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La seconda generazione
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E-book625 pagine8 ore

La seconda generazione

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Info su questo ebook

I cinque romanzi brevi contenuti nel volume (Il figlio di Kitiara, L’eredità, Vuoi scommettere?, La figlia di Raistlin e Il sacrificio) recano la firma di Margaret Weis e Tracy Hickman.
Le vicende narrate si sviluppano nel periodo intercorso fra la morte di Raistlin e la Guerra del Chaos, ossia circa venticinque anni dopo gli avvenimenti del ciclo Le Leggende.
 
Con La seconda generazione entrano in gioco i figli degli eroi delle Lance, protagonisti delle precedenti avventure, cui ora è affidato il delicato compito di sventare le fosche trame ordite dalla Regina delle Tenebre, un tempo sconfitta, ma mai definitivamente annientata, dai loro valorosi congiunti.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita11 nov 2021
ISBN9788834436363
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    Anteprima del libro

    La seconda generazione - Margaret Weis

    Prologo

    Eterna esiste la mappa delle convinzioni,

    il candido panorama

    con le sue fattorie di bianco ammantate.

    Ed eterna è la terra dei ricordi,

    fatta di schegge di sole riflesse

    sull’antico, immobile ghiaccio.

    E sempre il cuore,

    isolato e solare,

    vede erroneamente nel ghiaccio, nell’andare alla deriva,

    qualcosa di perplesso e di eterno.

    È così che finirà,

    ti sussurrerà il cuore,

    finirà con i mammuth e i ghiacciai,

    con diecimila anni

    di notte obliterante,

    e un giorno gli scienziati

    nel setacciare laghi e morene,

    troveranno come prova i nostri corpi,

    i nostri resti come aspetto esteriore della storia,

    ma la tua storia, intera e vana, finirà

    con lo svanire della punta della tua mano.

    Così dice il cuore,

    nella sua cella complessa,

    tracciando con gli specchi la mappa

    dell’inconoscibile terra

    dei ricordi e dei fiumi e del ghiaccio.

    Questa volta era diverso:

    la città si era arresa

    alla neve incappucciante, le case e le taverne

    erano ammantate di schegge di luce,

    e il lago era come marmo

    con la sua instabile coltre ghiacciata,

    mentre io camminavo fra la neve

    in mezzo agli spiriti che mi cullavano,

    appagato dell’ardesia del cielo

    e della prospettiva della prevista primavera.

    È così che finirà,

    proclamò l’inverno,

    presto o tardi,

    sotto il ghiaccio cupo e inaccessibile,

    e tu sarai il prossimo

    a sentire questa storia,

    mentre inverno su inverno

    soffoca il cuore,

    e là nel Wisconsin, impantanato dalla neve

    e dalla fede che svaniva,

    non parve una brutta cosa

    che l’inverno stesse portando via

    tutta la luce,

    e l’oscurità parve la benvenuta

    insieme all’ultima, obliterante neve.

    Si soffermò nel bel mezzo

    delle automobili ghiacciate,

    macchine allineate come cenotafi.

    In un fagotto di cappotti

    e di cappelli di lana e di sciarpe

    frugò nel bagagliaio

    alla ricerca di Dio solo sa cosa,

    ed io seppi il suo nome

    a causa degli occhiali appannati,

    del ridicolo cappello sfondato

    che portava indosso.

    E sia che fosse

    il ricordo della primavera,

    o la promessa del sole

    o qualcosa schierato

    al di là della neve e della ricerca,

    il coraggio fu con me in quel momento

    mentre gli parlavo, là;

    e adesso sono grato

    che mi abbia sorretto proprio allora,

    mentre mi rivolgevo all’infagottato

    intessitore di eventi casuali,

    al mago di ogni giorno,

    in cerca dell’impossibile primavera.

    Tracy, gli dissi, la poesia risiede

    nelle pieghe della storia,

    negli antichi ricordi e nella prospettiva

    di ciò che sempre potrebbe essere e mai sarà

    (e queste furono le parole

    che non pronunciai, ma la poesia consiste

    nella prospettiva di ciò che sarebbe dovuto essere:

    dovete credere che abbia detto queste parole,

    al di là dei dinieghi, al di là della storia),

    e là nell’inverno

    il primo canto ebbe inizio,

    le lune sorsero gemelle e ci chiamarono

    sui confini di Krynn,

    il panorama innevato

    si mutò in distese erbose

    più brillanti e plausibili.

    E il primo canto si protrasse

    attraverso la prospettiva dell’estate,

    quando la promessa rinasce

    dal seme svanito,

    quando il bastone ritorna

    da deserti d’oblio,

    e anche nelle terre del Settentrione

    lo spirito grida:

    questa è la mappa

    delle convinzioni realizzate;

    questa è la mappa di chi ha fede.

    Dov’è il mio cappello? Lo hai preso tu! Ti ho visto.

    Non dirmi che l’ho sulla testa! Non sono tanto sciocco! Io…

    Oh, eccolo qui. Ti sei deciso a riportarmelo, vero?

    No, non ti credo, neppure per un istante. Hai sempre

    voluto mettere le mani sul mio cappello, Hickman. Io…

    Cosa? Vuoi che scriva questa roba?

    Adesso? In questo momento?

    Non posso farlo, non ne ho il tempo.

    Sto cercando di ricordare le parole di un incantesimo.

    Vendita di fuoco. Motore di fuoco. Grandi sfere di fuoco…

    Ci siamo quasi…

    Oh, d’accordo. Scriverò la tua dannata prefazione.

    Ma solo per questa volta, bada bene. Allora, cominciamo…

    Prefazione

    Molto tempo fa, un paio di pomoli di porta noti come Margaret Weis e Tracy Hickman decisero di lasciare la loro casa su Krynn per andare in cerca di avventure. Temo che nelle vene di quei due ci sia un po’ di sangue kender, perché non riescono semplicemente a resistere alla tentazione di andarsene a zonzo per visitare mondi nuovi ed eccitanti.

    In ogni caso Weis e Hickman sono come i kender e le monete false… continuano a saltare fuori… e così eccoli di nuovo qui, decisi a parlarci delle cose meravigliose che stanno succedendo su Krynn.

    Alcune di queste storie le abbiamo già sentite in passato, ma loro ne hanno in serbo anche un paio di nuove, a proposito dei figli di quella piccola banda di avventurieri che adesso sono noti come gli Eroi delle Lance.

