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Il finocchio selvatico sa d'anice
Il finocchio selvatico sa d'anice
Il finocchio selvatico sa d'anice
E-book206 pagine2 ore

Il finocchio selvatico sa d'anice

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Info su questo ebook

Questa è la storia di un viaggio.

È il viaggio di una famiglia livornese che, dopo aver perso casa e lavoro durante un bombardamento, attraversa un’Italia distrutta dalla guerra, per raggiungere un posto sicuro dove ricostruire la propria esistenza. Ma è anche la storia del difficile viaggio che la protagonista, Eugenia, deve compiere per risollevarsi da un’insidiosa depressione, legata soprattutto all’incapacità di comprendere e accettare i problemi del figlio autistico. Un’altra donna accompagna Eugenia nei suoi difficili viaggi: è Augusta, la suocera, dalla personalità fortissima, burbera ma capace di gesti teneri. I due uomini della famiglia, il marito Rodolfo e il suocero Amilcare, apparentemente dominanti, sono in realtà fortemente dipendenti dalle due donne.

L’ideatore del viaggio è proprio Amilcare, conte decaduto e abile fabbricante di scarpe di lusso, che accetta l’offerta di un posto di lavoro e di un alloggio da parte del cugino del nord, Aimone.

Gli sfollati credono di concludere il loro viaggio in una elegante cittadina sul lago di Como, ma si ritrovano in un paesino sul lago di Pusiano, dove la gente è troppo povera per permettersi scarpe di lusso. La diffidenza degli abitanti del luogo verso i forestieri e le incomprensioni legate al dialetto sembrano all’inizio ostacoli insormontabili. Ma gli sfollati affrontano le prove più difficili senza darsi per vinti, osservando la nuova realtà con uno sguardo disincantato e pronto a cogliere, anche nelle situazioni più tragiche, il lato positivo e, a volte, comico.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2015
ISBN9788863966947
Il finocchio selvatico sa d'anice

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    Anteprima del libro

    Il finocchio selvatico sa d'anice - Annalinda Buffetti

    presente.

    I

    Aprile 1944

    Eugenia stava sognando.

    Piedi infantili calpestavano la sabbia. Odore di salsedine, rumore di onde.

    Tra le erbe rade, spiccavano le piante esili del finocchio selvatico. Eugenia ne masticò uno stelo, pregustando il sapore intenso che si sarebbe sprigionato al contatto con l’acqua.

    Andiamo alla fonte! Alla fonte a bere! Gli amici cominciarono a correre e si allontanarono.

    Eugenia doveva fare presto, doveva arrivare alla fonte prima che il sogno svanisse. Ma la scena sbiadiva a poco a poco e le immagini si sfilacciavano, mostrando la loro natura onirica.

    Eugenia percepì accanto a sé il respiro dei bambini e il mormorio di voci conosciute. Un sussulto violento e improvviso del camion la risvegliò bruscamente. Le ci volle un momento prima di mettere a fuoco la scena, nella penombra del cassone del camion.

    Il lembo posteriore del telone era sceso quasi completamente e ora ondeggiava e sbatteva, facendo entrare a intermittenza lampi di sole.

    La voce di Augusta emerse dalla penombra: Accidempoli! Che po’ po’ di botta! Si dev’esse’ rotto qualcosa! Questa strada è tutta poggi e bue!

    Rodolfo si alzò a fatica dal sacco che aveva usato come sedile e si aggrappò per non perdere l’equilibrio.

    Scostò il telone e guardò fuori: l’ultimo tratto della strada polverosa gli apparve come una scena dei bombardamenti a cui stava cercando di sfuggire. Chiuse gli occhi per scacciare l’immagine. Quando li riaprì vide solo un tratto di campagna disabitata.

    Intanto il camion, sussultando in modo preoccupante, si avvicinava al ciglio dello stradone.

    O cos’è successo? chiese Augusta.

    ’Un lo so, mamma. Appena si ferma vo a vede’.

    Ci mancava anche questa… Maledetto questo viaggio… e maledetta la guerra che m’ha costretto a farlo! S’è in viaggio da du’ giorni e si deve solo anda’ in Lombardia, mia a Norimberga… Questo qui ha già fatto mille deviazioni! E vai là… e torna indietro…

    O Augusta, è un corriere, intervenne Amilcare, conciliante. Deve fa’ le su’ consegne in tanti posti. Siamo già stati fortunati che ci abbia dato un passaggio.

