Nella terra del diavolo
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Anteprima del libro
Nella terra del diavolo - Maria Teresa Landi
Maria Teresa Landi, Luciana Tola
Nella terra del diavolo
Battitore libero
Titolo originale: Nella terra del diavolo
© 2015 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea settembre 2008
II edizione cartacea maggio 2015
ISBN II edizione cartacea: 978-88-6396-644-2
I edizione e-book settembre 2015
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-690-9
www.giovaneholden.it
holden@giovaneholden.it
ISBN: 9788863966909
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Prefazione
Premessa
Fuori del tempo
Destino di donne
Questioni di lana caprina
Mamma, li turchi!!!
Lo straccione
Un prigioniero scomodo
Omicidio eccellente
Il rogo dell’eretico
Venere imperiale
All’ombra della torre
Foto d’archivio Immagini di un tempo che fu
Ah, le mi’ nonne
La santona
Camicie rosse
La sciantosa
La Rosa e Manuele
Uno scoop d’altri tempi
Al mare ’un si comanda
Il pidocchio
Il bagno Egidio Pe’
Sul lago
Un pizzico di storia
…e una spolverata di vernacolo
Modi di dire
Bibliografia
Ringraziamenti
Le Autrici
Alle persone care che hanno creduto in noi,
incoraggiando e sostenendo la nostra avventura letteraria.
Prefazione
Quando Viareggio si affacciò alla ribalta della storia, dovette combattere una lotta disperata contro una natura ostile che per oltre due secoli minacciò la stessa sopravvivenza del piccolo borgo, che si era formato all’ombra della cinquecentesca Torre Matilde.
Un’immensa palude e una macchia tenebrosa circondavano il borgo di Viareggio, flagellato dal vento di libeccio e dal morbo malarico.
Viareggio era allora la terra del diavolo
, poi nel Settecento l’intervento lungimirante e risolutore dell’ingegnere bresciano Bernardino Zendrini mutò in poco tempo questo stato di cose. La città iniziò a vivere un’altra storia che ben presto creò le premesse per cancellare dalla memoria un passato di disperazione e per l’affermazione di una realtà turistica e mondana, di un centro nautico di prim’ordine, che nel Novecento portarono alla ribalta Viareggio, che si affermò nel panorama nazionale ed europeo come la perla del Tirreno
.
Una storia di sacrifici e di sofferenze, ma anche di ingegno, che ormai è generalmente nota grazie a numerose e approfondite ricerche storiche, che hanno avuto in Francesco Bergamini uno dei maggiori protagonisti di questa operazione di ricostruzione delle radici storiche di Viareggio e di affermazione delle peculiari caratteristiche sociali e culturali dell’identità dei suoi abitanti.
Un viaggio nel passato di Viareggio che viene anche riproposto da Maria Teresa Landi e Luciana Tola in questo volume Nella terra del diavolo.
Le due autrici, senza avere la pretesa, peraltro dichiarata, di scrivere un nuovo libro di storia, anche se dalle fonti storiche e dai documenti d’archivio hanno attinto con scrupolosa attenzione, con impegno e grande passione hanno tracciato un percorso nella storia della città, dalle origini alla fine dell’Ottocento, ricostruendo avvenimenti e tratteggiando personaggi che spesso sono storicamente veri
, spesso verosimili, ma sempre immersi in un’atmosfera che pulsa di sentimenti e di emozioni.
Un volume che restituisce un passato che ha tutte le caratteristiche per risultare coinvolgente e in grado di mettere in luce una storia locale, che supera le barriere del suo territorio e si alimenta di influssi geograficamente più ampi.
Il volume, che condensa l’esperienza delle due autrici nel campo della didattica scolastica e una ormai comprovata capacità di organizzare la costruzione narrativa, è certamente, come hanno citato nella premessa, un’opportunità offerta al mondo della scuola di Viareggio e della Versilia per sfruttare la valenza formativa della Storia locale
, ma in generale, per tutti i lettori, un’occasione per riscoprire un passato pieno di fascino che, nella quotidianità di un presente troppo spesso vissuto nella corsa frenetica e superficiale verso il futuro, rischia di essere dimenticato.
