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Il centurione - Il gladiatore - La legione
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Il centurione - Il gladiatore - La legione
E-book1.549 pagine14 ore

Il centurione - Il gladiatore - La legione

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Info su questo ebook

Il Centurione
Il Gladiatore
La Legione

Un autore da 5 milioni di copie

Per rivivere il fascino dell’antica Roma invicibile basta lasciarsi catturare dalla scrittura epica di Simon Scarrow, l’autore di romanzi storici più venduto al mondo.
Dopo secoli di vittorie e di dominio incontrastato, una minaccia incombe sul potere di Roma. I Parti, acerrimi nemici, vogliono conquistare le province orientali del grande impero. Il prefetto Macrone e l’eroico centurione Catone, coscienti del pericolo incombente, organizzano la resistenza e si preparano a respingere i cospiratori. 
Durante il viaggio di ritorno a Roma dopo l’ennesima, sanguinosa campagna militare, la nave su cui viaggiano i centurioni Macrone e Catone viene quasi affondata da un’onda anomala. I due riescono ad approdare a Creta, dove trovano la città di Matala completamente distrutta e semideserta. Che cosa è accaduto?
Spinto dall’odio per Roma, il gladiatore Aiace percorre l’impero seminando morte e distruzione, massacrando civili inermi al pari dei soldati. Ancora una volta, Macrone e Catone sono incaricati di un compito ai limiti dell’impossibile: fermare le sue gesta, catturarlo o ucciderlo prima che la rivolta si estenda a tutto il Medio Oriente.

La grande saga che ha appassionato migliaia di lettori 
Un successo in tutto il mondo

«L’invenzione e la storia si accostano e confluiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli.»
Corriere della Sera

«Simon Scarrow è riuscito a costruirsi una discreta fama. Merito del modo in cui costruisce i suoi personaggi, ma anche del fatto che ha saputo cogliere e raccontare il fascino di certi momenti storici. Quelli in cui il corso degli eventi determina per sempre il futuro.»
Il Giornale

«Simon Scarrow spopola.»
Il Venerdì di Repubblica

Simon Scarrow
è nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore delle serie Le aquile dell'impero (Il centurione, Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, La spada di Roma, Roma alla conquista del mondo, Roma o morte, Il pretoriano, La legione, L'aquila dell'impero, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, Sotto un unico impero, Per la gloria dell'impero, L'armata invincibile, La spada dell'impero), Roma arena saga (La conquista, La sfida, La spada del gladiatore, La rivincita, Il campione), I conquistatori (La battaglia della morte, Il sangue del nemico, Il richiamo della spada, L'erede al trono, Muori per Roma) e Revolution saga (La battaglia dei due regni, Il generale, A ferro e fuoco, L'ultimo campo di battaglia). Ha firmato anche i romanzi I conquistatori (con T.J. Andrews), L'ultimo testimone (con Lee Francis) e Eroi in battaglia. Le sue opere hanno venduto oltre 5 milioni di copie nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2020
ISBN9788822744135
Il centurione - Il gladiatore - La legione
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Il centurione - Il gladiatore - La legione - Simon Scarrow

    2557

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Tutti i personaggi di questo romanzo, a parte quelli chiaramente storici, sono immaginari

    e qualunque somiglianza con persone reali, viventi o defunte, è puramente casuale.

    Titolo originale: Centurion

    Copyright © 2007 Simon Scarrow

    First published in English language in 2007

    by Headline Publishing Group

    Traduzione dall’inglese di Stefania Di Natale

    © 2009 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Titolo originale: The Gladiator

    Copyright © 2009 Simon Scarrow

    Traduzione dall’inglese di Roberto Lanzi (capp. 1-17),

    Lucia Mori (capp. 18-33)

    © 2010 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Titolo originale: The Legion

    Copyright © 2010 Simon Scarrow

    First published in 2010 by Headline Publishing Book

    Traduzione dall’inglese di Roberto Lanzi

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    The right of Simon Scarrow to be identified as the Author

    of the Work has been asserted by him in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act 1988

    Prima edizione ebook: marzo 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4413-5

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Simon Scarrow

    Il centurione

    Il gladiatore

    La Legione

    Newton Compton editori

    Indice

    Il centurione

    L’esercito romano. Breve nota sulle legioni e le coorti ausiliarie

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Nota dell’autore

    Il gladiatore

    Ringraziamenti

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Nota dell’autore

    La Legione

    Ringraziamenti

    L’organizzazione di una legione romana

    La Marina della Roma imperiale

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Epilogo

    Nota dell’autore

    IL CENTURIONE

    Dedico questo libro a tutti i miei ex alunni,

    cui ho avuto il privilegio d’insegnare.

    Grazie per tutto ciò che a mia volta ho appreso da voi!

    L’esercito romano

    Breve nota sulle legioni

    e le coorti ausiliarie

    I soldati dell’imperatore Claudio prestavano servizio in due diverse corporazioni belliche, le legioni e le unità ausiliarie, come la Decima Legione e la Seconda Coorte Illirica descritte in questo romanzo.

    Le legioni erano le unità elitarie dell’esercito romano. Composte da cittadini romani, erano pesantemente armate, ben equipaggiate e soggette a uno sfiancante regime d’addestramento. Oltre a costituire l’avanguardia della politica militare romana, le legioni svolgevano anche compiti di alta ingegneria, come la costruzione di strade e ponti. Ogni legione era nominalmente composta di cinquemila e cinquecento uomini, suddivisi in nove coorti da sei centurie, ognuna delle quali comprendeva ottanta uomini (e non cento, come si sarebbe indotti a pensare), più un’altra, la prima coorte, grande il doppio delle altre e incaricata di coprire il vulnerabile fianco destro della linea di battaglia.

    Al contrario delle legioni, le coorti ausiliarie reclutavano gli uomini dalle province, garantendo la cittadinanza romana a coloro che superavano i vent’anni di servizio prima di venir congedati. I Romani non disponevano di una cavalleria o di truppe da lancio efficaci, ma essendo un popolo dallo spirito pratico, demandavano molte di queste specializzazioni alle coorti ausiliarie, composte di stranieri.

    Queste truppe ausiliarie erano altrettanto professionali nel loro approccio all’addestramento, ma disponevano di un equipaggiamento più leggero (e anche di paghe più leggere!). In tempo di pace le loro competenze erano limitate alle operazioni di guarnigione e di polizia, mentre durante le campagne belliche agivano come truppe esplorative e di supporto, col compito principale di bloccare il nemico sul posto mentre le legioni stringevano l’assalto vero e proprio. Le coorti ausiliarie erano generalmente composte di sei centurie, anche se ve ne erano alcune più grandi, come la Seconda Illirica, dotata fra l’altro di una componente aggiuntiva di cavalleria. Durante il servizio attivo le coorti ausiliarie venivano generalmente costituite in brigata con le legioni.

    Per quanto riguarda i ranghi di potere, le centurie legionarie ed ausiliarie erano comandate da un centurione con un optio come comandante in seconda. Le coorti erano comandate da un centurione esperto di legioni e da un prefetto nella coorte ausiliaria; generalmente si trattava di un centurione di provata esperienza promosso dalle legioni. Le legioni erano comandate da un legato con una squadra di tribuni, giovani ufficiali dell’aristocrazia romana alla loro prima esperienza militare. Quando si riuniva un esercito, il comandante era generalmente un individuo di rinomata competenza militare, scelto dall’imperatore in persona. Tale individuo era spesso insignito di ulteriori cariche, come quella di governatore regionale, come nel caso di Cassio Longino, che appare in questo libro.

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    Capitolo uno

    Mentre il crepuscolo calava sul porto, il comandante della coorte s’affacciò dalla scogliera per scrutare il fiume. Una bruma leggera ricopriva l’Eufrate, espandendosi oltre le sue sponde e risalendo alta fin sopra le cime degli alberi che le costeggiavano: faceva pensare al ventre liscio di un serpente che striscia sinuoso attraverso il territorio. Quell’immagine fece rizzare i capelli sulla nuca del centurione Castore, che si strinse il manto intorno al corpo, strizzò leggermente le palpebre e fissò lo sguardo su quelle terre che si espandevano dall’altra parte dell’Eufrate: le terre dei Parti.

    Era ormai passato più di un secolo da quando Roma s’era scontrata per la prima volta con i Parti, e da quel momento in poi i due imperi avevano ingaggiato una battaglia letale per la conquista di Palmira e delle terre situate ad est della provincia romana della Siria. E adesso che Roma era intenta a negoziare un trattato più stretto con Palmira, la sua influenza s’era espansa fino alle rive dell’Eufrate, proprio ai confini con i territori del suo vecchio nemico. Non c’era più nessuno Stato cuscinetto fra Roma e la Partia ed erano in pochi a dubitare che quanto prima quella latente ostilità si sarebbe tramutata in un rinnovato conflitto. Le legioni di stanza in Siria si stavano già preparando a una campagna, quando il centurione e i suoi uomini avevano oltrepassato a passo di marcia le porte di Damasco.