    Sono trascorsi molti anni dal tempo della guerra, i figli degli Eroi stanno crescendo e cominciano ad andare incontro alle avventure per conto loro, addentrandosi in un mondo che, mi duole dirlo, ha ancora una quantità di pericoli e di problemi sparsi un po’ dappertutto.

    Nel leggere queste storie, noterete come a volte Weis e Hickman contraddicano certe altre narrazioni che vi potrebbe essere capitato di aver sentito, e alcuni di voi potrebbero restare decisamente perplessi di fronte alla loro versione della vita passata degli Eroi… versione che differisce da altre già circolanti.

    Per questo esiste una spiegazione assolutamente semplice.

    In seguito alla Guerra delle Lance, Tanis, Caramon, Raistlin e tutti gli altri Compagni hanno cessato di essere persone qualsiasi e sono diventati Leggende; ci piaceva sentir raccontare le avventure degli Eroi, e non volevamo che quelle storie finissero, ne volevamo sempre di nuove, e per sopperire a tali domande i bardi e gli intessitori di leggende sono giunti da tutto Krynn per elargirci le loro meravigliose narrazioni. Alcuni di essi conoscevano bene gli Eroi, altri si sono limitati a ripetere storie che avevano sentito raccontare da un nano che le aveva apprese da un kender che le aveva sapute da un cavaliere che aveva una zia che aveva conosciuto gli Eroi…

    Capite cosa intendo.

    Alcune di queste narrazioni sono assolutamente vere senza ombra di dubbio, altre sono probabilmente altrettanto assolutamente vere… ma non proprio del tutto, mentre altre ancora sono quelle che in genere si definiscono per cortesia storie da kender… e cioè narrazioni che non contengono niente di vero ma che sono piacevolissime da sentire.

    E così mi chiedete: Fizban, Grande e Potente Mago, quali vicende sono vere e quali false?

    Ed io, Fizban, Grande e Potente Mago, rispondo: dal momento che le storie ti sono piaciute, razza di pomolo di porta, che importanza ha se siano vere o false?

    Bene, bene, sono contento di aver chiarito questa faccenda.

    Ora mettete ciò che vi serve nelle borse, ficcatevi il fazzoletto in tasca e prendete lo zaino, perché vi aspettano un sacco di avventure. Venite! Dimenticatevi le preoccupazioni! Viaggiate con Weis e Hickman attraverso Krynn ancora una volta, anche se per poco tempo. Non si fermeranno qui a lungo, ma hanno intenzione di tornare ancora.

    (Forse la prossima volta mi restituiranno il cappello!) Quale ho detto che era il mio nome?

    Ah, già.

    Sempre e sinceramente vostro,

    Fizban, il Favoloso

    I

    Al limitare del mondo vaga il saltimbanco,

    cieco e senza un sentiero,

    confidando nella venerabile

    ampiezza sdelle sue mani di giocoliere.

    Vaga lungo il limitare

    di una storia di molto tempo fa,

    lanciando e afferrando le lune,

    sfilando le fisse

    anonime stelle al suo passaggio.

    Qualcosa simile all’istinto

    e qualcosa simile all’agata,

    duro e trasparente

    nelle profondità dei suoi riflessi

    incanala gli oggetti

    dando loro vita nell’aria:

    stiletti e bottiglie,

    perni di legno e ornamenti,

    ciò che si vede e che non si vede… tutto riunito

    e tradotto in luce e abilità.

    È la sua versione della luce a guidarci:

    costellazioni di memoria

    e una chimica nata

    nell’alambicco del sangue,

    dove motivo e metafora

    e l’impulso della notte

    sono temprati dal mattino

    sul nostro volto,

    nelle impronte digitali

    delle nostre dita affioranti.

    Qualcosa in ciascuno di noi

    anela a questo equilibrio,

    alle chimiche svanite

    che temprano l’acciaio.

    Il migliore di tutti i trucchi da giocoliere

    consiste nelle tregue

    che modellano il nostro intento

    dai coltelli, dai filamenti,

    da bottiglie semivuote

    da specchi e da alchimie, e dal dimenticato

    materiale grezzo della notte.

    Il figlio di Kitiara

    1.

    La strana richiesta del cavaliere

    di un drago azzurro

    Era autunno nel continente di Ansalon, autunno a Solace. Le foglie degli alberi di vallenwood erano più belle di quanto lo fossero mai state, o almeno così asserì Caramon, sfumate di un rosso più intenso del fuoco, di un oro scintillante che brillava più di quello delle monete appena coniate che arrivavano da Palanthas. Tika, la moglie di Caramon, fu d’accordo con lui nel convenire che prima di allora a Solace non si erano mai visti simili colori.

    Ma quando Caramon uscì infine dalla locanda per andare a prendere un’altra botte di birra scura, Tika scosse il capo e scoppiò a ridere.

    «Caramon dice la stessa cosa ogni anno… che le foglie sono più belle e colorate dell’anno precedente. Lo fa sempre.»

    I clienti scoppiarono a ridere insieme a lei, e qualcuno prese un po’ in giro l’omone quando questi tornò nella locanda, trasportando sulla schiena la grossa botte di birra scura.

    «Quest’anno le foglie sembrano di un marrone spento» commentò tristemente un avventore.

    «Si stanno già seccando» aggiunse un altro.

    «Sì, stanno cominciando a cadere troppo presto, prima di aver potuto cambiare completamente colore» aggiunse un terzo.

    Mostrandosi stupefatto, Caramon giurò con decisione che non era affatto così e arrivò addirittura a trascinare gli increduli fuori sul portico, ficcando loro la faccia nel bel mezzo di un ramo fronduto per dimostrare la propria tesi.

    I clienti… tutti residenti da lungo tempo a Solace… finirono per ammettere che lui aveva ragione e che prima di allora le foglie non erano mai state così adorabili; a quel punto Caramon si mostrò gratificato come se avesse provveduto personalmente a dipingere il fogliame e scortò gli altri all’interno, offrendo loro gratuitamente un boccale di birra. Anche questa era una cosa che accadeva tutti gli anni.