Paolo Fornaciari
Direttore del Centro Documentario Storico di Viareggio
Premessa
Questo libro è dedicato a tutti coloro che amano il proprio territorio e la sua storia, nel nostro caso una fetta di quella bella terra toscana sospesa tra monti e mare che è la Versilia e più precisamente Viareggio.
Viareggio, da sempre il cuore marittimo della provincia di Lucca, costituisce il fulcro dei venti racconti che, tra storia e fantasia, fanno rivivere alcune tappe salienti del suo passato. A Lucca essa deve le proprie origini e il proprio sviluppo; è naturale perciò che i destini delle due città risultino strettamente intrecciati, in un complesso rapporto di amore - odio che dura tuttora.
Questo non è un libro di scuola, ma nasce dalla scuola e più precisamente dalla nostra esperienza di insegnanti di Lettere alle prese con alunni spesso recalcitranti di fronte alla storia e beatamente ignari del passato della loro città. Occorre, però, conoscere il proprio ambiente per amarlo; ecco perché i racconti possono offrire agli insegnanti una buona opportunità per sfruttare la valenza formativa della Storia locale. Essi danno lo spunto per guidare gli alunni in piccole attività di ricerca storica sul campo, utilizzando materiale d’archivio, visite guidate a mostre e musei, percorsi strutturati all’interno della città, allo scopo di dare un volto e un nome agli individui, quei vili meccanici
di manzoniana memoria, che rivivono così attraverso le loro azioni, i pensieri, il punto di vista, ricostruiti con l’immaginazione, ma con l’occhio attento alla documentazione storica.
Non solo storia, però: ha guidato il nostro lavoro anche il gusto del narrare, del costruire intrecci, dell’esprimere sentimenti ed emozioni senza tempo. Il nucleo storico ne costituisce il pretesto.
Partendo dunque da fonti certe
, citate puntualmente nelle introduzioni ai singoli racconti e nelle relative note bibliografiche, abbiamo selezionato momenti e personaggi, aprendo di volta in volta sul passato degli spaccati di vita quotidiana, nell’intento di ricreare la particolare atmosfera che rende originale e distinguibile un luogo, un popolo, rispetto agli altri. Un percorso nel tempo, dalle origini alla fine dell’Ottocento, offerto a lettori di tutte le età, senza dimenticare che la realtà politica, sociale e culturale di Viareggio e della Versilia in genere non può non essere stata influenzata profondamente da ciò che avveniva al di fuori di essa. Così intesa, la storia locale diventa la spia per conoscere un passato di più ampia portata, nazionale ed europeo.
Per concludere, un’ultima osservazione: ciò che, a nostro avviso, differenzia il libro da tanti altri dedicati a Viareggio e da noi puntualmente citati, è proprio il non essere solo cronaca
.
Dalla cronaca scaturiscono infatti bozzetti, figure, situazioni, frutto sì della nostra fantasia, ma assolutamente verosimili, credibili (almeno si spera!) e così vivi da coinvolgere qualsiasi lettore tirandolo dentro la storia con la forza della narrazione, come fa il cinema grazie al potere dell’immagine.
Non è un obiettivo facile da raggiungere: dei risultati giudicherà il lettore.
Ricordati, Isabella, che la storia non è la somma degli eventi soltanto. È un insieme di sogni, di illusioni, di progetti mancati. È una messa in scena in cui tutti a ugual diritto siamo attori. Ma è anche un teatro dell’anima di cui niente rimane se qualcuno non ha la forza e la pazienza di raccontare…
Marisa Bulgheroni, Un saluto attraverso le stelle,
Mondadori, Milano, 2007, pag. 7.
Viareggio è una giovane-vecchia città e così, eterna fanciulla attaccata ai suoi sogni, vive sì intensamente il presente, ma con la paura sempre di perdere qualcosa del suo pur breve passato. Come d’estate.