    Chiamalo passaggio! Siamo messi uno sull’altro, peggio delle bestie… Era meglio se s’aspettava che guarisse il Lucioli, prima di parti’! Sei sicuro, poi, che Aimone sappia che arriviamo? L’avranno avvisato?

    Ma sì, mamma, ’un ti preoccupare.

    Il camion si fermò definitivamente, con uno scossone e cigolii sinistri.

    Scendo a vede’, disse Rodolfo e passando accanto a Eugenia le strinse un braccio per rincuorarla. Lei si guardò intorno: i bambini dormivano ancora, su un materasso di vestiti accatastati, con una coperta di giacche pesanti.

    Troppo caldo, pensò, togliendo le giacche e appoggiandole su una scatola di cartone rosa tutto macchiato, legata da nastri che un tempo erano stati bianchi.

    Sceso dal camion, Rodolfo si stirò, massaggiò la schiena indolenzita e poi raggiunse l’autista che stava trafficando con il motore.

    L’uomo gli diede un’occhiata. Si intende di motori, lei? gli chiese brusco.

    Rodolfo si strinse nelle spalle. Io? No… guardavo e basta.

    Allora si sposti… che mi leva la luce!

    Dopo un po’, bestemmiando, l’autista chiuse il cofano con violenza e risalì al posto di guida.

    Il motore gracchiò come se avesse bisogno di schiarirsi la gola, diede qualche colpo di tosse metallica e poi fece uno schiocco che pareva uno starnuto.

    Mentre l’autista, imprecando, scendeva dal camion e cominciava a dare calci alle gomme, Rodolfo ritornò sui suoi passi.

    Augusta scostò un lembo del telone. Rodolfo, o cosa succede? Cosa sta facendo quell’omo?

    Prende le ròte a pedate, mamma. Io mi sono levato di torno, prima che se la prendesse anche con me.

    Aspettarono preoccupati, poi sentirono dei passi che si avvicinavano.

    È meglio se scendete anche voi, disse brusco l’autista.

    Rodolfo diede una mano ad Amilcare. Babbo, scendi piano… pensa al tu’ ginocchio!

    Federica e Augustino non si erano svegliati.

    Prendi il bimbo in collo, Eugenia, io prendo la bimba.

    Augusta sollevò delicatamente Federica che aprì gli occhi per un momento e poi si abbandonò, con la testa appoggiata alla larga spalla della nonna.

    Il camion si era fermato all’imbocco di una carrareccia che si addentrava nei campi.

    Eugenia si guardò intorno. Vicino alla strada la campagna era incolta, ridotta a sterpaglia, ma verso l’orizzonte si distinguevano distese di grano ancora verde e sfumature dorate. C’era un profumo gradevole di erba e quell’odore particolare che prende la terra quando è scaldata dal sole.

    Odore di sole. Si insinuava nella mente e risvegliava ricordi sopiti, immagini di campi e spianate erbose. Una passeggiata sulle colline senesi. Sdraiata sull’erba, Eugenia era rimasta incantata a guardare un cielo così azzurro che pareva finto. Intorno a lei c’era lo stesso profumo.

    Oggi, però, il cielo era velato e nuvole grigie si stavano addensando all’orizzonte.

    Augusta le passò accanto, diretta verso un muretto di pietre a secco che delimitava un campo.

    Ci si siede lì? I bimbi pesano. Guardarono per bene il muretto, controllando che non ci fossero serpi e altre bestiacce, poi si accomodarono sulle pietre più larghe e lisce.

    Eugenia sentì riaffiorare la preoccupazione che aveva provato quando Rodolfo le aveva parlato del viaggio.

    Al nord? gli aveva detto meravigliata. Non sapevo che il tu’ babbo avesse un cugino al nord. E che fabbrica ha?

    Ha una metallurgica.

    A quel punto lei era esplosa: Una metallurgica? Ma se ti sei licenziato perché non ce la facevi più a lavorare alla metallurgica di Livorno! E ora vuoi andare in capo al mondo… per lavorare in una… metallurgica! Allora era meglio se s’andava a stare a Barga, dove si conosce tanta gente!

    Rodolfo era uscito sbattendo la porta. Lei era sicura che avesse reagito così perché non sapeva che cosa risponderle.