    Quell’autunno la Taverna dell’Ultima Dimora era particolarmente affollata, e a Caramon sarebbe piaciuto attribuire il merito del fenomeno alla bellezza delle foglie, perché in effetti in quei giorni di relativa pace erano molti coloro che si recavano fino a Solace per vedere i meravigliosi alberi di vallenwood che crescevano esclusivamente lì e in nessun altro luogo di Krynn (nonostante le affermazioni in senso contrario da parte di certe città invidiose il cui nome non sarà menzionato).

    Però perfino Caramon era costretto a convenire con la teoria di Tika, che aveva una mente decisamente più pratica della sua, e ad ammettere che l’imminente Conclave dei Maghi aveva a che fare con l’aumentato numero di ospiti assai più delle foglie dei vallenwood, per quanto potessero essere belle.

    Un Conclave dei Maghi era un evento che si verificava di rado su Krynn. Aveva luogo soltanto quando i principali operatori di magia di ciascuno dei tre ordini… Bianco, Rosso e Nero… ritenevano necessario che tutti coloro che esercitavano la magia, dal più recente apprendista al più abile mago, si riunissero per discutere dei loro arcani affari.

    I maghi di tutto Ansalon si stavano quindi recando alla Torre di Wayreth per partecipare al conclave, a cui erano stati invitati anche alcuni individui appartenenti a quelle che erano note come le razze della Gemma di Greystone, i cui popoli non praticavano la magia ma si dedicavano alla fabbricazione di svariati oggetti e manufatti magici. Parecchi membri della razza dei nani erano ospiti d’onore al conclave, ed era arrivato perfino un gruppo di gnomi carico di progetti e speranzoso di riuscire a persuadere i maghi a lasciarlo entrare. Naturalmente si erano presentati anche numerosi kender, che però erano stati rimandati indietro ai confini con ferma gentilezza.

    La Taverna dell’Ultima Dimora era la sola locanda confortevole che un viandante avesse modo di incontrare prima di arrivare alla magica Foresta di Wayreth, al cui centro sorgeva una delle Torri dell’Alta Magia, antico quartier generale della magia su quel continente: quindi molti maghi e i loro ospiti si fermavano a pernottare là nel dirigersi alla torre.

    «Vengono per ammirare il colore delle foglie» sostenne Caramon, rivolto alla moglie. «La maggior parte di questi maghi si sarebbe potuta trasferire semplicemente fino alla torre con la sua magia senza prendersi il fastidio di fare una fermata intermedia.»

    Scrollando le spalle con una risata Tika convenne con il marito che doveva essere proprio merito delle foglie, e Caramon rimase terribilmente compiaciuto di se stesso per il resto della giornata.

    Nessuno dei due accennò però al fatto che ciascuno dei maghi che si fermavano nella locanda portava con sé un piccolo pegno di stima in ricordo del fratello gemello di Caramon, Raistlin. Mago di grande potere e di ambizione ancora maggiore, Raistlin era divenuto malvagio e per poco non aveva distrutto il mondo, ma alla fine si era redento con il sacrificio della propria vita, oltre vent’anni prima. Una piccola stanza della locanda era chiamata Stanza di Raistlin ed era adesso piena di svariati oggetti (alcuni di essi magici) lasciati in commemorazione del mago. (A nessun kender era mai permesso anche soltanto di avvicinarsi a quella stanza!)

    Ormai mancavano appena tre giorni al Conclave dei Maghi e quella notte, per la prima volta da una settimana, la locanda era vuota. Tutti i maghi avevano infatti ripreso il cammino perché la Foresta di Wayreth era un luogo difficile da raggiungere… non è il viandante a trovare la foresta ma essa a scovare lui… e tutti i maghi, perfino quelli di rango più elevato, sapevano che avrebbero trascorso almeno una giornata a girovagare in attesa che essa apparisse.

    E così i maghi se ne erano andati e nessuno dei clienti abituali era ancora ricomparso. Gli abitanti di Solace e delle comunità circostanti, che la sera erano soliti fermarsi alla locanda per un boccale di birra o per una porzione delle patate speziate di Tika o per entrambe le cose, si tenevano alla larga quando c’erano in giro dei maghi perché, anche se adesso su Ansalon gli operatori di magia erano tollerati (contrariamente ai tempi antichi in cui erano stati perseguitati), la gente non si fidava di loro, neppure delle Vesti Bianche che erano dedite al bene.

    La prima volta che si era tenuto il conclave, parecchi anni dopo la Guerra delle Lance, Caramon aveva aperto la propria locanda ai maghi (erano molte quelle che rifiutavano di servirli). Alcuni clienti abituali si erano tuttavia lamentati sonoramente e con parole aspre, e uno di essi era stato abbastanza ubriaco da infastidire e tormentare un giovane mago dalla Veste Rossa.

    Quella era stata una delle poche occasioni in cui chiunque a Solace ricordasse di aver visto Caramon furente e se ne parlava ancora tutt’oggi, quando lui non era presente: l’ubriaco era stato trasportato fuori della locanda a piedi in avanti, dopo che i suoi amici avevano provveduto a liberargli la testa dalla biforcazione di un ramo d’albero che cresceva all’interno della taverna.

    Da quel momento, però, ogni volta che si riuniva un conclave i clienti abituali si recavano in altre taverne e Caramon serviva i maghi; non appena concluso il conclave, i clienti si ripresentavano e la vita cominciava in maniera normale.

    «Questa notte» commentò poi Caramon, abbandonando il proprio lavoro per guardare con ammirazione la moglie, «otterremo di andare a letto presto.»

    Lui e Tika erano sposati da ventidue anni, e Caramon era ancora fermamente convinto di aver sposato la donna più bella di Krynn. I due avevano cinque figli, di cui tre maschi: Tanin, che aveva ventidue anni all’epoca della nostra storia; Sturm, che ne aveva diciannove; il sedicenne Palin e infine due bambinette, Laura e Dezra, rispettivamente di cinque e quattro anni. I due ragazzi più grandi desideravano diventare cavalieri ed erano sempre in giro in cerca di avventure, il che spiegava la loro assenza quella notte, mentre Palin stava studiando la magia (cosa che Caramon definiva una fantasia passeggera che gli sarebbe passata presto). Quanto alle due bambine… ecco, la loro è un’altra storia.

    «Per una volta sarà piacevole riuscire ad andare a letto presto» insistette Caramon.