    Quel pensiero indusse il centurione Castore a tornare a dolersi amaramente degli ordini ricevuti da Roma di condurre una coorte di ausiliari attraverso il deserto, oltre Palmira stessa, per erigere un avamposto fortificato qui sulle scogliere sopra l’Eufrate. Palmira era a otto giorni di marcia verso occidente e i soldati romani più prossimi erano quelli di stanza ad Emesa, a ulteriori sei giorni di distanza da Palmira. Castore non s’era mai sentito tanto isolato in vita sua. Lui e i suoi quattrocento uomini si trovavano ai margini estremi dell’impero, appostati su quella scogliera per captare ogni minimo segnale d’attacco proveniente dalla Partia, sulla sponda opposta dell’Eufrate.

    Dopo una marcia sfiancante attraverso il deserto arido e roccioso, s’erano accampati accanto alla parete di scogli, iniziando a costruire il forte dove sarebbero rimasti di guarnigione finché qualche ufficiale di Roma non avesse finalmente deciso di richiamarli. Durante quella marcia la coorte era stata costretta a cuocersi sotto il sole durante il giorno, mentre di notte, col crollo radicale della temperatura, gli uomini s’erano dovuti difendere dal freddo avvolgendosi strettamente nei loro mantelli. L’acqua era stata severamente razionata e quando avevano finalmente raggiunto il grande fiume, che attraversava il deserto fornendo acqua alla mezzaluna fertile che ne costeggiava le rive, prima ancora che i loro ufficiali potessero in qualche modo trattenerli, i suoi uomini s’erano precipitati a bagnarsi e a placare la sete, accostando avidamente le labbra screpolate alle mani tenute a coppa.

    Avendo prestato un servizio decennale nella guarnigione della Decima Legione a Cirro, con i suoi bei giardini ricchi d’acqua e tutti i generi di piaceri carnali che un uomo potesse desiderare, Castore considerava questo suo incarico temporaneo con crescente ansia. La coorte andava incontro alla prospettiva di passare dei mesi, forse degli anni, in quell’angolo abbandonato della Terra. Se non li avesse uccisi per prima la noia, lo avrebbero sicuramente fatto i Parti. Ecco perché il centurione aveva indotto i suoi uomini a costruire il forte non appena avessero trovato un punto, sulla scogliera, che permettesse loro di avere una buona panoramica sul guado sottostante e, al di là di esso, sulle colline della Partia. Castore sapeva che la notizia della presenza romana sarebbe quanto prima giunta alle orecchie del re dei Parti; era dunque davvero essenziale che la coorte sviluppasse robuste difese prima che il nemico decidesse di passare in azione contro di essa. Per diversi giorni gli ausiliari avevano spianato il terreno e preparato le fondamenta per le mura e le torri della nuova fortezza. Poi i muratori avevano rapidamente squadrato e rifinito le lastre di pietra, estratte dagli affioramenti geologici del circondario e poi trasportate in cantiere con i carri. Le mura di contenimento arrivavano già all’altezza della vita e le fessure fra le pietre erano state riempite di ghiaia e detriti; mentre osservava il sito nella luce morente del giorno, il centurione Castore annuì soddisfatto. Entro cinque giorni le mura difensive sarebbero giunte ad altezza sufficiente perché lui e i suoi uomini potessero trasferire l’accampamento all’interno della fortezza. Da allora in poi avrebbero avuto modo di sentirsi più al sicuro dai Parti. Ma fino a quel momento, gli uomini avrebbero dovuto sfruttare tutte le ore di luce a disposizione per proseguire i lavori.

    Il sole era ormai tramontato e all’orizzonte non rimaneva che una stretta striscia di luce rosseggiante. Castore si rivolse al suo secondo, il centurione Settimo. «È tempo di chiudere la giornata di lavoro».

    Settimo annuì, prese fiato e accostò la mano alla bocca per annunciare a gran voce la fine della giornata lavorativa a tutti gli uomini del cantiere.

    «Coorte! Deporre gli attrezzi e tornare al campo!».

    Attraverso il cantiere, Castore vide le sagome indistinte degli uomini che deponevano picconi, pale e ceste di vimini, prima di raccogliere i loro scudi e le lance e mettersi stancamente in riga all’esterno dell’apertura che presto avrebbe costituito l’entrata principale del forte. Mentre l’ultimo di loro si metteva in posizione iniziò ad alzarsi un forte vento dal deserto; scrutando verso ovest, Castore vide una massa compatta che rotolava decisa nella loro direzione.

    «Sta arrivando una tempesta di sabbia», borbottò, rivolto a Settimo. «Meglio raggiungere l’accampamento, prima che ci venga addosso».

    L’altro annuì. Per gran parte della sua carriera militare, Settimo aveva prestato servizio sulla frontiera orientale e sapeva fin troppo bene quanto fosse facile, per gli uomini, perdere il senso dell’orientamento, una volta invischiati nella sabbia soffocante e abrasiva sollevata dai venti che flagellavano quelle terre.

    «Quei fortunati bastardi giù all’accampamento se la scampano».

    Castore sorrise lievemente. Una mezza centuria di soldati era stata lasciata di guardia al campo, mentre i compagni erano impegnati a costruire il forte sulla scogliera. Già immaginava quei fortunati ritirarsi all’interno delle loro torrette di guardia, al riparo dal vento pungente di sabbia. «Forza, allora, muoviamoci».

    Diede l’ordine di avanzare e gli uomini si avviarono compatti giù per il tortuoso sentiero che conduceva all’accampamento, a poco più di un chilometro e mezzo dal cantiere della fortezza. Il vento aumentò d’intensità e l’oscurità s’impadronì gradualmente del paesaggio; le ampie mantelle sventolavano sbattendo sui corpi dei soldati impegnati nella discesa lungo il viottolo roccioso.

    «Non mi dispiacerà lasciare questo posto, signore», mormorò Settimo. «Avete idea di quando ci rimpiazzeranno? A Emesa c’è un bell’alloggio caldo che aspetta me e i ragazzi».

    Castore scosse la testa. «Non ne ho idea. Sono ansioso quanto te di venir via di qui. Tutto dipende dalla situazione a Palmira e da quel che i nostri amici Parti decidono di fare».

    «Maledetti Parti», sbottò Settimo. «Bastardi guerrafondai. C’erano loro, no, dietro quel pasticcio in Giudea dell’anno scorso?».

    Castore annuì ricordando la sommossa che aveva infiammato il lato orientale del Giordano. I Parti avevano rifornito i ribelli di armi e di una piccola armata di arcieri a cavallo. Era stato soltanto grazie ai valorosi sforzi della guarnigione del forte Bushir che ai ribelli e ai loro alleati parti era stato alfine impedito di trascinare l’intera Giudea in una rivolta contro Roma. Ora l’attenzione dei Parti era rivolta sull’oasi cittadina di Palmira: un punto nodale delle vie commerciali verso l’oriente e uno Stato cuscinetto fra l’Impero Romano e la Partia. Palmira godeva di considerevole indipendenza ed era da considerarsi più un protettorato che uno Stato suddito. Ma il re di Palmira stava invecchiando e i membri rivali della casa reale stavano sgomitando per accaparrarsi la successione al trono. Uno dei più potenti principi di Palmira non aveva tenuto nascosto il suo intento di allearsi con i Parti, se fosse diventato il nuovo sovrano.

    Castore si schiarì la gola. «Spetta al governatore della Siria convincere i Parti a tenere giù le mani da Palmira».

    Il centurione Settimo inarcò un sopracciglio. «Cassio Longino? Pensate che ne abbia intenzione?».

    Castore rimase un momento in silenzio, riflettendo su cosa rispondere. «Longino può farcela. Non è un lacchè dell’impero; ha ben guadagnato le sue promozioni. Se non riuscirà a vincere il confronto diplomatico, sono certo che li sbaraglierà in battaglia. Sempre che si arrivi a tanto».

    «Vorrei condividere la vostra fiducia, signore». Settimo scosse il capo. «Da quel che ho sentito, Longino se l’è data a gambe piuttosto in fretta, l’ultima volta che si è trovato nei guai».

    «Chi ti ha detto una cosa del genere?», lo riprese Castore.

    «Un ufficiale della guarnigione giù a Bushir, signore. Sembra che Longino fosse al forte quando c’è stata la rivolta. Il governatore è stato più rapido a montare in sella e a fuggire di lì di quanto non lo sia una meretrice di Subura a svuotarvi le tasche».