    Augusta tolse dalla sporta una specie di ventaglio sbrindellato e cominciò a farsi vento. A un tratto sbottò: O perché siamo scesi dal camion? I bimbi potevano rimanere su a dormire, no?

    L’autista la guardò. Meglio essere giù, disse laconico, poi si sedette con la schiena appoggiata a un albero e calò il cappello sugli occhi, chiudendo il discorso.

    Augusta continuò a brontolare per un po’. Non lo voleva ammettere, ma era preoccupata: non era mai uscita da Livorno e le era sembrata un’impresa andare a Nugola e poi a Castelfranco. Ora si trovava coinvolta in un viaggio che pareva senza fine e le dava fastidio non essere stata consultata al momento della decisione di partire.

    Avevano fatto tutto Amilcare e Rodolfo.

    Si parte la settimana prossima. Si va a lavorare con Aimone, le aveva detto Rodolfo.

    E chi lo dice? era insorta lei, minacciosa, con le mani sui fianchi.

    Si dice noi! Io e babbo si dice! Almeno si mangerà…

    Amilcare era rimasto un passo indietro, silenzioso, come se la cosa non lo riguardasse, ma Augusta aveva capito subito che era stato lui a decidere.

    Si era messa a preparare le poche cose da portare via e le altre donne sfollate l’avevano raggiunta.

    Al nord mangiano solo polenta, le aveva detto Albina, che aveva dei parenti vicino a Bergamo.

    ’Un mi piace la polenta!

    La mangerai… vedrai… se ’un c’è altro. E poi… ’un parlano come noi.

    Dè… se siamo in Italia parleranno italiano, no?

    Ora si trovavano sperduti in mezzo alla campagna e il camion si era guastato. Augusta sentì la preoccupazione che le stringeva lo stomaco e guardò Federica: dormiva, inconsapevole di tutto, con la bocca socchiusa.

    Passò del tempo. Intorno non c’era anima viva.

    Dopo un po’, si sentì un rumore di ruote sui sassi, al di là della siepe che ostacolava la visuale. Gli sfollati si alzarono in piedi.

    Finalmente! Arriva qualcuno!

    È un barroccio!

    Il conducente arrivò vicino al gruppo e tirò le redini.

    Serve qualcosa? chiese, guardando quel campionario di varia umanità che faceva un effetto strano, accampato tra la provinciale e lo sterrato. Augustino aveva cominciato a frignare.

    S’è guastato il camion, spiegò il camionista, spolverandosi i pantaloni. C’è un’officina vicina?

    Sì, al paese c’è quella del Marèl. Non è lontana. Se volete, vado a prendere il trattore e trainiamo il camion fino là.

    Il carrettiere diede un’occhiata ai bambini, poi aggiunse: Però, di sicuro, non riuscirete a rimettervi in viaggio stasera.

    Rodolfo si avvicinò preoccupato. C’è la possibilità di un alloggio, in zona? Insomma, le donne e i bambini hanno bisogno di fermarsi da qualche parte, sotto un tetto!

    E anche noi, aggiunse Amilcare.

    L’uomo si grattò la testa. Ci sarebbe casa mia… Mia madre ha già provato a far da mangiare… come trattoria, intendo. E in casa c’è posto per tutti. Salite sul biroccio, che vi porto là. Tanto, devo andarci lo stesso a prendere il trattore…

    Fece fare manovra al cavallo e al carro sulla provinciale deserta.

    Augusta era indecisa: Che si fa? ’Un possiamo mia scaricare tutto, metterlo sul barroccio… tirare giù tutto a casa di quell’omo e poi ricaricare domani!

    Mamma, ’un vorrai lasciare tutta la roba sul camion, spero! ’Un ritroveremo più nulla!

    Rodolfo si rivolse al camionista: Scusi, se si lascia qualcosa sul camion… c’è qualcuno che controlla?

    Ci sono io! Sul camion c’è tutta la roba che devo consegnare qui in Emilia e il materiale per la fabbrica di vostro cugino e per la vetreria, su in Lombardia!

    Allora… possiamo scaricare solo quello che ci serve e lasciare sul camion il resto.

    Sì, tanto io dormo in officina! Non mi va di lasciare incustodita tutta la roba da consegnare.