    Continuando a spazzare vigorosamente il pavimento, Tika arricciò la bocca in una smorfia in modo da non tradirsi ridendo.

    «Sì» annuì con un sospiro «e ne siano lodati gli dèi, perché sono così stanca che probabilmente mi addormenterò ancora prima di posare la testa sul cuscino.»

    Caramon assunse un’espressione ansiosa e lasciò cadere lo straccio con cui stava asciugando i boccali appena lavati, spostandosi lungo il bancone per aggirarlo.

    «Non sei veramente tanto stanca, non è così, mia cara? Palin è a scuola, i due ragazzi più grandi sono in visita presso Goldmoon e Riverwind e le bambine sono a letto, e visto che siamo soltanto noi due pensavo che stanotte potremmo… ecco… potremmo avere un po’ di tempo per… uh… per parlare.»

    «Sì, sì, sono stanca» replicò Tika, distogliendo il volto per nascondere il proprio sorriso e sfoggiando un altro sospiro spossato. «Ci sono stati tutti quei letti da rifare, il nuovo cuoco da sorvegliare, i conti da far quadrare…»

    «In effetti hai ragione» borbottò Caramon, stringendosi nelle spalle.

    «Allora perché non te ne vai a letto e lasci che sia io a finire…»

    Gettando a terra la scopa Tika scoppiò a ridere e circondò il marito con le braccia… almeno nella misura in cui le era possibile, considerato che la circonferenza di Caramon era aumentata parecchio nel corso degli anni.

    «Razza di grosso pomolo di porta» ribatté con affetto «ti stavo soltanto prendendo in giro. È ovvio che andremo a letto per parlare, ma tu cerca di ricordarti che è stato proprio questo genere di conversazione che ci ha procurato i ragazzi e le bambine! Avanti!» proseguì, tirandolo scherzosamente per il grembiule, «spegni le luci e sbarra la porta, poi rimanderemo il resto del lavoro a domattina.»

    Sorridendo, Caramon chiuse energicamente la porta e stava per abbassare la pesante sbarra quando dall’esterno si sentì bussare debolmente.

    «Oh, dannazione!» imprecò Tika, accigliandosi. «Chi può mai essere, a quest’ora di notte? Fingi di non aver sentito» suggerì poi, spegnendo affrettatamente la candela che aveva in mano. «Forse se ne andranno.»

    «Non so se sia il caso» cominciò Caramon, che aveva il cuore tenero.

    «Stanotte gelerà…»

    «Oh, Caramon!» obiettò Tika, esasperata. «Ci sono altre locande…»

    Bussarono di nuovo, questa volta con maggior forza, e una voce lanciò un richiamo.

    «Locandiere? Mi dispiace che sia tardi, ma sono sola e ho un disperato bisogno di riparo.»

    «È una donna» sottolineò Caramon, e Tika comprese di aver perso la battaglia.

    Infatti suo marito avrebbe potuto… soltanto avrebbe… essere persuaso a lasciare che un uomo andasse in cerca di un’altra locanda in una notte fredda, ma mai una donna, soprattutto una che stesse viaggiando sola.

    Peraltro decise che protestare un poco non sarebbe stato un male.

    «E cosa ci fa una donna sola in giro a quest’ora della notte? Niente di buono, ci scommetto.»

    «Suvvia, Tika» cominciò Caramon, in quel tono supplichevole che lei conosceva così bene, «non puoi dirlo. Forse era andata a trovare un parente malato e l’oscurità l’ha sorpresa per strada, oppure…»

    «Avanti, apri» si arrese Tika, riaccendendo la candela.

    «Arrivo!» ruggì l’omone, ma nel dirigersi verso la porta si arrestò per un momento per scoccare un’occhiata alla moglie. «Forse dovresti buttare un ceppo sul fuoco, in cucina, perché quella donna potrebbe avere fame» suggerì.

    «In tal caso potrà mangiare carne fredda e formaggio» scattò Tika, sbattendo la candela sul tavolo.

    Gli anni avevano ingrigito e attenuato il rosso acceso dei suoi capelli, ma non avevano avuto lo stesso effetto sul carattere che ad essi si accompagnava, e Caramon si affrettò a lasciar cadere l’argomento del cibo.

    «Probabilmente deve essere molto stanca e salirà subito nella sua stanza» suggerì, nella speranza di placare sua moglie.

    «Humpf!» sbuffò Tika, fissando il marito a braccia conserte e con gli occhi roventi. «Intendi aprire la porta o vuoi lasciarla congelare là fuori?»

    Arrossendo e abbassando la testa di scatto, Caramon si affrettò a spalancare la porta.

    La donna che apparve incorniciata sulla soglia non risultò però essere ciò che essi si aspettavano, tanto che nel vederla perfino Caramon ebbe dei ripensamenti in merito al lasciarla entrare.

    Avvolta in un pesante mantello e calzata di stivali, la donna portava l’elmo e i guanti di cuoio propri di un cavaliere di draghi. Questo di per sé non era insolito perché in quei tempi erano molti i cavalieri di draghi che passavano da Solace, ma l’elmo, il mantello e i guanti erano di un blu cupo bordato di nero e la luce strappò un bagliore alle scaglie azzurre rimaste attaccate ai calzoni di cuoio e agli stivali neri.

    Il cavaliere di un drago azzurro.

    Era fin dai tempi della guerra che a Solace non si vedeva più una persona del genere, e a ragion veduta. Se fosse stata scorta alla luce del sole quella donna sarebbe stata lapidata oppure, nel migliore dei casi, arrestata, perché anche se erano ormai trascorsi venticinque anni dalla fine della guerra, la gente di Solace ricordava ancora con chiarezza i draghi azzurri che avevano bruciato e raso al suolo la città, uccidendo molti dei suoi abitanti, così come c’erano molti veterani che avevano combattuto nella Guerra delle Lance… Caramon e Tika fra essi… e che ricordavano con odio i draghi azzurri e i loro cavalieri, servitori della Regina delle Tenebre.

    Gli occhi annidati nell’ombra dell’elmo blu incontrarono con fermezza lo sguardo di Caramon.

    «Hai una stanza per la notte, locandiere? Ho viaggiato a lungo e sono molto stanca.»

    La voce che giungeva da dietro la maschera suonava malinconica e stanca… e nervosa. Tenendosi nell’ombra che ammantava la porta, la donna rimase in attesa della risposta di Caramon e si guardò due volte alle spalle, scrutando non il terreno ma il cielo.