    Castore scrollò le spalle. «Sono certo che avrà avuto i suoi motivi».

    «Oh, certamente».

    Castore si voltò verso il suo subordinato con aria accigliata. «Le ragioni del comportamento del governatore non sono affari nostri, comunque. Specialmente quando siamo a portata d’orecchio dei nostri uomini. Quindi, tientelo per te, intesi?».

    Il centurione Settimo arricciò le labbra per un istante, poi annuì.

    «Come desiderate, signore».

    La colonna di soldati continuò la sua discesa e con l’alzarsi del vento il sentiero fu attraversato dalla prima raffica di sabbia. In pochi istanti non si vide più nulla e Castore rallentò il passo per assicurarsi di stare ancora conducendo i suoi uomini lungo il sentiero e verso l’accampamento. Avanzarono con le spalle incurvate, facendo del loro meglio per proteggersi dalla sabbia dietro i loro scudi. Finalmente il sentiero si fece di nuovo pianeggiante: avevano raggiunto la base del promontorio. Per quanto il forte distasse solo poche centinaia di metri, la sabbia e l’oscurità crescente lo nascondevano ormai completamente alla vista.

    «Ci siamo quasi», mormorò Castore.

    Settimo lo udì. «Bene. La prima cosa che farò quando avrò raggiunto la mia tenda sarà sciacquarmi la gola con un bel bicchiere di vino».

    «Ottima idea. Ti secca se ti faccio compagnia?».

    Settimo strinse i denti a quella richiesta inaspettata, rassegnandosi a dividere l’ultima fiasca di vino che aveva portato con sé attraverso il deserto di Palmira. Si schiarì la gola e annuì. «Sarà un vero piacere, signore ».

    Castore scoppiò a ridere e gli diede una forte pacca sulla spalla. «Bravo ragazzo! Quando torneremo a Palmira, il primo bicchiere di vino te lo offrirò io».

    «Sì, signore. Gra...». All’improvviso Settimo raddrizzò la schiena e scrutò lungo il sentiero davanti a loro. Poi sollevò la mano per segnalare alla colonna di fermarsi.

    «Che succede?», domandò Castore sottovoce, trovandosi a una sola spanna di distanza dal suo sottoposto. «Che c’è?».

    Settimo annuì in direzione del forte. «Ho visto qualcosa. Proprio davanti a noi. Un uomo a cavallo».

    Entrambi gli ufficiali fissarono lo sguardo nel turbine di sabbia, aguzzando la vista e l’udito, ma non videro anima viva, né a cavallo né a piedi.

    Solo le sagome di qualche cespuglio rachitico che cresceva lungo il sentiero. Castore deglutì, cercando di rilassare i muscoli tesi. «Cosa hai visto, esattamente?».

    Settimo gli lanciò un’occhiata rabbiosa, risentito dei dubbi che il suo superiore nutriva verso di lui. «Come ho detto, un uomo a cavallo. A circa cinquanta passi di distanza. La sabbia s’è diradata un attimo e l’ho visto, ma solo per un breve istante».

    Castore annuì. «Sicuro che non fosse un gioco di luci? Potrebbe anche essersi trattato di uno di quei cespugli agitati dal vento».

    «Vi sto dicendo che era un cavallo, signore. Ne sono sicuro. Lo giuro su tutti gli dèi. Lassù, davanti a noi».

    Castore stava per replicare, quando entrambi udirono un leggero tintinnio metallico al di sopra del muggito del vento. Era un suono inconfondibile per qualsiasi soldato: lo schianto di due spade incrociate. Un attimo dopo ci fu un grido soffocato, poi più nulla, a parte il rumore del vento. Castore sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene, mentre si voltava verso Settimo per parlargli in tono sommesso e controllato.

    «Passa parola agli altri ufficiali. Fai posizionare gli uomini attraverso il sentiero, a ranghi serrati. Cerca di non fare rumore».

    «Sì, signore». Il centurione Settimo salutò militarmente e indietreggiò per passare parola lungo la linea di soldati. Mentre gli uomini si aprivano a ventaglio sui lati del sentiero, Castore fece qualche altro passo in direzione dell’accampamento. Uno spostamento di corrente nel vento gli permise di scorgere vagamente l’ingresso del campo con la casupola di guardia e un corpo accasciato contro l’intelaiatura di legno, trafitto da diverse frecce. Poi un velo di sabbia tornò a nascondere l’accampamento. Castore tornò indietro, verso i suoi uomini. Gli ausiliari s’erano disposti in una fila che attraversava il sentiero, con gli scudi alzati e le lance inclinate in avanti, lo sguardo ansioso puntato sull’accampamento. Settimo stava aspettando il suo comandante a capo della centuria sul fianco destro. Accanto a questa, il promontorio risaliva in un groviglio di rocce e sterpaglia.

    «Avete individuato qualcosa, signore?».

    Castore annuì e attese di essere molto vicino all’altro ufficiale, prima di mormorare: «L’accampamento ha subito un attacco».

    «Un attacco?». Settimo sollevò le sopracciglia. «Chi è stato? I Parti?»

    «E chi altri?».

    Settimo annuì e la sua mano scese ad afferrare l’elsa della sua spada. «Quali sono i vostri ordini, signore?»

    «Sono ancora nelle vicinanze. In questa tempesta di sabbia potrebbero essere ovunque. Dobbiamo cercare di rientrare nell’accampamento, scacciarli di lì e chiudere il cancello. È la migliore possibilità che abbiamo ».

    Settimo sorrise cupamente. «La nostra unica possibilità, vorrà dire, signore».

    Castore non rispose, limitandosi a rovesciarsi all’indietro le falde della mantella e a sfoderare la spada. La sollevò alta sulla testa e scrutò la linea armata alle sue spalle per assicurarsi che gli altri ufficiali stessero seguendo il suo esempio per passare il segnale d’attacco anche agli altri. Castore non aveva idea di quanti nemici dovessero affrontare. Se erano stati abbastanza audaci da assaltare e occupare l’accampamento, allora dovevano essere in molti. La bruma sul fiume e la tempesta di sabbia ne avevano evidentemente coperto l’avanzata. Castore non trasse eccessivo conforto dall’idea che ora la stessa tempesta di sabbia avrebbe provveduto a nascondere l’arrivo del resto della coorte romana. Con un po’ di fortuna, gli ausiliari avrebbero persino potuto sorprendere a loro volta il nemico. Abbassò lentamente il braccio con la spada, puntando quest’ultima verso il forte. Il segnale fu ripetuto lungo tutta la linea, fino agli uomini alla sua sinistra, nascosti dall’oscurità e dalla sabbia.

    Castore ritirò la spada fino ad appoggiare il lato della lama sul bordo dello scudo, poi iniziò ad avanzare. La prima linea di ausiliari lo seguì alla spicciolata, trotterellando decisa sul sentiero sconnesso e verso l’accampamento. Gli ufficiali mantennero un passo più lento, che permetteva loro di mettere in riga le fila durante l’avanzamento. Sulla destra il pendio roccioso fu sostituito da uno spiazzo aperto, mentre la centuria di fiancheggiamento si allontanava dalla scogliera. Castore scrutò davanti a sé con gli occhi socchiusi, in cerca di un segno della presenza nemica o delle fortificazioni dell’accampamento. Poi la vide, la forma massiccia dell’entrata principale che emergeva dal mulinare di polvere e sabbia. La sagoma della palizzata eretta su entrambi i lati del cancello si fece sempre più nitida, man mano che gli ausiliari si avvicinavano al campo. A parte il cadavere accasciato contro la guardiola, non c’era un’anima, viva o morta che fosse.

    Il suono degli zoccoli gli arrivò scuotendo il terreno alla sua destra e Castore si voltò a guardare, proprio mentre uno dei suoi uomini, all’estremità della fila, mandava un grido afferrando l’impugnatura di una freccia conficcata nel torace. Forme confuse affiorarono attraverso la cortina della tempesta di sabbia mentre un gruppo di arcieri a cavallo parti si dirigeva al galoppo verso gli ausiliari scoccando frecce mirate al fianco scoperto, quello destro, della compagine romana. Altri quattro uomini caddero a terra colpiti dai dardi, mentre un altro si piegava in due cercando però di rimanere in piedi mentre lottava con una freccia che gli aveva trapassato la coscia, inchiodandola all’altra gamba. I Parti voltarono i cavalli e si allontanarono velocemente, lasciandosi alle spalle gli ausiliari sopraffatti dalla sorpresa e dal terrore.

    Poco dopo, ecco provenire un grido dal lato sinistro, dove il nemico aveva sferrato un ulteriore attacco.

    «Muovetevi!», gridò Castore disperato, udendo il suono di altri cavalli che passavano alle spalle della coorte. «Correte, ragazzi!».

