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Il periodo ipotetico
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E-book627 pagine9 ore

Il periodo ipotetico

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Info su questo ebook

Divampa una rivolta in Francia. Insorgono i nuovi miserabili. 
Dalle banlieue al cuore delle città l’urto si propaga. Sconvolge economia, frontiere, finanza e istituzioni. Tremendo il contraccolpo per l’Italia, vertiginoso il tracollo. Lo Stato scalcia, vacilla e schianta nel volgere di un’estate. L’ultima, in tempo di pace.
Sgretolamento, frantumazione, apnea dell’ordinario… 
Ma è quando i vincoli sociali si allentano, che affiorano le vite.
Pinti ne afferra sette. Sette traiettorie emblematiche come carte dei tarocchi, allo stesso modo ambigue, irripetibili, contraddittorie. Le mescola in una trama di rimandi e corrispondenze, le accarezza con una scrittura capace di trattenere, da ogni gesto e da ogni pensiero, una particolare luce. 
Sempre fraterna, a tratti ironica, mai giudicante.
Che sia un viaggio con lo zaino in spalla o una crisi di governo, una guerriglia urbana o una capriola tra le foglie, ogni pagina schiude un orizzonte dov’è lo spazio intimo a scavare nel politico, di fenditura in fenditura, fino a svuotare molte delle parole con cui la civiltà si ostina a raccontare se stessa.  
Un romanzo di stirpe nuova, barbarico e delicato. 
Una sinfonia picaresca, a strapiombo sul caos.
Una nicchia per creature selvatiche, nell’ora incerta del tramonto.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2022
ISBN9791221317107
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    Anteprima del libro

    Il periodo ipotetico - Marco Pinti

    VENERDÌ 13 LUGLIO

    Il sentiero s’inerpicava tra le rocce a picco sul mare.

    Ripido, a tratti esposto, ovunque malsicuro. Evocava l’idea di un procedere incerto, ma ostinato.

    Una volta a mezzacosta serpeggiava lungo l’intero profilo della scogliera, tra i radi arbusti spazzati dal vento, disegnando a filo del precipizio un’ellisse ampia e perfetta, da anfiteatro.

    Nel mezzo una vena rossastra impastava la terra battuta, poco prima di un segno più netto, come di strappo. Strappo e trascinamento. Poi la chiazza dilagava, densa e oscura, in cupa espansione quasi sorgesse direttamente dal suolo.

    Fa’ presto, sembravano dire gli occhi della giovane lepre ghiacciati nell’ultimo spasmo, appena il morso perforò la pelliccia fino alla carne. Fino alla fragile vertebra del collo.

    Lugubre lo scricchiolio nella tenaglia dei denti, un attimo prima che la volpe allentasse la presa per sollevare il muso insanguinato.

    Saettanti occhi d’ambra, lampi brevi e definitivi a scandagliare il circostante. Orecchie in allerta verso il minimo crepitare dei rami tra i rami.

    Fremente il naso setacciava nell’aria molecole di sale e di maggiorana.

    Immobile, per un po’ rimase immobile. Il pelo intirizzito, la coda in tensione, come in attesa di qualcosa, forse un segnale che confermasse la piena maestà della sua vittoria. Attimi sospesi, indecifrabili. Frammenti di un ordine antico a cui ogni cosa viva si sottometteva di buon grado, rispettando in silenzio l’implicita tregua, almeno finché il vento non iniziò a ricoprire con una coltre sottile le tracce della battaglia.

    Quando anche i grilli ripresero a cantare, la volpe tornò a chinarsi sulla preda.

    Stavolta la strinse di una forza misurata, affine alla tenerezza. Non la stessa che riservava ai suoi cuccioli quando si allontanavano dalla tana, ma comunque tenerezza. E chi l’avesse vista allontanarsi lungo il sentiero con la lepre a penzoloni, d’istinto avrebbe pensato che tra loro ci fosse una specie di accordo. Un patto di clemenza e rispetto, non troppo dissimile da ciò che gli umani chiamano pietà. Animale era invece la fame. La fame di tre giorni che l’aveva spinta a sconfinare la caccia notturna fino a mattino inoltrato, pur di rimediare all’urgenza di chi la stava aspettando. Ormai non mancava molto, la confortò il fiuto che già intercettava una scia familiare, ma gli scossoni della marcia accidentata la costrinsero a fermarsi ancora, in un punto che pareva una terrazza affacciata sulla spiaggia sottostante. Di nuovo depose a terra la lepre. Di nuovo protese le orecchie, roteò gli occhi e il nero bottone del naso inspirò con forza in direzione dell’incomprensibile.

    Il mare. Immensità preclusa alla caccia e dunque inutile, al pari del cielo dove un gabbiano stava volando in circolo sopra di lei.

    Il mare. Per la volpe soltanto una gigantesca pozzanghera di acqua malata, al punto che stava già per riprendere la sua strada con la lepre tra i denti, quando di scatto reclinò il collo di lato, nell’inequivocabile posa dello stupore.

    Per primo l’istinto misurò la potenziale minaccia, ma subito si quietò. Nessuna minaccia: era troppo distante. Allora toccò alla memoria associare la forma all’esperienza, ma l’immagine sfumava nel riverbero del sole sulle onde. Lo stesso, con brama e timore, lo sguardo della volpe saettò giù per la scogliera, dalla scogliera alla spiaggia, dalla spiaggia al bagnasciuga, fino a fissarsi sulla creatura in controluce.