    Caramon si girò verso la moglie, perché Tika era abile nel giudicare il carattere delle persone – una qualità facile da sviluppare se, come lei, si amava la gente – e ottenne un rapido e brusco cenno del capo.

    Indietreggiando, Caramon segnalò al cavaliere di draghi di entrare. Dopo essersi data un’ultima occhiata alle spalle, la donna sgusciò in fretta all’interno badando a evitare di trovarsi esposta a una fonte di luce diretta. Nel chiudere la porta, Caramon non poté trattenersi dal dare lui stesso un’occhiata all’esterno.

    Fuori il cielo era intensamente illuminato perché la luna rossa e quella argento erano entrambe allo zenit e vicine fra loro, anche se meno di quanto lo sarebbero state fra qualche giorno; la luna nera era a sua volta in cielo da qualche parte… quella luna che soltanto quanti adoravano la Regina Oscura potevano vedere. Quei corpi celesti dominavano le tre forze del mondo: il bene, il male e l’equilibrio fra essi.

    Sbattendo con violenza la porta Caramon lasciò cadere la sbarra di traverso sui sostegni con un rumore che strappò un sussulto alla donna. Questa stava cercando di sganciare il fermaglio della spilla che teneva chiuso il suo mantello… un grosso monile di madreperla che emanava uno strano bagliore spettrale nel tenue chiarore della locanda rischiarata da candele… ma le mani le tremavano talmente che lasciò cadere la spilla per terra. Chinandosi, Caramon accennò a raccoglierla e la donna si mosse in fretta per impedirglielo, cercando di nascondere l’oggetto.

    Caramon però la fermò, accigliandosi.

    «Uno strano ornamento» commentò, aprendo a forza la mano della donna perché anche Tika potesse vedere la spilla. Adesso che aveva modo di osservarla bene, scoprì di provare avversione all’idea di toccarla. Tika sbirciò in direzione del monile e serrò le labbra, pensando che forse per una volta la sua infallibilità nel giudicare il carattere della gente le era venuta meno.

    «Un giglio nero» commentò.

    Il giglio nero è un cereo fiore nero con quattro petali appuntiti e un centro rosso come il sangue, e nelle leggende elfiche si sostiene che esso cresca sulla tomba di quanti hanno incontrato una morte violenta, così come si dice che cresca dal cuore della vittima di un assassinio e che se lo si coglie il suo stelo sanguini.

    La donna ritrasse la mano di scatto e tornò a nascondere la spilla in mezzo al folto pelo nero che bordava il suo mantello.

    «Dove hai lasciato il tuo drago?» volle sapere Caramon, cupo in volto.

    «È nascosto in una valle non lontano da qui, locandiere, e non c’è bisogno che ti preoccupi perché è sotto il mio controllo e mi è completamente fedele. Non farà del male a nessuno.» Nel parlare la donna si sfilò l’elmo di cuoio blu che aveva indossato per proteggersi il volto durante il volo. «Ti do la mia parola.»

    Non appena rimosso l’elmo, lo spaventoso e formidabile cavaliere di draghi scomparve per lasciare al proprio posto una donna più o meno di mezz’età, anche se era difficile determinarne gli anni a prima vista, in quanto il suo volto era segnato più dal dolore che dall’età e il grigio dei capelli intrecciati sembrava prematuro. Gli occhi non erano quelli crudeli, duri e spietati di coloro che servono Takhisis, ma apparivano invece gentili, tristi e… spaventati.

    «Noi ti crediamo, mia signora» garantì Tika, scoccando al marito silenzioso un’occhiata piena di sfida che a essere onesti non meritava. Caramon era sempre lento a reagire, non perché fosse poco intelligente (cosa che perfino i suoi migliori amici avevano un tempo creduto di lui, quando era giovane) ma perché esaminava ogni evento nuovo o insolito da ogni possibile angolazione, una riflessione che spesso lo faceva apparire ottuso e che di frequente irritava i più pronti di mente fra i suoi compagni (compresa sua moglie). Caramon però rifiutava di lasciarsi mettere fretta e con il suo modo di fare giungeva di frequente a conclusioni di una profondità stupefacente.

    «Stai tremando, mia signora» aggiunse Tika, mentre suo marito restava immobile con lo sguardo fisso nel nulla; sapendo che questo significava che la sua mente si era messa al lavoro, Tika preferì ignorarlo e trasse la donna più vicina al focolare. «Siediti qui mentre attizzo il fuoco. Vuoi un po’ di cibo caldo? Mi ci vorrà soltanto un momento ad alimentare il fuoco della cucina…»

    «No, ti ringrazio ma non ti devi disturbare ad attizzare il fuoco. Non è il freddo che mi fa tremare.» La donna pronunciò quelle ultime parole in tono sommesso, abbandonandosi sulla panca più che sedendo su di essa.

    «Cos’hai che non va, mia signora?» domandò Tika, lasciando cadere l’attizzatoio che stava usando per ravvivare la fiamma. «Sei fuggita da qualche spaventosa prigione, non è così? E ti stanno inseguendo.»

    La donna sollevò la testa a fissarla con espressione meravigliata, poi esibì un pallido sorriso.

    «Hai quasi colpito nel segno. La mia faccia rivela dunque così tante cose?» ribatté, accostando una mano tremante al volto segnato e spento.

    «Marito, dov’è la tua spada?» chiamò Tika, alzandosi in piedi con fare deciso.

    «Eh? Cosa? La spada?» Strappato di colpo ai suoi pensieri, Caramon sollevò la testa di scatto.

    «Andremo a svegliare lo sceriffo e convocheremo la milizia cittadina. Non ti preoccupare, mia signora» garantì Tika, che era ora intenta a slacciarsi il grembiule, «non ti riprenderanno…»

    «Aspetta! No!» esclamò la donna, che pareva più spaventata da tutta quell’attività per il suo bene di quanto lo fosse del pericolo che la minacciava, quale che potesse essere la sua natura.

    «Fermati un momento, Tika, e calmati» intervenne Caramon, posando una mano sulla spalla della moglie… e quando lui parlava con quel tono la cocciuta Tika gli dava sempre ascolto. Caramon si volse quindi verso la donna, che era balzata in piedi con espressione allarmata. «Non ti preoccupare, mia signora. Non diremo a nessuno che sei qui finché non ci chiederai di farlo.»