    Le fila ordinate della coorte si dispersero in una folla confusa di uomini che correvano verso l’entrata principale, fra cui anche Castore.

    Poi questi vide i cancelli richiudersi, mentre sopra la palizzata spuntavano dozzine di volti. Apparvero anche gli archi e il sibilo delle frecce tornò a imperversare nell’aria. Altri ausiliari colpiti caddero a terra mentre cercavano disperatamente di raggiungere l’entrata dell’accampamento.

    La pioggia di frecce era incessante e si abbatteva fragorosamente sugli scudi, mentre i dardi che andavano a segno laceravano le carni con un tonfo molle. Da tutte le parti si alzavano grida disperate e con una sensazione di terribile vuoto allo stomaco, Castore comprese che i suoi uomini erano ormai spacciati, a meno che non riuscisse a fare qualcosa all’ultimo momento.

    «A me!», gridò Castore. «Avvicinatevi a me!».

    Un gruppetto di uomini obbedì all’ordine e alzò gli scudi attorno a Castore e al vessillo della coorte. Altri uomini si unirono a loro, sotto le approssimative direttive di Settimo, intento a raggiungere il proprio comandante. Una volta formatosi un fitto cerchio composto da una cinquantina di soldati con gli scudi sollevati, Castore impartì l’ordine di ritirata lungo il sentiero che conduceva alla scogliera. Pian piano, il gruppo scomparve nell’oscurità, lasciandosi alle spalle i compagni feriti che imploravano disperati di non essere lasciati in mano ai Parti. Castore dovette farsi coraggio. Non c’era nulla che potesse fare per quegli sventurati. L’unico rifugio che rimaneva ai sopravvissuti della coorte era la fortezza in costruzione, sulla scogliera. Se fossero riusciti a raggiungerla, avrebbero avuto maggiori possibilità di opporre resistenza al nemico. La coorte era ormai spacciata, ma i suoi uomini avrebbero portato con sé il maggior numero di Parti possibile.

    La piccola compagine di ausiliari raggiunse le pendici dell’altopiano prima che il nemico ne indovinasse le intenzioni e decidesse di seguirli. Uomini a cavallo sbucavano dal buio per scoccare i loro dardi, ma poi, accortisi che la tattica a sorpresa era ormai obsoleta, tiravano le redini per ricaricare gli archi con precisione e ricominciare a colpire. La coorte in risalita lungo lo stretto sentiero rappresentava un bersaglio ridotto per il nemico, e il retro della piccola compagine di sopravvissuti diretto verso il cantiere edile era protetto inoltre da un solido muro di scudi. I Parti li seguirono più vicino possibile, scoccando le loro frecce ogniqualvolta vedevano aprirsi un varco fra gli scudi. Quando capirono che era inutile cercare di colpirli attraverso quella solida difesa, puntarono sulle gambe scoperte delle loro prede, costringendole ad acquattarsi e a procedere più lentamente lungo il sentiero. Anche così, ci furono altri cinque feriti prima che il terreno si spianasse e la piccola colonna di ausiliari riuscisse a raggiungere il perimetro del sito. In cima alla scogliera il vento era ancora forte, ma almeno erano fuori dalla nube di polvere e riuscivano ad avere una buona visuale, al di sopra delle ondate di sabbia che oscuravano il terreno sottostante.

    Lasciando Settimo al comando della retroguardia, Castore condusse gli altri all’interno delle fondamenta della nuova costruzione, oltre l’entrata principale. Le mura erano troppo basse per tenere i Parti fuori dal forte e l’unico punto dal quale gli ausiliari potevano tentare un’azione difensiva era la torre di guardia quasi completata che si ergeva sull’angolo opposto della fortezza, a picco sulla scogliera.

    «Da questa parte!», gridò Castore. «Seguitemi!».

    Si precipitarono attraverso il labirinto di linee rette di massi che segnavano le zone in cui sarebbero sorte le varie costruzioni e i futuri passaggi del forte. Su in alto, la sagoma massiccia della torre di guardia si stagliava contro il cielo stellato. Non appena ebbero raggiunto la struttura con l’intelaiatura di legno, Castore si posizionò accanto all’entrata facendo cenno ai suoi uomini di introdursi nell’edificio. Erano poco più di una ventina, quelli che lo avevano seguito, e sapeva che sarebbero stati fortunati se fossero riusciti a vedere la prossima alba. Chinandosi per entrare a sua volta, Castore ordinò agli uomini di prendere posto sulla piattaforma in cima alla torre e presso le feritoie al piano sopraelevato. Tenne quattro soldati con sé a difesa dell’entrata stessa, in attesa dell’arrivo di Settimo e della retroguardia. Non ci volle molto perché alcune sagome confuse irrompessero attraverso l’accesso non ancora completato del forte per dirigersi verso la torre di guardia. Pochi attimi dopo, un’ondata di guerrieri nemici si materializzò davanti a loro, assaltandoli con grida trionfali.

    Castore avvicinò la mano alla bocca e gridò: «Sono arrivati! Correte!».

    Gli uomini della retroguardia, appesantiti dalla loro armatura e già esausti per la lunga giornata di lavoro, si mossero goffamente attraverso il cantiere. Uno di essi inciampò in una roccia e piombò a terra con un urlo acuto, ma nessuno dei suoi compagni si diede la briga di fermarsi ad aiutarlo; pochi secondi dopo l’infelice fu circondato dai Parti che si stavano precipitando verso la torre di guardia. Si buttarono sopra l’ausiliario caduto e in un attimo lo fecero a pezzi con le loro lame ricurve. La sua morte permise ai suoi compagni di raggiungere in tempo la torre, dove si assieparono, abbassando gli scudi e riprendendo un po’ di fiato. Settimo si leccò le labbra e raddrizzò le spalle, facendosi forza per fare rapporto con il respiro ansimante.

    «Abbiamo perso due uomini, signore... Uno sul sentiero, e uno appena adesso».

    «Ho visto». Castore annuì.

    «E ora che facciamo?»

    «Li teniamo a bada il più a lungo possibile».

    «E poi?».

    Castore scoppiò a ridere. «E poi moriremo. Ma non prima di aver spedito almeno una quarantina di loro ad aprirci la strada degli Inferi».

    Settimo si costrinse a sorridere, a beneficio degli uomini che stavano assistendo a quello scambio di parole. Poi guardò oltre le spalle di Castore e la sua espressione s’irrigidì. «Arrivano, signore».

    Castore si voltò e sollevò lo scudo. «Dobbiamo trattenerli qui! In posizione! ».

    Settimo rimase al suo fianco e i quattro uomini sollevarono le loro lance, pronti a scagliarle oltre le teste dei due ufficiali. Davanti all’entrata, la massa oscura dei Parti stava assalendo la torre a passo di carica attraverso il terreno ghiaioso, e lanciandosi contro gli scudi sollevati che bloccavano l’ingresso. Castore si puntellò un attimo prima che la parte interna del suo scudo lo colpisse per la forza dell’impatto. Poi affondò le calzature ferrate nel terreno e rispose al colpo, spingendo con tutto il peso contro la borchia dello scudo. Ci fu un singulto esplosivo, quando il suo colpo arrivò a destinazione. Sopra la sua spalla, la punta acuminata e l’impugnatura della lancia di uno dei suoi ausiliari sibilò nell’aria e fuori dalla torre si udì un grido di agonia. Quando la lancia fu ritirata, gli occhi di Castore furono colpiti da uno spruzzo di sangue caldo. Li strinse per ripulirli, mentre una spada colpiva la parte esterna del suo scudo. Al suo fianco, il centurione Settimo spingeva lo scudo in avanti, nella folla di nemici che gremiva l’entrata, affondando la sua lama in ogni porzione esposta di carne umana che riusciva a individuare fra il bordo dello scudo e lo stipite della porta.

    Fin quando i due ufficiali avessero resistito e fossero stati appoggiati dagli uomini alle loro spalle, pronti a usare le loro lance, il nemico non sarebbe riuscito a oltrepassare la soglia dell’entrata. Per un istante Castore si sentì rassicurato: per la prima volta, la battaglia stava prendendo una piega favorevole per i suoi.

    Troppo tardi percepì un movimento veloce ai suoi piedi, proprio davanti all’entrata: uno dei Parti s’era intrufolato all’interno procedendo carponi e aveva infilato la sua spada sotto lo scudo di Castore. La lama affilata affondò nella sua caviglia, tranciando cuoio, carne e muscolo prima di cozzare contro l’osso. Il dolore fu immediato, come una sbarra incandescente scagliata contro l’articolazione. Castore barcollò all’indietro con un urlo lacerante di dolore e rabbia.