Per chi cerca un’oasi di frescura nelle calde sere d’agosto è bello, a Viareggio, dirigersi a piccoli passi così, senza fretta, verso il molo. Lasciarsi alle spalle vetrine traboccanti di promesse e di voglie malcelate, gente, colori, risate, cinema affollati, coppe gelato con biscottino e sciroppo colato - oh, quanto golosamente! - sulla crema morbida; e poi ancora palazzi e alberghi orgogliosi delle decorazioni fastose, vestigia di una stagione aristocratica che ancora s’impenna e vorrebbe resistere all’assalto del turismo di massa… tutto questo dunque, e altro ancora, per immergersi negli ultimi barbagli di fuoco sul mare tremolante di brezza.
Passeggiare poi lungo il molo inseguendo con sguardo distratto il profilo di una vela che si disegna nitida sull’orizzonte e respirare il piacere voluttuoso dell’aria profumata di salmastro... Viareggio riserba ancora di questi regali. E così, un passo dietro l’altro, il cuore s’impregna di magici sussurri, disposto a rammentare le antiche storie di questa giovane, vecchia città. Storie e leggende che una volta gli anziani amavano raccontare sul canto del fuoco
e che oggi lei difende, gelosa, dall’assalto del tempo.
Può capitare, allora, di fermare i passi accaldati in un angoletto di Piazza dei Palombari (nome davvero pomposo per un così piccolo spazio sospeso tra cielo e mare!) e intravedere, seminascosta da arruffati cespugli di pitosforo, la sirenetta immortalata nel bronzo con lo sguardo fisso verso quel faro e quella spiaggia fin troppo amati.
Di chi sia quella piccola statua in attesa sul suo piedistallo rutilante, un tempo, di pietre colorate, mosaico un po’ rozzo impastato d’erba e di mare, pochi Viareggini lo sanno, come pochi sanno che quel monumento così nascosto e trascurato, quasi vergognoso dell’ingiusto degrado, sorge a memoria di un atto d’amore, perché proprio lì, non importa quando, il mare abbandonò il corpo ormai senza vita di una sirenetta innamorata del lido e lì un pescatore, rapito dalla sua grazia, volle costruire per lei una bara di cristallo, perché tutti potessero ammirarla.
Fuori del tempo
Nei suoi giorni felici, al riparo dal tempo, racconta la leggenda1 che una sirenetta si divertiva a intrecciare canti e giochi spensierati con le compagne, specchiandosi nell’acqua e abbandonando spesso il corpo sinuoso all’abbraccio delle onde per sostare poi, ritemprata, su un isolotto un po’ al largo della costa a guardare gli sbuffi salmastri seguendo il flusso della marea sui morbidi fondali renosi.
Le piaceva soprattutto osservare non vista il brulichio laborioso nel porticciolo da dove, verso sera, prendevano il mare umili barche cariche di reti, scongiuri, speranze…
Vedeva di tanto in tanto, puntolini neri sempre più piccoli sulla riva, le donne raccolte in muta preghiera, gli occhi fissi a una barca più grande e più solenne mentre, mollati gli ormeggi, affidava fiduciosa al mare il proprio destino; e i pescatori, facce brune di sole scolpite dal salmastro, braccia muscolose e forti mani strette imperiosamente attorno alle cime per domare la forza del vento e distendere le vele all’abbraccio dell’aria odorosa di alghe, di sabbia, di chiassosi, prepotenti gabbiani.
Quando poi, nelle prime ore del mattino, i pescherecci rientravano lenti, la sirena si avvicinava curiosa per ascoltare divertita le raccomandazioni di qualche vecchio lupo di mare a un giovane mozzo inesperto:
Bada, ragazzo, bisogna guardarsi dalle sirene! Te lo dio io che l’ho viste có’ mi’ occhi! Una volta ero a largo con la mi’ barca, quando ho sentito una musica lontana. Guarda che ti riguarda… ’un vedevo propio nimmo. Poi dall’acqua sono escite du’ donne con la coda di pesce. Indovina un po’? Erino loro che cantavino e sonavino uno strumento che ’un ti so dì’…; mi chiamavino, ma io ’un l’ho ascoltate e sono scappato in un amme. ’Un sono mia bischero come Tonio!
Ma chi era questo Tonio?
A volte, mentre i pescatori stendevano al sole le reti per riammagliarle oppure tiravano a riva i tramagli, liberando dalla trappola mortale il malcapitato bottino, c’era chi, afferrato un pesce più grosso, esclamava ridendo:
Vésto dev’èsse’ vél bìschero di Tonio, che s’è fatto incantà’ da una sirena ed è ito come un grullo in fondo al mare!