    Con un sospiro di sollievo la donna si lasciò ricadere sulla panca.

    «Ma, caro…» cominciò Tika.

    «Questa donna è venuta qui con uno scopo» la interruppe Caramon. «Non si è fermata alla locanda soltanto per avere una stanza, è venuta per rintracciare qualcuno che vive a Solace. Inoltre non credo che sia fuggita da un luogo malvagio, ma che lo abbia lasciato liberamente» aggiunse con voce cupa. «E credo che quando se ne andrà di qui vi farà ritorno… altrettanto liberamente.»

    La donna fu scossa da un brivido, poi incurvò le spalle e chinò il capo.

    «Hai ragione. Sono venuta a Solace per cercare qualcuno, ed essendo un locandiere tu dovresti sapere dove posso trovare quest’uomo. Gli devo parlare stanotte stessa, perché non oso fermarmi troppo. Il tempo… si sta esaurendo» concluse, torcendosi le dita avvolte nei guanti blu.

    Caramon allungò la mano verso il proprio mantello, appeso a un piolo dietro il bancone. «Chi è quest’uomo? Dimmi il suo nome ed io andrò a chiamarlo. Conosco tutti coloro che vivono a Solace…»

    «Aspetta un momento» lo fermò Tika, sempre prudente, poi chiese alla donna: «Cosa vuoi da quest’uomo?»

    «Ti posso dire il suo nome, ma non per quale motivo voglio vederlo, più per il suo bene che per il mio.»

    «Questo farà ricadere anche su di lui il genere di pericolo in cui tu ti trovi?» domandò Caramon, accigliandosi.

    «Non posso dirlo!» esclamò la donna, evitando di guardarlo. «È possibile che venga esposto al pericolo. Me ne dispiace, ma…»

    «Non posso svegliare un uomo nel bel mezzo della notte per condurlo incontro a quella che potrebbe essere la sua morte…» cominciò Caramon, scuotendo il capo.

    La donna lo fissò con espressione angosciata.

    «Avrei potuto mentirvi, avrei potuto dirvi che sarebbe andato tutto per il meglio, ma non posso sapere se sarà così. So soltanto che custodisco un terribile segreto e che lo devo condividere con la sola persona vivente che abbia il diritto di conoscerlo!» Protendendosi, afferrò la mano di Caramon e aggiunse: «È in gioco una vita. No, signore, più che una vita, un’anima!»

    «Non spetta a noi giudicare, mio caro» osservò Tika. «Quest’uomo, chiunque sia, dovrà decidere da solo.»

    «Molto bene, allora andrò a prenderlo. Come si chiama?» domandò Caramon, gettandosi il mantello sulle spalle.

    «Majere» rispose la donna. «Caramon Majere.»

    «Caramon!» ripeté questi, stupefatto.

    La donna scambiò il suo stupore per riluttanza.

    «So che sto chiedendo l’impossibile. Caramon Majere, uno degli Eroi delle Lance, uno dei più famosi guerrieri di Ansalon… che mai potrebbe avere a che fare con una come me? Se però non volesse venire digli…» La donna fece una pausa, riflettendo su come formulare il messaggio. «Digli che sono venuta qui per via di sua sorella.»

    «Sua sorella!» Caramon si accasciò contro la parete con un tonfo che fece tremare la locanda.

    «Che Paladine ci aiuti!» esclamò intanto Tika, serrando le mani una nell’altra. «Non… Kitiara?»

    2.

    Il figlio di Kitiara

    Caramon si liberò del mantello con l’intenzione di riappenderlo al piolo, ma lo mancò e l’indumento scivolò al suolo senza che lui si prendesse il disturbo di raccoglierlo, mentre la donna lo fissava con crescente sospetto.

    «Perché non stai andando a prendere quest’uomo?»

    «Perché lo hai già trovato. Caramon Majere sono io.» La donna parve stupita e poi manifestamente dubbiosa.

    «Puoi chiedere conferma a chiunque» aggiunse con semplicità Caramon, agitando una mano a indicare la locanda e l’abitato al di là di essa. «Cosa ci guadagnerei a mentire?» Poi arrossì, si batté un colpetto sull’ampio ventre e scrollò le spalle. «So che posso non avere l’aspetto di un eroe…»

    All’improvviso la donna sorrise, un’espressione che la fece apparire più giovane. «Mi aspettavo un grande signore, ma sono contenta che tu non lo sia, perché le cose saranno… più facili.» Per un momento scrutò attentamente Caramon, quindi commentò: «Ora che ti guardo mi accorgo che avrei dovuto riconoscerti perché sei come lei ti ha descritto: Un uomo grosso, più muscoli che cervello e sempre intento a pensare a come procurarsi il pasto successivo. Ti chiedo scusa, signore, ma queste sono parole di Kitiara, non mie.»

    «Suppongo tu sappia, mia signora, che mia sorella… o forse dovrei dire la mia sorellastra… è morta» ribatté Caramon, incupendosi in volto. «E di certo saprai che Kitiara era una Signora dei Draghi, alleata alla Regina delle Tenebre. Perché avrebbe dovuto dirti qualcosa sul mio conto? Suppongo che un tempo potesse essere affezionata a me, ma se ne è dimenticata molto presto.»

    «So meglio della maggior parte della gente come fosse Kitiara» replicò la donna, con un sospiro. «Vedi, lei ha vissuto con me per parecchi mesi, circa cinque anni prima della guerra. Vuoi però sentire la mia storia dall’inizio? Ho viaggiato per molte centinaia di chilometri per trovarti, correndo un grave pericolo.»

    «Forse dovremmo aspettare domattina…»

    «No, non oso» interruppe la donna, scuotendo il capo. «Per me sarà più sicuro mettermi in viaggio prima dell’alba. Vuoi sentire la mia storia? Se deciderai di non credermi… allora ti lascerò in pace» concluse, scrollando le spalle.

    «Vado a preparare un po’ di tè tarbeano» decise Tika, e si avviò verso la cucina dopo aver posato per un momento una mano sulla spalla massiccia del marito, per invitarlo ad ascoltare.

    «Molto bene» acconsentì Caramon, sedendosi pesantemente. «Come ti chiami, mia signora? Sempre che non ti secchi che te lo chieda.»