    Settimo si guardò rapidamente alle spalle, scorgendo il comandante che si accasciava al suolo accanto all’entrata. «Il prossimo! In linea!».

    Chinandosi a terra, l’ausiliario più vicino si spinse in prima linea, accanto a Settimo, mentre i suoi compagni scagliavano le loro lance contro il nemico tempestandolo di colpi per farlo allontanare dall’ingresso.Poi, all’improvviso. Si udì un grido d’allarme provenire dall’oscurità, seguito dal rumore di mura crollate all’esterno della torre di guardia. Quando Castore si sporse dallo stipite della porta per capire cosa stesse accadendo, vide un masso levigato che si abbatteva sui Parti, schiacciando la testa di un uomo che aveva colpito e trascinato con sé. Gli assalitori furono colpiti da altri massi e grossi ciottoli, che ne uccisero e schiacciarono un gran numero, prima che potessero portarsi a distanza di sicurezza sul terreno del cantiere.

    «Stupendo», mormorò Settimo, deliziato da quello spettacolo. «Ora sanno cosa significa essere attaccati senza la possibilità di opporre resistenza. Bastardi».

    Quando il nemico si fu portato fuori tiro, la pioggia di sassi diminuì d’intensità e il rumore della battaglia fu rimpiazzato dalle grida esultanti e dai fischi degli ausiliari nella torre di guardia, nonché dai lamenti e dalle grida dei feriti davanti all’entrata. Settimo lanciò un’ultima occhiata all’esterno prima di ordinare a uno degli uomini di prendere il suo posto. Dopo aver appoggiato lo scudo contro la parete, si chinò ad esaminare la ferita di Castore, strizzando gli occhi per riuscire a vedere meglio sotto la pallida luce del cielo stellato che penetrava dall’entrata. Le sue mani si posarono delicatamente sulla ferita, percependo le schegge d’osso nella carne lacerata. Castore trasalì e risucchiò violentemente aria, stringendo i denti per impedirsi di urlare di dolore.

    Settimo lo guardò negli occhi. «Mi spiace dovervelo dire, ma questa è stata la vostra ultima battaglia».

    «Dimmi qualcosa che non so già», sibilò Castore.

    Settimo sorrise debolmente. «Devo bloccare l’emorragia. Datemi la vostra sciarpa, signore».

    Castore si tolse l’indumento, lo srotolò e lo porse al suo sottoposto.

    Settimo ne premette un’estremità dietro la caviglia del comandante, poi tornò a guardarlo in volto. «Farà male. Siete pronto?»

    «Fai quel che devi fare».

    Settimo avvolse la sciarpa attorno alla gamba, sulla ferita, poi l’annodò strettamente attorno alla caviglia. Mai in vita sua Castore aveva provato un dolore più bruciante e nonostante il freddo notturno, quando Settimo ebbe finito di bendargli la gamba e si fu rialzato in piedi, si ritrovò in un bagno di sudore.

    «Dovrai aiutarmi a salire le scale, quando sarà il momento di passare di nuovo alla nostra ultima manovra di difesa».

    «Ci penserò io, signore».

    I due ufficiali si fissarono l’un l’altro per qualche secondo, valutando l’effettivo significato di quello scambio di parole. Ora che avevano accettato l’inevitabile, Castore si sentiva stranamente sollevato dall’ansia che lo aveva attanagliato pensando al destino che li attendeva. Nonostante il dolore alla gamba, sentiva nel cuore una calma rassegnazione e la ferma determinazione a combattere fino all’ultimo sangue. Settimo distolse lo sguardo, orientandolo oltre la porta, e scorse il nemico disposto a gruppetti sullo spiazzo del cantiere, fuori dalla portata dei sassi e ciottoli che gli ausiliari avevano scagliato dalla torre di guardia.

    «Mi chiedo quale sarà la loro prossima mossa», disse. «Che vogliano prenderci per fame?».

    Castore scosse il capo. Aveva servito abbastanza a lungo nelle legioni orientali per conoscere l’indole e le abitudini del vecchio nemico di Roma. «Non aspetteranno che moriamo di fame. Non c’è onore in questo».

    «E allora?».

    Castore si strinse nelle spalle. «Lo sapremo presto».

    Ci fu un attimo di silenzio, prima che Settimo distogliesse gli occhi dall’entrata. «Ma di che si tratta? Di un’incursione? Dell’apertura di una nuova campagna contro Roma?»

    «Ha forse importanza?»

    «Vorrei conoscere la ragione della mia morte».

    Castore arricciò le labbra, considerando la situazione. «Potrebbe trattarsi di un’incursione. Forse hanno pensato che la costruzione della fortezza fosse un atto di provocazione. Ma è altrettanto possibile che vogliano aprire una strada attraverso l’Eufrate perché le loro truppe possano attraversarlo. Potrebbe essere la prima mossa per assumere il controllo su Palmira».

    Le considerazioni di Castore furono interrotte da un grido proveniente dall’esterno.

    «Romani! Ascoltatemi!», disse una voce in greco. «La Partia vi invita a deporre le armi e ad arrendervi!».

    «Balle!», sbottò Settimo.

    L’uomo all’esterno non rispose alla provocazione e continuò in tono pacato: «Il mio comandante vi invita ad arrendervi. Se deporrete le vostre armi, sarete risparmiati. Vi dà la sua parola».

    «Risparmiati?», ripeté sottovoce Castore, prima di gridare la propria risposta. «Ci risparmierete e ci permetterete di tornare a Palmira?».

    Ci fu una breve pausa, prima che la voce riprendesse. «Le vostre vite saranno risparmiate, ma sarete fatti prigionieri».

    «Schiavi, vorrai dire», ruggì Settimo, sputando a terra. «Non morirò da fottuto schiavo!». Si voltò verso Castore. «Signore? Che facciamo? »

    «Digli di andare agli Inferi».

    Settimo fece un breve sorriso, i denti che brillavano sotto la luce lunare. Si voltò verso l’entrata e gridò la propria risposta. «Se volete le nostre armi, venite a prenderle!».

    Castore ridacchiò. «Poco originale, ma ben detto!».

    I due ufficiali si scambiarono un ghigno e gli altri uomini ridacchiarono nervosamente, finché la voce da fuori non li raggiunse per l’ultima volta.

    «Come volete. Allora questo luogo sarà la vostra tomba. O piuttosto... la vostra pira funeraria».

    Dal lato opposto del cantiere era apparso un tenue bagliore e davanti agli occhi di Settimo apparve una piccola fiamma, nella cui luce si stagliava la sagoma del guerriero accovacciato sulla scatola contenente esca, acciarino e pietra focaia. Il fuoco era ben alimentato e divampò velocemente trasformandosi in una vivida fiammata, mentre gli uomini vi si accostavano rapidi per accendere le torce raccolte dal terreno circostante. Poi si appropinquarono alla torre di guardia e, sempre sotto gli occhi di Settimo, la prima freccia infuocata fu accostata alla torcia perché gli stracci imbevuti d’olio prendessero fuoco. L’arciere imbracciò rapido il suo arco e scagliò il dardo infuocato contro la torre. Questo attraversò il buio come una cometa e andò a cozzare contro l’impalcatura, sprigionando una piccola pioggia di scintille. Altre frecce di fuoco seguirono rapide la prima, andando a conficcarsi nell’intelaiatura di legno, sollevando schegge e appiccando il fuoco alla struttura.

    «Merda!». Settimo strinse il pugno intorno all’elsa della sua spada. «Vogliono darci fuoco».

    Castore sapeva che non c’era acqua, all’interno della torre, e scosse il capo. «Non possiamo farci niente. Chiama gli uomini e falli scendere dalla torre di guardia».

    «Sì, signore».

    Poco dopo, mentre l’ultimo dei superstiti si accalcava nella piccola sala della guardiola alla base della torre, Castore si issò in piedi appoggiandosi alla parete per poter rivolgere loro la parola.

    «Per noi è finita, ragazzi. O restiamo qui a bruciare vivi, o usciamo fuori e portiamo con noi nella tomba qualcuno di quei bastardi. Questi sono i fatti. Quindi, al mio ordine seguirete il centurione Settimo fuori dalla torre. Rimanete uniti e assaliteli senza paura. Capito?».

    Una manciata di uomini annuì, mentre alcuni riuscirono persino a pronunciare qualche parola di approvazione. Settimo si schiarì la gola. «E voi, signore? Voi non potete venire con noi».

    «Lo so. Rimarrò qui a difendere lo stendardo. Non possiamo permettere che ce lo portino via». Castore allungò la mano in direzione delle insegne della coorte. «Consegnatemelo».

    Il porta-stendardo esitò un istante, poi fece un passo avanti e depositò l’asta nella mano del suo comandante. «Abbiatene cura, signore».