Chi non conosceva la storia di Tonio? I vecchi amavano ripeterla la sera all’osteria, tra un boccale di vino e l’altro, per dimostrare che delle donne non c’è mai da fidarsi, quelle giovani e belle poi...!
Era dunque Tonio - o forse non si chiamava così, ma poco importa - un giovane pescatore di Viareggio. Come tanti altri, in quel tempo lontano, abitava in una povera capanna e una notte, mentre dormiva accanto alla moglie, qualcosa di molto speciale interruppe il suo sonno: una splendida fanciulla dagli occhi maliardi, una sirena appunto, che lo incantò con la sua bellezza misteriosa, poi sparì, silenziosa com’era venuta.
Tonio non raccontò niente a nessuno, ma quella visione continuò a tormentarlo; la notte seguente riapparve, rapì l’uomo col suo sguardo incantatore e se lo trascinò via, prigioniero, negli abissi del mare.
Passarono gli anni. Il pescatore, vinto dalla nostalgia, pregava spesso la sirena di farlo tornare lassù, fra la sua gente, ma invano. Finalmente, mossa a compassione, ella lo autorizzò a risalire per qualche ora sulla terraferma, ma ad una condizione: non doveva assolutamente mettere piede nella sua antica capanna.
Riemerso dalle acque che lo avevano imprigionato per tanto tempo, Tonio si precipitò nel piccolo borgo cercando qualche amico, qualche viso familiare, ma nessuno si avvicinava né osava rispondere al saluto: troppo strano il suo aspetto, troppo pungente l’odore della sua pelle, perché si potesse ravvisare in lui l’amico di un tempo!
Continuò dunque a girovagare, sperando forse di incontrare la moglie, che nel frattempo si era risposata. Arrivato, infine, davanti alla sua capanna, la trovò silenziosa e deserta. D’impulso, dimenticati gli avvertimenti della sirena, entrò: subito il pavimento di terra battuta gli sprofondò sotto i piedi, mentre l’acqua saliva fino a sommergerlo.
Finì così l’incauto pescatore, di nuovo prigioniero del mare, sotto le sembianze di un grosso pesce che nessuno, a Viareggio, aveva mai visto.
Queste e altre storie sentiva raccontare la sirenetta,² ma solo pochi, pensava, sembravano ricordarsi delle tante occasioni in cui una di loro aveva aiutato dei marinai in pericolo, caduti in mare durante una tempesta o in procinto di finire con le loro imbarcazioni su banchi sabbiosi o addirittura contro una scogliera. Ma tant’è: solo gli sciocchi si aspettano la gratitudine altrui!
Del resto, c’era anche qualche presuntuoso convinto che le sirene non esistessero per niente. Chissà che faccia avrebbero fatto, se fosse apparsa davanti a loro all’improvviso!
Si attardava, la sirenetta, sorda ai richiami impazienti delle compagne, presa com’era da una voglia proibita - e perciò stesso più forte - di mescolarsi a quella gente che vedeva semplice e laboriosa, calcando la riva conosciuta ormai sasso per sasso, e duna, e anfratto, impregnata dal chiarore gentile della luna nelle notti serene, o battuta dal libeccio quando questo, cavalcando le onde impazzite, si rovesciava rabbioso, facendo gemere di paura i pini e i tetti, precario rifugio nelle notti di burrasca.
Giorno dopo giorno, prese l’abitudine di trascorrere gran parte del suo tempo ad osservare la vita del piccolo borgo, creando con l’immaginazione spazi, persone, fatti negati al suo sguardo curioso, e solo quando le ombre della sera, oscurate le Apuane, si allungavano pigre giù nella piana per distendersi poi sulla lunga striscia di sabbia a scacciare i gabbiani, incuneandosi leggere tra le dune fitte di salicornie e camucioli odorosi, soltanto allora tornava a rifugiarsi negli abissi, rinunciando finalmente a quel vagabondare di pensieri straniti e senza voce.