    Rodolfo tornò al camion, risalì sul cassone e radunò qualche fagotto. Voltandosi per scendere, vide Eugenia che controllava le cose ammucchiate. Senza una parola, andò sul fondo del camion, prese la scatola rosa e gliela portò.

    Amilcare si avvicinò al camionista che aspettava impaziente.

    Senta un po’, buon uomo…

    Lui lo squadrò, rilevando con un’occhiata il contrasto ridicolo tra l’aria pomposa da gran signore e i vestiti logori e dimessi. Amilcare si sentì a disagio sotto quello sguardo, consapevole del proprio aspetto disordinato.

    Sul camion ci sono due cose molto importanti, disse. Le potrei definire… il nostro tesoro. Una grossa cassa di legno e un rotolo lungo, avvolto in un telo scuro. Per noi sono molto preziosi. Siamo certi che saranno al sicuro?

    L’autista lo guardò a lungo.

    Certo! Al cento per cento!

    Il carro scomparve col suo carico dietro un gruppo di alberi.

    Roba da non credere! Quello è proprio un bischero!

    Il camionista si mise ad armeggiare con la serratura della cassa di legno. Aveva aiutato Amilcare e Rodolfo a caricarla sul camion, perciò sapeva che era pesantissima, forse piena di cose preziose salvate dai bombardamenti.

    Vediamo se fra l’oro e l’argenteria c’è qualcosa di interessante.

    La serratura non si voleva aprire. Non devono accorgersi di niente. Magari qualcosa di piccolo…

    La serratura cedette con uno scatto. Vediamo!

    Dopo un po’, l’uomo guardava deluso il tesoro dei livornesi. Forme di legno per le scarpe, mascherine per le tomaie, martelli, tenaglie, attrezzi strani, stringhe, barattoli, rocchetti di filo e altre cose misteriose riempivano la cassa all’inverosimile. Sul fondo c’era anche un album pieno di fotografie e disegni di scarpe.

    Accidenti! Roba da calzolai! Qui non c’è niente di niente… Ma che razza di tesoro è?

    Dopo aver rimesso a posto tutto, l’uomo rivolse la sua attenzione al lungo rotolo avvolto nel telo scuro. Forse tappeti preziosi. Difficile farli sparire.

    I nodi che chiudevano le corde usate per legare il rotolo erano stranissimi, forse era meglio non disfarli. Faticosamente, l’uomo sfilò i legacci senza scioglierli.

    Appena liberato, il rotolo si aprì spontaneamente.

    Pelli conciate. Roba per scarpe, per borse… Pelli morbide, blu scuro, marroni, nere. Sopra a tutte, stridenti e fuori luogo come un abito da carnevale alla messa, due pelli di uno squillante color turchese, una opaca e una lucida.

    Imprecando, il camionista tolse una pelle scura dal mucchio, poi riavvolse il tutto e rimise a posto i legacci. Al mercato nero, qualcosa ne avrebbe ricavato.

    II

    La signora Gina era bassa e grassottella, con un viso aperto e cordiale e due occhi azzurri come un pezzetto di cielo. Non c’era voluto molto per mettersi d’accordo.

    Ma sì, per una notte… Si poteva fare. C’era posto in abbondanza, da quando i due figli minori…

    Qui, la signora Gina si era interrotta, aveva scambiato uno sguardo con il figlio Giovanni che aveva accompagnato gli sfollati, poi aveva continuato: Da quando i miei due gemelli sono partiti per la guerra.

    La casa era solida, squadrata, senza pretese architettoniche. Giovanni non aveva voglia di andare via e con gesti larghi indicava le costruzioni che confinavano con l’abitazione.

    Dietro al rustico ci sono le case dei lavoranti, i fienili, le stalle con le vacche, i porcili e là in fondo si vedono i campi.

    La tenuta era enorme: quasi seicento biolche di terra, tutte coltivate, più di duecento bestie e tante persone che ci vivevano e lavoravano. In quel momento, però, si vedeva poca gente in giro.

    Prima della guerra, qui c’era più gente a lavorare, disse la signora Gina. Ora però i giovani sono a combattere.

    Giovanni si decise a ripartire col trattore dopo aver invitato i due uomini ad andare in giro liberamente a visitare la tenuta. Se vi chiedono qualcosa, aveva detto, dite che siete miei ospiti per qualche giorno.

    Quant’è una biolca? chiese Amilcare a

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