    Castore annuì, afferrò saldamente lo stendardo con la mano e lo impiegò per sostenere il peso sulla gamba ferita. Intorno a lui il crepitio delle fiamme riempiva l’aria ormai rovente, mentre il terreno circostante la torre di guardia veniva illuminato da un cupo colore arancione. Castore arrancò verso la stretta scala in legno posta in un angolo. «Una volta arrivato in cima, darò l’ordine di partire alla carica. Fate che ogni vostro colpo di lancia e di spada vada a segno, ragazzi».

    «Sarà fatto, comandante», rispose Settimo in tono pacato ma fermo.

    Castore annuì e afferrò brevemente il braccio del centurione, poi, stringendo i denti, si accinse a raggiungere la cima della torre, arrampicandosi faticosamente sulla scala di legno, mentre l’aria intorno a lui si faceva sempre più calda e irrespirabile, e volute di fumo s’innalzavano nella luce arancione che filtrava dalle finestre e dalle fessure aperte dalle frecce. Il tempo di raggiungere il tetto, ed ecco che tutto il lato della torre esposto al nemico era già in fiamme. Castore individuò diversi gruppi di Parti in attesa nel buio rischiarato a tratti dalla luce irrequieta e rossastra delle fiamme; fece un respiro profondo.

    «Centurione Settimo! All’assalto! Adesso!».

    Dalla base della torre gli giunse il suono di uno sparuto grido di guerra e Castore vide i Parti sollevare gli archi e prendere la mira. Subito dopo l’aria fu invasa da uno sciame di frecce. Da sopra il parapetto, vide la piccola massa compatta dei suoi uomini che si lanciava all’assalto attraverso il terreno del cantiere. Le loro spalle erano curve sotto gli scudi e correvano dritti incontro al nemico, seguendo Settimo che urlava improperi contro i Parti. Gli arcieri non indietreggiarono e cominciarono a scagliare le loro frecce il più velocemente possibile contro il bersaglio mobile. Chi aveva ancora delle frecce infuocate a disposizione, le usò, e gli ausiliari si videro venire incontro delle lucenti palle di fuoco. Alcune andarono a colpire gli scudi e rimasero a bruciare su di essi mentre i loro proprietari continuavano a correre. Poi Castore vide Settimo trasalire e bloccarsi all’improvviso, mentre la spada gli cadeva dalla mano, adesso stretta attorno alla punta di una freccia che gli aveva trapassato il collo. Il suo ultimo grido di guerra echeggiava ancora nell’aria. Poi il centurione cadde in ginocchio e si accasciò a faccia avanti, con il corpo scosso da un leggero sussulto mentre si dissanguava.

    Gli ausiliari gli si strinsero intorno sollevando gli scudi. Castore li osservò, in preda a un senso di amara frustrazione. Lo slancio impetuoso di quella carica s’era spento insieme a Settimo, e ora gli uomini venivano colpiti uno dopo l’altro dalle frecce dei Parti che riuscivano a intrufolarsi fra gli scudi, conficcandosi nelle carni degli sventurati soldati. Castore non aveva alcuna intenzione di assistere alla fine di quello spettacolo. Appoggiandosi allo stendardo, attraversò la piattaforma raggiungendone il lato opposto e si affacciò dalla scogliera, con gli occhi rivolti sul fiume sottostante. Laggiù in fondo la bruma s’era diradata e la luce lunare increspava il nastro d’acqua come se questo scorresse tra le rocce. Castore sollevò il mento e fissò lo sguardo nelle serene profondità dei cieli inspirando lunghe boccate d’aria notturna.

    Un improvviso fragore di legno infranto, proveniente dall’altra estremità della torre, lo costrinse a voltarsi e seppe che non c’era più tempo da perdere, ormai, se voleva assicurarsi che lo stendardo non cadesse in mano nemica. Attraverso la cortina ondeggiante di fiamme e di fumo, riusciva a scorgere i ranghi scintillanti dei Parti. Sapeva che quello era soltanto l’inizio. Ben presto un’ondata di fuoco e distruzione si sarebbe riversata su tutto il deserto minacciando di inghiottire le province orientali dell’Impero Romano. Castore afferrò l’asta dello stendardo con entrambe le mani e zoppicò fino all’orlo estremo della piattaforma. Fece un ultimo lungo respiro, strinse i denti e si lanciò nel vuoto.

    Capitolo due

    «Questa sì che è vita». Macrone sorrise appoggiandosi al muro dell’Anfora Generosa, la sua bettola abituale, e stese le gambe davanti a sé. «Finalmente sono stato assegnato in Siria. Sai una cosa, Catone?»

    «Che cosa?». Il suo compagno si scosse e sbatté le palpebre, aprendo gli occhi.

    «È proprio bello come pensavo». Macrone chiuse gli occhi per godere del calore del sole sul viso segnato dalle intemperie. «Ottimi vini, meretrici belle e prosperose che sanno fare diversi giochetti e un clima secco e gradevole. C’è persino una biblioteca decente».

    «Non pensavo t’interessassero i libri», disse Catone. Negli ultimi mesi Macrone era quasi riuscito a saziare i suoi appetiti epicurei e aveva incominciato a leggere. Le sue preferenze andavano dichiaratamente alle commedie oscene e alla letteratura erotica ma, rifletté Catone, perlomeno leggeva qualcosa e c’era la lontana possibilità che un giorno sarebbe passato a un genere più impegnativo. Macrone sorrise. «Per il momento è un ottimo posto, direi. Clima caldo e donne calde. Credimi, dopo quella campagna in Britannia non voglio vedere più Celti per il resto della mia vita».

    «Hai ragione», mormorò il centurione Catone con autentica partecipazione, ricordando il freddo, l’umidità e le paludi ammantate di bruma attraverso i quali lui e Macrone, e gli uomini della Seconda Legione, s’erano fatti strada combattendo sulle terre di più recente acquisizione romana. «In estate, però, non era poi tanto male».

    «Estate?», fece Macrone, aggrottando le sopracciglia. «Ah, immagino tu intenda quella manciata di giornate che c’erano fra l’inverno e l’autunno ».

    «Aspetta a dirlo. Qualche mese di campagna nel deserto e il tempo passato in Britannia ti sembrerà il paradiso».

    «Può anche darsi», concesse Macrone, ricordando l’incarico precedente che avevano avuto, ai confini della Giudea, nel bel mezzo delle terre riarse dal sole. Scacciò quel ricordo. «Per il momento, comunque, ho una coorte da comandare, la paga di un prefetto e la prospettiva di un considerevole periodo di riposo prima di tornare a rischiare la pelle per l’imperatore, il Senato e il popolo di Roma», pronunciò la tiritera ufficiale in tono sarcastico, «mi riferisco ovviamente a quel bastardo viscido e connivente, Narciso».

    «Narciso...». Nel ripetere il nome del segretario privato dell’imperatore Claudio, Catone drizzò la schiena e si voltò a guardare il suo amico. Abbassò la voce. «Non ha ancora risposto. Ormai dovrebbe aver letto il nostro rapporto».

    «Già», rispose Macrone, stringendosi nelle spalle. «E allora?»

    «Cosa pensi che farà col governatore?»

    «Cassio Longino? Oh, andrà tutto per il meglio. Longino ha provveduto molto bene a nascondere le proprie tracce. Non vi è alcuna prova certa di un suo legame con qualsiasi tipo di tradimento e puoi star sicuro che farà del suo meglio per dimostrarsi il più fedele servitore dell’imperatore, adesso che sa di essere sotto sorveglianza».

    Catone lanciò un’occhiata ai clienti del tavolo più vicino, poi accostò la bocca all’orecchio di Macrone. «Dal momento che siamo noi quelli che Narciso ha incaricato di sorvegliare Longino, dubito fortemente che il governatore verserebbe calde lacrime nel caso di una nostra dipartita. Dobbiamo fare molta attenzione».

    «Difficile che ci faccia ammazzare», rispose Macrone tirando su col naso. «Risulterebbe troppo sospetto. Rilassati, Catone, siamo in una botte di ferro». Stiracchiò le braccia e si portò le mani dietro la testa sbadigliando soddisfatto.

