Rime e ricette in Giosue Carducci: Tour poetico-gastronomico nella Maremma toscana
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Un tour poetico-gastronomico nella Maremma toscana, tra San Guido, Bolgheri e Castagneto, in quella terra che sprigiona ancora i profumi, i sapori, la natura fiera e generosa della sua gente, intatti e uguali, oggi come allora, quando hanno ispirato le poesie maremmane.
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Anteprima del libro
Rime e ricette in Giosue Carducci - Brunetta Lugioli
Il soggiorno maremmano
In quell’autunno del 1838 arrivò a Bolgheri, dalla ridente Versilia, il nuovo medico condotto, Michele Carducci, accompagnato da tutta la famiglia: la moglie Ildegonda, i figli Giosue (senza accento, come a lui piaceva), bambino di tre anni, il secondogenito Dante, di pochi mesi, la madre Lucia, la sorella Maddalena, lo zio Natale.
Il dottor Michele era stato implicato nei moti carbonari del ’31 e negli anni dell’università aveva contratto amicizie molto compromettenti; inoltre non nascondeva affatto le sue idee. Fu anche trovata una sua lettera in cui manifestava gli ideali carbonari e, soprattutto, in un interrogatorio, ammise candidamente di averla scritta proprio lui. A nulla valse l’intercessione della madre Lucia: Michele fu condannato a un mese di prigione e a un anno di relegazione a Volterra per cospirazione
; quindi prima scontò la pena e poi si laureò. Il conte Guido Alberto della Gherardesca, nel cui feudo si trovava Bolgheri, conosceva bene i trascorsi del Carducci, essendo molto vicino al Granduca Leopoldo II, ma la nomina del medico spettava alla Comunità, e nulla poté, se non, accortamente, cercare una pacifica convivenza.
Gli fu assegnato un appartamento comodo e spazioso, nella Fabbrica nova, dove abitavano in tutto quattordici famiglie. Si trovava proprio sulla piazza, e i bambini non ci misero molto a fare amicizia con gli altri bambini, senza distinzioni sociali, che a Bolgheri non c’erano. Intanto in famiglia era nato un altro bambino, chiamato Valfredo in onore del conte.
L’istruzione dei figli era affidata alla famiglia, che insegnò loro a leggere e scrivere, e Giosue fu mandato anche alla scuola del prete, Don Bertinelli, l’unica a Bolgheri, ma fra i due nacque subito una spiccata antipatia. Giosue, già alfabetizzato, non dimostrava evidentemente quella deferenza dovuta nei confronti del maestro, e il clima familiare, spiccatamente anticlericale, non aiutava. Quando morì nonna Lucia, che aveva sempre mediato tra il nipote e la scuola, la situazione precipitò e Giosue apostrofò il maestro Don Nocchino
, in presenza a tutta la classe. Le conseguenze furono che il Vescovo allontanò Don Bertinelli, Giosue fu rinchiuso in casa per diversi giorni e gli scolari di Bolgheri rimasero senza maestro.
Giosue non perdonò mai il prete e nel 1871, dopo ben venticinque anni, in Rimembranze di scuola, lo ricorda come un fastidio, qualcosa di stonato nel perfetto fulgore dell’estate:
Era il giugno maturo, era un bel giorno
Del vital messidoro, e tutta nozze
Ne gli amori del sole ardea la terra
Igneo torrente dilagava il sole
Pe’ deserti del cielo incandescenti,
E al suo divino riso il mar ridea.
Non ridea io fanciullo: il nero prete
Con voce chioccia bestemmiava Io amo,¹
Ed un fastidio era il suo viso: intanto
A la finestra della scuola ardito
S’affacciava un ciliegio, e co’ i vermigli
Frutti allegro ammiccava e arcane storie
Bisbigliava con l’aura […]
Il padre aveva imposto a Giosue un’educazione classica, che al figlio destava molto interesse: "Mio padre aveva una librerietta più che passabile per un medico di maremma; […] Mia prima lettura, con indicibile entusiasmo, con l’interesse col quale si leggerebbe un romanzo: l’Iliade. Mi ricordo ancora quando mi protendevo col libro aperto dalla finestra per vederci anche a leggere ai rossi crepuscoli della primavera maremmana. E poi l’Eneide […] E poi la Gerusalemme […] Con lo stesso rapimento ed amore leggevo le storie sì greca e romana, sì moderna. A questo punto si riportano le scappate […] e allora mio padre mi puniva […] E voleva che leggessi la Morale cattolica e l’Adelchi. E quindi cominciò il mio odio col Manzoni. Del quale prima avevo letto con molta curiosità per due volte I promessi sposi."
Spesso si sottraeva allegramente alle imposizioni paterne e se ne andava a giro per la campagna. Quel tratto della Maremma che va da Cecina a San Vincenzo è il cerchio della mia fanciullezza e della mia prima adolescenza. Ivi vissi, o per meglio dire, errai dal 1838 all’aprile del 1849… Quando mio padre mi sgridava un po’ troppo, io fuggivo di casa e andavo errando per le brughiere presso il mare e le colline cretacee, e facevo lunghe meditazioni su le lucertole, i biacchi e i falchetti: quel silenzio mi piaceva. Un’altra mia contentezza d’alzarmi la mattina avanti al sole per menare a bere i cavalli. Che felicità a trovarmi a quell’ora fra i robusti villanzoni e i butteri.
L’abbeverata mattutina dei cavalli avveniva quasi certamente alla fonte dell’Aquila, che esiste ancor oggi.
Queste fughe non furono però senza conseguenze: una mattina, tornando dai suoi giri errabondi, trovò il suo amato falchetto sgozzato e il suo lupacchiotto venduto. Era stato il padre, di grandi ideali ma di pessimo carattere, che lo aveva punito attraverso gli incolpevoli animali.
Giosue però non demordeva e, come dice lui stesso "invasato così di ardore epico