E semplice e dura era davvero la vita dei pescatori e calafati, ancora protagonisti quasi incontrastati di quel lenzuolo di terra stretto tra le montagne, la pineta e il mare; gente rustica, che solo allora andava conquistando un po’ di terra buona da coltivare, finalmente strappata alla minaccia secolare della malaria.
Gente animata anche da un profondo spirito religioso, ma fede e superstizione, com’è logico, andavano a braccetto, senza che loro, gli abitanti di quel paese che avrebbe conquistato più tardi il diritto di chiamarsi città, sapessero o volessero scindere le due cose.
Così le lunghe veglie d’inverno intorno al focolare si popolavano di folletti e fantasmi, storie qualche volta divertenti o a lieto fine, ma più spesso paurose, che i bambini imparavano dai grandi, ascoltando con gli occhioni sgranati finché il sonno faceva dondolare la testolina e i pensieri si confondevano, scivolando inavvertiti nel sogno.
Incredibilmente, qualcuna di quelle leggende sopravvive ancora e insieme alla sirenetta torna a far parlare di sé quel burlone di Giosalpino, il folletto che faceva ammattire i pescatori sciogliendo dagli ormeggi le barchette, che se ne andavano felici per mare sotto gli occhi esterrefatti dei padroni.
Giosalpino, forse la versione locale del più conosciuto Linchetto, era un abile trasformista e si racconta di un cacciatore che, preso con sé il fucile, camminò a lungo finché, imbracciata l’arma per sparare, ebbe la brutta sorpresa di scoprire che invece del fucile aveva portato a spasso (a giro, come si dice da queste parti) il folletto mattacchione.
Un’altra volta, trasformatosi in un pezzo di carta che giaceva a terra nella stradina sterrata lungo il fosso della Burlamacca, punì un passante, certo Rinaldo, che l’aveva fatto volare con un calcio: per dispetto scaraventò il malcapitato al di là del fosso lasciandolo poi, non contento dello spavento, senza neanche un capello in testa.
Altre leggende sono fiorite intorno al fosso della Burlamacca, tutte un po’ tetre perché popolate di morti affogati; probabilmente di notte le acque nere e profonde del canale facevano paura!
Anche la massa scura della pineta, in passato molto più estesa e fitta di oggi, non poteva che stuzzicare la fantasia di gente tanto semplice e ingenua, poveri cristi costretti a trascinare la vita coi denti sognando magari di trovare un tesoro.
È quanto, dicono, toccò a un calafato di nome Sandorino, che abitava in una modesta casupola sulla spiaggia di Viareggio.
Era novembre e l’aria frizzantina della sera invogliava ad accendere un bel fuoco nel caminetto. Andò dunque Sandorino a raccogliere legna in pineta. Si arrampicò su un alto pino per tagliare dei rami, ma gli scivolò di tasca il rosario. Quale fu la sua sorpresa quando, sceso dall’albero, trovò ad aspettarlo uno sconosciuto: lacero e smunto, indossava abiti fuori moda e parve stranamente felice d’incontrare il povero e meravigliatissimo calafato.
Chi sei?
Non temere, Sandorino! Sono un’anima del Purgatorio e voglio farti un regalo. Vedi, qui sotto il pino c’è sepolto il mio corpo... proprio dove t’è caduto il rosario. Mi hai liberato da una maledizione e finalmente, grazie a te, posso andare in Paradiso.
Il padre, severo e avaro, prima di morire aveva nascosto una pentola piena di monete d’oro giusto lì, alla base del pino su cui era salito Sandorino. Pentito poi della propria cattiveria, era apparso in sogno al figlio per svelargli il segreto, ma questi non gli aveva creduto. Morto in un naufragio, lui, il figlio scettico, era stato condannato per punizione a fare eternamente la guardia alla famosa pentola.
Eccola qui, guarda!
Agli occhi increduli di Sandorino apparve una grossa pentola di coccio bruciacchiata, piena di monete d’oro e d’argento scintillanti.
È tua, ma ad una condizione: dovrai usare una parte di questo denaro per aiutare chi è più povero e bisognoso di te. Se non lo farai, il Diavolo in persona si prenderà tutto!
A questo punto il fantasma scomparve, lasciando il povero marinaio ricco e felice.