    «Sara Dunstan. Abito… o per meglio dire abitavo… a Solamnia, ed è stato là, in un piccolo villaggio non lontano da Palanthas, che ha avuto inizio la mia storia.

    «A quell’epoca avevo all’incirca vent’anni e vivevo sola in una capanna che era appartenuta ai miei genitori, morti entrambi di peste alcuni anni prima. Anch’io l’avevo contratta, ma ero stata uno dei pochi fortunati che erano sopravvissuti. A quel tempo mi guadagnavo da vivere come tessitrice, un’arte che avevo appreso da mia madre, ed ero una zitella. Oh, avevo avuto l’occasione di sposarmi, quando ero giovane, ma avevo respinto i miei pretendenti. La gente del posto diceva che ero troppo schizzinosa, ma la verità era che non avevo trovato nessuno che potessi amare e non ero disposta ad accettare di meno.

    «Non ero particolarmente felice, e del resto pochi lo erano in quei duri tempi precedenti la guerra. Non sapevamo ancora cosa ci aspettava, altrimenti ci saremmo considerati più che fortunati.»

    Nel parlare Sara afferrò un boccale di tè. Prendendo posto accanto al marito, Tika gli porse il suo boccale di tè che Caramon prese e subito posò, dimenticandosi della sua esistenza.

    «Continua, mia signora» incitò, cupo in volto.

    «Non mi dovresti chiamare così, perché non sono una dama, non lo sono mai stata. Come ho detto, ero una tessitrice. Un giorno, stavo lavorando al telaio, nella mia casa, quando bussarono alla porta. Nel guardare fuori credetti in un primo tempo che quello che si trovava sulla mia soglia fosse un uomo, ma poi mi resi conto che si trattava di una giovane donna che portava un’armatura di cuoio. Come un uomo, aveva indosso la spada e i suoi capelli neri avevano un taglio corto e maschile.»

    Tika lanciò un’occhiata a Caramon per vedere la sua reazione, perché quella descrizione corrispondeva perfettamente all’aspetto di Kitiara, ma lui rimase assolutamente inespressivo in volto.

    «La donna accennò a chiedermi qualcosa… credo volesse dell’acqua… ma prima di poter dire una sola parola crollò svenuta ai miei piedi.

    «La portai subito in casa perché mi accorsi che stava molto male, e mi precipitai dalla vecchia druida che era la guaritrice del villaggio. Quello era il tempo antecedente al ritorno fra noi dei chierici di Mishakal, ma la guaritrice era abile nel suo mestiere e aveva salvato parecchie vite… forse fu questo il motivo per cui noi poi non ci lasciammo incantare dai falsi chierici e dai loro trucchi.

    «Quando fui di ritorno con la vecchia scoprii che la donna… disse che il suo nome era Kitiara… aveva ripreso conoscenza e stava cercando di alzarsi dal letto, ma era troppo debole per farlo. La vecchia la esaminò, poi le intimò di sdraiarsi e di restare a letto.

    «Sai benissimo che non si tratta di una febbre le disse. Aspetti un figlio, e se non resterai sdraiata e a riposo lo perderai.»

    Caramon sbiancò in volto, come se tutto il sangue gli fosse defluito precipitosamente dal viso. Pallida a sua volta, Tika si costrinse a posare il boccale di tè per timore di poterlo rovesciare, poi si protese a prendere la mano di Caramon, che con gratitudine serrò la sua in una morsa schiacciante.

    «Io voglio perdere questo dannato marmocchio! esplose Kitiara, mettendosi a imprecare selvaggiamente… non avevo mai sentito una donna parlare in quel modo e dire cose così orribili» proseguì Sara, con un brivido. «Ascoltarla era spaventoso, ma la vecchia guaritrice non ne fu minimamente turbata.

    «Certo, perderai il bambino, ma al tempo stesso perderai anche te stessa. Se non starai attenta, morirai.»

    «Kitiara borbottò qualcosa in merito al fatto che non era disposta a credere a una stupida vecchia sdentata, ma io mi accorsi che era spaventata… forse perché si sentiva tanto debole e malata. La druida avrebbe voluto farla portare nella propria casa, ma io rifiutai e garantii che mi sarei presa cura di lei. Forse penserai che sia stata una cosa strana da parte mia, ma mi sentivo sola e… in tua sorella c’era qualcosa che ammiravo.»

    Caramon si limitò a scuotere il capo, sempre più cupo in viso.

    «Era così forte e indipendente» sorrise Sara, scrollando il capo. «Era ciò che io sarei stata se avessi avuto abbastanza coraggio. Così rimase presso di me. Stava molto male a causa di una febbre, del genere che si contrae nelle paludi, e si agitava di continuo per via del bambino. Era evidente che non lo voleva, e la sua ira per il fatto di essere incinta non le era di nessun aiuto.

    «Io la curai per tutto il tempo in cui ebbe la febbre, un mese o forse anche di più. Alla fine cominciò a migliorare e non perse il bambino, ma la febbre l’aveva lasciata molto debole… sai com’è… tanto che riusciva a stento a sollevare la testa dal cuscino. La prima cosa che chiese, quando si fu ristabilita, fu che la vecchia le somministrasse qualcosa per interrompere la gravidanza.

    «La druida le rispose che ormai era troppo tardi e che avrebbe ottenuto soltanto di uccidersi. La cosa non andò a genio a Kitiara, ma era troppo debole per discutere e per fare qualsiasi cosa. Da quel momento cominciò però a contare i giorni che mancavano alla nascita del bambino. Allora mi potrò liberare di questo piccolo bastardo e ripartire era solita dire.»

    Caramon emise un suono soffocato, deglutì a fatica e assunse un aspetto severo, mentre Tika gli stringeva la mano.

    «Quando giunse il momento del parto» continuò Sara «Kitiara aveva ormai ritrovato le forze e questo fu un bene, perché il travaglio fu difficile e si protrasse per due giorni; il bambino risultò essere un maschio forte e sano, ma sfortunatamente non si poteva dire lo stesso di Kitiara a cui la guaritrice (che non l’aveva in simpatia) comunicò senza mezzi termini che probabilmente sarebbe morta e che avrebbe fatto quindi meglio a rivelare a qualcuno chi fosse il padre del bambino, in modo da permettergli di venire a reclamare il proprio figlio.