    Catone lo osservò per qualche istante, augurandosi che non stesse sottovalutando il pericolo costituito da Longino. Pochi mesi prima il governatore della Siria aveva richiesto il trasferimento sotto il suo comando di altre tre legioni per contrastare l’incombente minaccia di una rivolta in Giudea. Con alle spalle una potenza di quella portata Longino avrebbe potuto costituire una seria minaccia per l’imperatore. Catone era convinto che Longino si stesse preparando a conquistare il trono imperiale. Grazie a Macrone e Catone, però, la rivolta era stata soffocata prima che potesse espandersi per tutta la provincia, e Longino era stato privato della necessità di quelle legioni in più. Un uomo potente come lui non avrebbe facilmente perdonato coloro che avevano osato frustrare le sue ambizioni, e per qualche mese Catone aveva vissuto in angosciata attesa della sua vendetta. Ma ora il governatore stava affrontando una minaccia ben più reale, quella sempre più crescente della Partia, con soltanto la Terza, la Sesta e la Decima Legione e le loro coorti ausiliarie ad affrontare il nemico. Se si fosse arrivati alla guerra nelle province orientali, ogni uomo a disposizione sarebbe stato chiamato ad affrontare i Parti. Catone sospirò. Ironia della sorte, quella minaccia proveniente dalla Partia era provvidenziale. Distraeva la mente del governatore dai pensieri di vendetta, almeno per il momento. Catone svuotò la sua coppa e tornò ad appoggiarsi alla parete, lasciando vagare lo sguardo sulla città.

    Il sole era vicino all’orizzonte e i tetti di tegole e le cupole di Antiochia scintillavano nel riverbero della luce morente. Il centro abitato, come gran parte delle città finite sotto il controllo romano, e prima ancora nelle mani degli eredi greci delle conquiste di Alessandro Magno, era pieno di quel tipo di edifici pubblici comuni in tutto l’impero. Al di là delle alte colonne dei templi e dei portici, la città dava spazio a un guazzabuglio di eleganti residenze cittadine e a disordinate distese di bassi edifici piatti e squallidi. In quelle strade l’aria era carica degli odori di umanità concentrata. Era lì che la maggior parte dei soldati in licenza passava il suo tempo. Ma Catone e Macrone preferivano le relative comodità offerte dall’Anfora Generosa che, con la sua posizione leggermente elevata, traeva vantaggio dalla brezza sia pur leggera che ogni tanto passava sopra la città.

    Era ormai tutto il pomeriggio che bevevano e Catone iniziò ad abbandonarsi al caldo abbraccio del suo pigro appagamento. Erano ormai due mesi che si dedicavano all’addestramento costante della coorte ausiliaria, la Seconda Illirica, nell’enorme accampamento militare allestito fuori dalle mura di Antiochia. La coorte era la prima che Macrone comandava in qualità di prefetto, ed era deciso a far sì che gli uomini che la componevano divenissero i più astuti strateghi, i più rapidi marciatori e i guerrieri più imbattibili di tutte le altre coorti nell’esercito dell’Impero d’Oriente. Il compito di Macrone era più arduo del normale, visto che quasi un terzo degli uomini erano nuove reclute: i rimpiazzi dei caduti durante la battaglia del forte di Bushir. Quando l’esercito era stato messo sul piede di guerra, ogni singolo comandante di coorte s’era messo a rastrellare la regione alla ricerca di uomini perché le unità tornassero al loro pieno regime numerico.

    Mentre Catone aveva provveduto all’addestramento della coorte e alla riorganizzazione dell’equipaggiamento e delle provviste necessari, Macrone aveva percorso in lungo e in largo tutta la costa, da Pieria a Cesarea, alla ricerca di reclute. Aveva portato con sé dieci fra i suoi soldati più valorosi, nonché lo stendardo della coorte. Nel foro di ogni città e in ogni porto che aveva incontrato, Macrone aveva allestito una sorta di banchetto dal quale aveva apostrofato con la sua parlantina da imbonitore la solita compagine di uomini pigri e annoiati abitualmente presente in tutte le piazze dell’impero. Con la sua voce stentorea dagli accenti drammatici aveva promesso loro un premio d’arruolamento, una paga decente, pasti regolari, una vita avventurosa e, se fossero sopravvissuti abbastanza, l’onore della cittadinanza romana al momento del congedo, dopo aver espletato la piccola formalità di venticinque anni di servizio. Dopo un adeguato addestramento, avrebbero acquisito lo stesso aspetto minaccioso e formidabile dei soldati che accompagnavano Macrone. Alla fine del discorso, una ciurma eterogenea di uomini si avvicinava al banchetto e Macrone sceglieva gli esemplari migliori, scartando tutti quelli che gli sembravano deboli, poco intelligenti o troppo vecchi. Nelle prime città aveva trovato qualcosa di buono, ma poi, proseguendo il suo giro, aveva scoperto che altri ufficiali lo avevano preceduto, prendendosi gli uomini migliori e lasciando solo gli scarti. Nonostante questo, al suo ritorno aveva portato con sé abbastanza reclute alla coorte da ricostituirne il numero, e disponeva inoltre del tempo sufficiente per addestrarle a dovere, prima dell’inizio di qualsiasi campagna.

    Macrone aveva trascorso i lunghi mesi invernali ad addestrare le nuove reclute, mentre Catone aveva costretto gli altri uomini a lunghe e sfiancanti marce e a severe esercitazioni con le armi. Mentre la Seconda Illirica s’addestrava, ad Antiochia c’era stato un regolare afflusso di altre unità, che andavano ad aggiungersi al sempre crescente accampamento allestito fuori dalla fortezza della Decima Legione. Con esse giungevano anche orde di varia umanità al seguito degli accampamenti militari e le strade e i mercati di Antiochia avevano iniziato a risuonare delle voci e dei richiami dei venditori ambulanti. Tutte le locande traboccavano di soldati, e code interminabili di uomini si formavano davanti ai variopinti bordelli, da cui provenivano nauseabondi miasmi di sudore misto a incenso da quattro soldi.

    Guardando il tramonto sulla città, Catone pensava a tutto questo, ma senza alcuno spirito critico. Pur avendo da poco superato i vent’anni, aveva già prestato ben quattro anni e mezzo di servizio nell’esercito ed era abituato ai comportamenti dei soldati e agli effetti che il loro arrivo sortiva sulle città che attraversavano. A dispetto di un inizio poco promettente, Catone s’era rivelato un buon soldato, persino al di là delle sue stesse aspettative. La pronta intelligenza e uno spirito coraggioso avevano contribuito a trasformarlo da bamboccio viziato proveniente dalla corte imperiale qual era stato, a valoroso comandante dell’esercito. Ma era stato anche fortunato a ritrovarsi assegnato alla centuria di Macrone quando s’era unito alla Seconda Legione, ammise fra sé e sé. Se il centurione Macrone non avesse individuato un certo potenziale in quella recluta magra e nervosa appena arrivata da Roma, e non l’avesse presa sotto la sua ala protettrice, quasi certamente Catone non sarebbe sopravvissuto a lungo sulla frontiera germanica, né avrebbe resistito durante la successiva campagna britannica. Dopo quelle battaglie, i due avevano lasciato la Seconda Legione e avevano prestato un breve servizio nella flotta romana, prima di venir destinati in oriente, presso l’attuale comando di Macrone. Nella prossima campagna avrebbero di nuovo combattuto in seno all’esercito e Catone si sentiva leggermente sollevato all’idea che fossero finalmente dispensati dalla responsabilità del comando indipendente: sollievo moderato dall’istintiva preoccupazione di dover affrontare i pericoli di un ulteriore conflitto.

    Soldati ben più validi di Catone erano stati abbattuti da una freccia, da un colpo di frombola o di spada che non erano riusciti a schivare. Fino ad ora gli era andata bene, e sperava che la fortuna avrebbe continuato ad assisterlo, se fosse iniziata una guerra contro i Parti. Aveva combattuto contro di essi per un breve periodo di tempo, l’anno precedente, e sapeva bene quanto fossero abili con l’arco e le frecce, rapidi nell’attacco a sorpresa e nella ritirata prima che i Romani potessero contrattaccare. Era uno stile di combattimento che metteva a dura prova persino i legionari, figurarsi gli uomini della Seconda Illirica. Ma forse non era giusto dire così, rifletté Catone. In realtà, invece, contro i Parti gli uomini della sua coorte avevano più probabilità di quante non ne avessero i legionari. La loro armatura era più leggera e ben un quarto di essi era a cavallo; i Parti avrebbero dovuto usare molta più cautela con loro, di quanto non fosse accaduto in occasione degli assalti contro la lenta e pesante fanteria delle legioni. Cassio Longino avrebbe dovuto procedere con circospezione, contro i Parti, se non voleva subire la stessa sorte toccata quasi un secolo prima a Marco Crasso e le sue sei legioni. Crasso aveva fatto l’errore grossolano di avventurarsi alla cieca nel deserto e, dopo diversi giorni di ripetuti attacchi sotto un sole impietoso, il suo esercito era stato fatto a pezzi insieme al suo generale.

    Quando il sole finalmente si eclissò all’orizzonte, si udì un lontano squillo di buccine dall’accampamento militare: annunciava la prima guardia notturna. Macrone si riscosse, scostandosi dal ruvido intonaco della parete.

