrigolìo o un gorgoglìo, con le nari dilatate ad assorbire la traccia di un soffritto, di un guazzetto, persino di un povero brodo di verdure.
Quanto abbia influito il gusto personale dell’Autore nella individuazione dei cibi e delle bevande citate nelle commedie è rilevabile con una certa esattezza dalla lettura dei suoi "Mémoires", per cui paiono appena accentuate le scelte gastronomiche fondamentali che costituiscono una vera sorpresa per l’attento lettore, soprattutto per quanto riguarda la borghesia veneziana: una decisa propensione per una dieta terragna, ricca di carni e di farinacei, propria di chi trascorre gran parte dell’anno nelle splendide tenute in terraferma, di cui le ville non rappresentano che il cuore di organismi economici perfettamente funzionanti.
Scelte, queste, fatte a scapito del pesce, lasciato piuttosto ai pescatori stessi, ai Chiozzotti, e alle "fresconazze (che) / le fa pezo dei fioi; / le magna i garaguoi, le magna i biscoteli da Bologna, / e tutto le tra zo, ch’è una vergogna" (ragazze di poco giudizio, che fan peggio dei maschi; mangiano i molluschi, mangiano le castagne secche di Bologna, / e buttano tutto in strada, ch’è una vergogna).
Non è invece una vergogna quella del Nobile Labia che getta nel canale le posate d’oro e d’argento, spavaldamente equivocando sul proprio cognome: "L’abia o no l’abia, sarò sempre Labia"; salvo far stendere fitte reti sotto il pelo dell’acqua per un pronto ricupero.
Goldoni, però, non si cura dei Labia e degli altri Patrizi parinianamente languenti. Egli è un borghese, e di quelli positivi:
"Ero la gioja di casa. La mia governante diceva che avevo spirito. Mia madre prese cura di educarmi, ed il mio genitore di divertirmi. Fece fabbricare un teatro di marionette, e in età di quattr’anni trovai esser questo un delizioso divertimento".
Il teatro come divertimento, la vita come teatro. E, per la proprietà transitiva, la vita come divertimento.
Qualcuno in casa ha dovuto iniziarlo ai piaceri della buona tavola: forse quel nonno Goldoni che morì di un mal di petto acquistato in una partita di piacere
. L’Autore ne fa tesoro, in Venezia e nelle molte città d’Italia ed Europa che ha la ventura di visitare. Certo, perché le vicende goldoniane, così come le sue commedie, si ambientano non solo in Venezia,