Forse la sirenetta, conosciute alcune di queste storie, amava ripeterle alle compagne, intenerite anch’esse dall’anima semplice di quella gente, e forse un brutto giorno…
Ecco: la riva, solitamente di notte silenziosa e deserta, si accende di fuochi sinistri, l’annuncio del pericolo. Impazza il libeccio e una piccola barca sbattuta dal vento lotta affannosa per rientrare: sussulta, s’inclina, appare e scompare, sommersa dal nero ribollire delle onde... poi più nulla.
La sirenetta, col cuore in gola, rimane a guardare, un punto di silenzio assorto nell’universo, quindi d’impulso, messa da parte ogni precauzione, si tuffa. Nuota ondeggiando sinuosa, i lunghi capelli attorcigliati di schiuma, verso quel nulla, aguzzando la vista per cogliere un segnale... niente! Sta quasi per rinunciare quando crede di udire un richiamo soffocato, forse un lamento. Cerca ancora, tesa ormai fino allo spasimo contro la corrente rabbiosa, finché il richiamo, debole ma distinto, riesce di nuovo a perforare l’immenso boato: qualcuno chiede aiuto!
Cosa successe poi? Chiese forse troppo alle sue forze per aiutare quell’infelice naufrago?
La mattina dopo, calmata la burrasca, quando la spiaggia tornò a popolarsi di gente, un pescatore la trovò lì, stesa sulla riva del mare, che accarezzava ormai placato il suo bel corpo col dolce andirivieni della risacca, piano piano per non svegliarla.
[1] La leggenda qui narrata, come le altre che seguiranno, è una libera rielaborazione da Paolo Fantozzi, Paure e spaure, Mauro Baroni editore & C.S.A.S. Viareggio 1994.
[2] Per le sirene V. Tocci, Dizionario di mitologia, ELI, Milano 1954, pag. 456, scrive: Supposte figlie del dio fluviale Acheloo e della musa Calliope o, secondo altri mitografi, di Forchi e di Cheto. Adescavano col loro dolcissimo canto i naviganti per farli poi naufragare[…] La leggenda le diceva bellissime e maestre nel suono del liuto[…], ma quando esse tentarono di sedurre gli Argonauti, Orfeo sarebbe entrato in gara con loro e le avrebbe fatte ammutolire.
Omero racconta che, quando Ulisse con i suoi compagni s’imbatté nelle Sirene, seguendo il consiglio datogli da Circe, otturò con la cera le loro orecchie e si fece legare solidamente all’albero della nave (egli in effetti, curioso com’era, desiderava ascoltarle!). Così le Sirene, visto che le loro lusinghe non avevano sortito l’effetto desiderato, scomparvero deluse sotto le onde.
Anche Dante ne parla nel XIX canto del Purgatorio:
…Io son dolce sirena
che i marinari in mezzo al mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena. […]
La Versilia si stende oggi urbanizzata oramai, ma tra un edificio e l’altro è ancora possibile intravedere i resti di un mondo lontano.
A chi non ha avuto finora la possibilità di visitare ad esempio Massaciuccoli, un piccolo paese sulle rive del lago omonimo, raccomandiamo di programmare al più presto un’escursione.
Basta percorrere la Sarzanese e, dopo aver superato Massarosa e Bozzano, svoltare a destra prima della salita del Quiesa; seguire la strada che serpeggia costeggiando a tratti il lago, allontanandosi altre volte fino al paese per arrivare, tra secolari olivi, ai resti di antichi muri in splendida posizione panoramica. Sono le famose terme romane, un tempo chiamate bagno di Nerone
, su cui gli archeologi hanno tanto discusso per stabilirne la vera destinazione.
Per alcuni infatti si trattava di edifici pubblici, per altri invece di locali privati. Oggi si è arrivati alla conclusione che siamo alla presenza di terme inserite nella vasta villa rustica dei Venulei, famiglia pisana distintasi soprattutto tra il I e il II sec. d.C..
Più in basso una serie di ambienti sorti lungo la viabilità Aurelia\Emilia fanno pensare alla località Fossae Papirianae, riportata nella Tavola Peutingeriana.3
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