    «Nel corso di quella notte in cui si trovava prossima alla morte, Kitiara mi confidò il nome del padre del bambino e tutte le circostanze connesse al suo concepimento, ma proprio a causa di quelle circostanze e dell’identità dell’uomo mi fece anche giurare di non informarlo.

    «Al riguardo fu addirittura veemente e mi impose un giuramento spaventoso, sulla memoria di mia madre. Porta il bambino dai miei fratelli mi disse. Si chiamano Caramon e Raistlin Majere e lo alleveranno perché diventi un grande guerriero, soprattutto Caramon, che è un ottimo combattente. Lo so perché gli ho insegnato io ogni cosa.

    «Glielo promisi, ma del resto le avrei promesso qualsiasi cosa perché mi dispiaceva terribilmente per lei… era così debole e depressa che ero certa che sarebbe morta. C’è qualcosa che posso portare ai tuoi fratelli per convincerli che il bambino è tuo? Altrimenti, per quale motivo dovrebbero mai credermi? le chiesi. Hai qualche gioiello che potrebbero riconoscere?

    «Non ho gioielli. Tutto ciò che posseggo è la mia spada. Portala a Caramon e lui la riconoscerà. E digli… digli…» A quel punto Kitiara lasciò vagare debolmente lo sguardo per la stanza e lo posò sul bambino, che stava strillando energicamente nella sua culla, vicino al fuoco.

    «Il mio fratello più piccolo era solito piangere in quel modo sussurrò. Raistlin era sempre malaticcio, e quando piangeva Caramon cercava di distrarlo con i suoi scherzi, creando ombre con le mani, in questo modo. Nel parlare sollevò la mano… poveretta, era il massimo che le riusciva di fare… e formò con le dita la testa di un coniglio, in questo modo, aggiungendo: E poi Caramon diceva: ‘Guarda, Raist, un coniglio.’»

    Con un profondo gemito, Caramon si nascose il volto fra le mani e Tika si affrettò a circondargli le spalle con un braccio, mormorandogli qualcosa.

    «Mi dispiace» si scusò Sara, preoccupata. «Non ho pensato a quanto tutto questo debba essere terribile per te. Non intendevo sconvolgerti, volevo soltanto dimostrare…»

    «È tutto a posto, mia signora» replicò Caramon, risollevando il volto che appariva teso ma composto. «A volte i ricordi sono difficili da sopportare, soprattutto quando giungono… in questo modo. Adesso però ti credo, Sara Dunstan, e mi dispiace di non averlo fatto prima. Soltanto Kit oppure… oppure Raist… potevano conoscere questo particolare.»

    «Non c’è bisogno che ti scusi» replicò Sara, bevendo un sorso di tè e stringendo poi le mani intorno al boccale, come per scaldarle. «Naturalmente Kitiara non morì. Incredula, la vecchia guaritrice dichiarò che quella donna doveva aver stretto un patto con Takhisis, una cosa a cui ho pensato spesso in seguito, quando ho appreso che Kitiara era stata responsabile della morte di tante persone. Aveva forse promesso quelle anime alla Regina Oscura in cambio della propria? È stato per questo che Takhisis l’ha lasciata vivere?»

    «Che supposizione spaventosa!» rabbrividì Tika.

    «Non è una supposizione» precisò Sara. «L’ho visto fare.» Rimase quindi in silenzio per lunghi momenti mentre Caramon e Tika la fissavano con espressione inorridita, vedendola ora di nuovo così come l’avevano vista quando era entrata, con indosso l’elmo simbolo di malvagità e la spilla con l’emblema del giglio nero.

    «Hai detto che il bambino è vissuto» osservò infine Caramon. «Suppongo che Kit lo abbia abbandonato.»

    «Sì» confermò Sara, riprendendo la propria narrazione. «Ben presto Kitiara fu abbastanza in forze da viaggiare, ma durante la convalescenza si era affezionata al figlio, che era un bambino intelligente e ben formato. Non posso tenerlo mi disse perché stanno per succedere cose di grande importanza. Ci sono eserciti che si stanno radunando nel nord ed io intendo guadagnarmi una fortuna con la mia spada. Trovagli una buona casa ed io manderò del denaro per il suo sostentamento; quando poi sarà abbastanza grande da poter venire in guerra con me tornerò a prenderlo.»

    «Come mi devo regolare con i tuoi fratelli? provai a domandare.

    «Lei mi si rivoltò contro come una furia e mi ingiunse di dimenticare che avesse mai detto di avere dei parenti, di dimenticare tutto ciò che mi aveva raccontato e in particolare quanto concerneva il padre del bambino.»

    «Acconsentii, e poi le chiesi se potevo tenere io il piccolo» proseguì Sara, rossa in volto e con lo sguardo fisso sul fuoco. «Mi sentivo così sola, e avevo sempre desiderato un bambino tutto mio, quindi mi pareva che gli dèi… se esistono… avessero risposto alle mie preghiere.»

    «Kitiara approvò l’idea perché aveva cominciato a fidarsi di me… credo mi trovasse anche un po’ simpatica, nella misura in cui poteva riuscirle simpatica qualsiasi altra donna… e garantì che mi avrebbe mandato del denaro ogni volta che le fosse stato possibile; io replicai che non m’importava perché potevo mantenere me stessa e il piccolo, e promisi che le avrei scritto delle lettere per tenerla informata delle condizioni del bambino. Quando fu pronta a partire, Kitiara baciò il figlio e me lo mise fra le braccia.»

    «Come vuoi che lo chiami? le chiesi, e lei mi rispose che dovevo chiamarlo Steel¹… lo disse ridendo, perché era una specie di scherzo, se si considera il cognome del bambino.»

    «Che dovrebbe essere Mezzelfo» borbottò Caramon, rivolto a Tika. «Non mi sembra granché come scherzo, se non a spese del povero Tanis. Tutti questi anni, e non lo ha mai saputo» concluse, scuotendo il capo con aria cupa.

    «Zitto! Non puoi asserirlo con certezza» sussurrò di rimando Tika.

    «Cosa?» chiese Sara, che aveva sentito in parte quelle parole sommesse. «Cosa state dicendo?»

    «Mi dispiace, ma non vedo nessuno scherzo riguardo al nome del bambino» spiegò Caramon. «Dopo

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