    «Meglio tornare all’accampamento. Domani porto i novellini nel deserto. È la prima volta, per loro. Sarà interessante vedere come se la cavano ».

    «Meglio non strapazzarli troppo», suggerì Catone. «Non possiamo permetterci di perdere uomini prima dell’inizio della campagna».

    «Non strapazzarli troppo?», Macrone aggrottò le sopracciglia. «Col cavolo. Se non resisteranno ora, non ce la faranno mai quando inizierà la vera battaglia».

    Catone si strinse nelle spalle. «Pensavo ci servissero più uomini possibile ».

    «Il più possibile, certo. Ma non i pesi morti».

    Catone rimase in silenzio per qualche istante. «Questa non è la Seconda Legione, Macrone. Non possiamo aspettarci troppo dagli uomini di una coorte ausiliaria».

    «Dici davvero?». L’espressione di Macrone si fece più dura. «La Seconda Illirica non è una coorte qualsiasi. È la mia coorte. E se voglio che i miei uomini marcino, combattano e muoiano esattamente come i legionari, lo faranno. Capito?».

    Catone annuì.

    «E tu contribuirai affinché questo accada».

    Catone raddrizzò la schiena. «Naturalmente, signore. Vi ho forse mai deluso?».

    Si guardarono un istante negli occhi, poi Macrone scoppiò a ridere, appioppando all’amico una sonora pacca sulla spalla. «Non ancora, no. Hai le palle di ferro massiccio, tu, ragazzo mio. Spero soltanto che gli altri ti somiglino un poco».

    «Lo spero anch’io», rispose Catone in tono pacato.

    Macrone si alzò in piedi strofinandosi i glutei, leggermente intorpiditi dopo diverse ore passate sulla dura panca di legno della bettola e afferrò la sua bacchetta di legno di vite da centurione. «Andiamo».

    Attraversarono il foro, che si stava già riempiendo di lenoni e venditori di ninnoli, nonché dei primi soldati fuori servizio provenienti dall’accampamento. Reclute ancora imberbi si riunivano in gruppetti chiassosi, dirette verso le più vicine osterie, dove si sarebbero fatte spellare da esperti truffatori e imbroglioni che sapevano bene con chi avevano a che fare, e conoscevano ogni genere di giochetti e di trucchi. Catone provò un moto di compassione per le povere reclute, ma sapeva che avrebbero imparato a vivere soltanto attraverso l’esperienza diretta. Un paio di risse e la perdita dei borsellini avrebbero garantito una maggiore prudenza in futuro, sempre che avessero vissuto abbastanza da arrivarci.

    Come di consueto, c’era una severa linea di divisione fra gli uomini delle legioni e quelli delle coorti ausiliarie. I legionari erano pagati molto meglio e tendevano a considerare i soldati non-cittadini imperiali con una sorta di disprezzo professionale: un atteggiamento che Catone riusciva a comprendere e che Macrone condivideva appieno. La cosa andava oltre i confini dell’accampamento e si estendeva fin nelle strade di Antiochia, dove gli uomini delle coorti si tenevano generalmente a rispettosa distanza dai legionari. Ma non tutti, a quanto pareva. Mentre Catone e Macrone svoltavano in una delle strade che dal foro portavano fuori città, udirono un violento alterco scoppiato a breve distanza da loro. Sotto il chiarore di una grande lampada di rame appesa sull’entrata di un’osteria, una piccola folla s’era radunata intorno a due uomini rotolati fuori dalla porta e ora impegnati in un serrato corpo a corpo nel sudiciume di una fogna.

    «Ci sono guai», mormorò Macrone.

    «Proviamo a farli smettere?».

    Macrone osservò la lotta per qualche secondo, mentre si avvicinavano, poi scrollò le spalle. «Non vedo perché dovremmo immischiarci.

    Lascia che se la sbrighino da soli». In quel momento qualcosa scintillò nella mano di uno dei litiganti e qualcuno mandò un grido. «Ha un coltello!».

    «Merda», grugnì Macrone. «Ora sì che dobbiamo immischiarci. Vieni!».

    Affrettò il passo e spinse da parte alcuni degli avventori dell’osteria, usciti per assistere alla rissa.

    «Ahi!». Un uomo grassoccio intabarrato in una tunica rossa si voltò irritato verso Macrone. «Attento a dove metti i piedi!».

    «Chiudi il becco!». Macrone sollevò la sua verga da centurione in modo che l’uomo, e tutti gli altri presenti, potessero vederla e si fece largo tra la folla fino ai due uomini impegnati nella lotta. «Dividetevi subito, voi due! Questo è un ordine!».

    Ci fu un ultimo breve tafferuglio, poi si udì una sorta di brontolio cupo e i due si separarono, rotolando sul selciato. Uno dei due, un tipo magro e asciutto con la tunica da legionario, si mosse come un gatto rimettendosi in piedi e assumendo subito la posizione di lotta per continuare eventualmente la rissa. Macrone gli si avvicinò, brandendo la sua bacchetta di legno di vite.

    «Basta così, ho detto».

    Poi Catone vide la piccola lama che l’uomo stringeva nella mano. Non scintillava più, era coperta da uno strato scuro di sangue che gocciolava dalla punta. A terra, l’altro uomo s’era issato su un gomito, con l’altra mano premuta su un fianco. Respirava a fatica e mandava gemiti di dolore.

    «Malediz... oh, merda, se fa male... Quel bastardo mi ha pugnalato».

    Fissò il legionario per qualche istante, poi emise un grido strozzato e si accasciò a terra, sotto la pallida luce della lampada sopra di lui.

    «Lo conosco», disse piano Catone. «È uno dei nostri. Gaio Menato, di uno squadrone di cavalleria». S’inginocchiò accanto all’uomo e gli tastò la ferita. La tunica dell’ausiliario era inzuppata di sangue, uscito in grande quantità quando la lama era stata ritirata e Catone guardò gli uomini raccoltisi attorno a loro.

    «State indietro!», ordinò. «Fate spazio!».

    Catone aveva lasciato la sua verga all’accampamento e, vedendolo così giovane, alcuni veterani esitarono a obbedire ai suoi ordini. Ma gli uomini della Seconda Illirica, i compagni di Menato, lo riconobbero come il loro ufficiale e indietreggiarono immediatamente. Dopo qualche istante anche gli altri li imitarono e Catone riportò la propria attenzione sull’uomo ferito. Lo squarcio nella stoffa era piccolo, ma il sangue scorreva copioso, e Catone sollevò rapidamente la tunica, scoprendo il torace imbrattato di rosso dell’uomo. Una ferita leggermente increspata, come una piccola bocca, scintillava sotto la luce della lampada; da essa scaturiva un fiotto pulsante e regolare di sangue. Catone appoggiò la propria mano sulla ferita e premette forte, sollevando la testa per rivolgersi agli uomini più vicini.

    «Prendete un asse di legno, o qualcosa del genere, per trasportarlo! E tu, corri subito all’accampamento a chiamare un chirurgo, che vada all’ospedale e si tenga pronto per l’arrivo del ferito. Digli che Menato è stato pugnalato».

    «Sì, signore!». L’ausiliario scattò sull’attenti e si voltò, iniziando a correre verso le porte della città.

    Mentre Catone si voltava di nuovo verso Menato, Macrone si diresse con circospezione verso il legionario che aveva ancora in mano il coltello.

    L’uomo s’era allontanato dalla folla, dirigendosi verso la parte opposta della strada ed era ancora in posizione di combattimento, le spalle ricurve e gli occhi rivolti minacciosamente verso Macrone che gli stava andando incontro.

    Macrone sorrise tendendo una mano. «Basta guai, per stasera, figliolo. Dammi quel coltello, prima di peggiorare le cose».

    Il legionario scosse il capo. «Quel bastardo se l’è voluta».

    «Non ne dubito. Ne discuteremo più tardi. Ora dammi il coltello».

    «No. Voi mi farete arrestare». La voce dell’uomo era impastata dall’alcool.

    «Arrestare?», Macrone sbuffò dal naso. «Questo è l’ultimo dei tuoi problemi, amico. Butta a terra quel coltello, prima di cacciarti in guai ancor più grossi».

    «Voi non capite». Il legionario agitò il coltello in direzione dell’uomo accasciato a terra. «Mi ha ingannato. Al gioco dei dadi».

    «Stronzate!», urlò uno. «Ha vinto lealmente».

    Seguì un coro di irosi consensi, seguito a ruota da furiose smentite.

    «SILENZIO!», ruggì Macrone.

    Gli uomini ammutolirono di botto. Macrone li squadrò uno a uno, poi tornò a concentrarsi sull’uomo col coltello in mano. «Come ti chiami? E a che

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