    Arrampicava uno sperone di roccia circondato dall’acqua, laggiù. Si muoveva con leggerezza, libera da esitazioni, fino allo strappo improvviso con cui conquistò la sommità dello scoglio.

    A quel punto, la creatura sollevò entrambe le braccia verso il cielo in un gesto carico, troppo carico di energia, tanto che finì per sbilanciarsi e appena in tempo si riportò in equilibrio con uno scossone.

    Ritrovato il baricentro, i piedi nudi assestarono la presa sulla roccia, permettendo al resto del corpo, al giovane corpo di una giovane donna, di mantenere la posizione.

    Eccoci qui, Valentina. Pensò la creatura, chiamandosi per nome come spesso faceva quando temeva di ficcarsi nei guai.

    Eccoci qui, Valentina. Ripeté a se stessa, mentre il vento accompagnava le onde, una dopo l’altra, a infrangersi poco sotto di lei.

    Di tanto in tanto la marea cresceva, gli schizzi le raggiungevano i piedi, le ginocchia, qualcuno più in alto, l’ombelico, le labbra. E l’orlo della spuma, d’una eleganza suprema, aveva ogni volta la nitidezza di un’apparizione. Ardita e imprevedibile.

    Ora sorrideva Valentina, cos’altro fare, cos’altro chiedere.

    Scartata la tentazione di tuffarsi, lo scoglio era troppo basso, si accontentava che fosse abbastanza isolato da sembrarle soltanto suo.

    «A-A-bbronzatissima…» prese a canticchiare tra sé, a un certo punto. Le parole della canzone accompagnate dal dondolio del collo, mentre il solletico del vento punteggiava di brividi la schiena nuda. Poi il soffio virò dispettoso, a spettinarla di profilo. Ma Valentina non reagì, concentrata com’era nel tentativo di accordare il suo respiro a quello del mare.

    Nel frattempo, gli occhi cercavano intorno qualcosa di bello, il dettaglio da trattenere in un punto prezioso della memoria, a cui ripensare quando la vita sarebbe tornata la vita di sempre. Con i suoi autunni, i suoi inverni, le piogge, le cose da fare, le scadenze, la noia, l’università, i maledettissimi esami.

    Per allontanarne il pensiero si concentrò sull’unica nuvola, bianca, bianchissima e solitaria nel cielo. Dapprima ci intravide un coniglio, poi una specie di aquilone, poi un veliero appena abbozzato nelle forme tondeggianti che si rimescolavano lente, lungo la tavolozza dell’orizzonte. E là in fondo c’era in effetti una barca, una vera barca, la vela spuntava dal blu più intenso come disegnata. Era bella, ma troppo lontana per catturarla con lo sguardo, così l’attenzione della ragazza finì a inseguire i banchi di pesciolini che dragavano le acque basse attorno allo scoglio.

    Stava giusto valutando di sedersi, nonostante la sporgenza fosse a malapena sufficiente per i piedi, quando la più stupida delle idee s’incaricò di rovinarle l’incanto.

    Una foto. Farsi fare una foto. Subito.

    Sapeva che non sarebbe mai venuta come la stava immaginando, che sarebbe stato necessario sbracciarsi, probabilmente gridare, per richiamare l’attenzione dell’amica rimasta a prendere il sole sulla spiaggia. Ma per quanto la vocina dentro di lei brontolasse tutte queste buone ragioni, la smania social aveva già preso il sopravvento e Valentina iniziò ad agitare le mani in direzione di Chiara.

    Giacomo si era liberato dello zaino con un unico gesto, rovinoso e sgraziato. Un gesto da disertore. Poi si era accasciato a terra, la schiena contro il tronco del grande albero e gli occhi al cielo, mentre sfiatavano a fatica, una dopo l’altra, le parole della capitolazione.

    «Io basta, io mi fermo qui» sospirò, l’affanno quasi a coprire il suono della voce.

    «Io mi fermo qui per sempre» ripeté prima di attaccarsi alla borraccia con la dolcezza di chi, dopo una lunga lotta, si concede la grazia di darsi per vinto.

    Un sorso, due, il terzo più avido. Pausa. Quarto. Un rigagnolo sfuggito alle labbra gli gocciolò dal mento. Pausa.

    Ansante roteò gli occhi intorno, quasi a misurare in lunghezza, giù fino all’orizzonte, lo sterrato che tagliava a metà i campi di grano, prima di fissare lo sguardo su Francesca… in piedi, silenziosa, a pochi passi da lui.

    Fino a quel momento lei si era limitata a esaminare la consistenza della crisi. Forse il fratello non stava scherzando: paonazzo com’era, sudato, sconvolto. In effetti, poteva benissimo essere prossimo a un colpo di calore. Ma le bastò incrociarne lo sguardo per capire che era tutta una sceneggiata. Una sceneggiata per costringerla a fare una sosta. L’ennesima sosta.

    Solo che proprio non potevano permettersela, pensò. Non in quel momento. Davanti avevano ancora dodici chilometri e nonostante il motto del viaggio fosse che a piedi nessun posto è lontano, mancavano almeno tre ore per arrivare a fine tappa. Quattro, se si fossero fermati all’ombra di ogni albero.

    Così, provò a smuoverlo.

    «Dai bagolone, alzati che siamo quasi arrivati.»

    «Quasi arrivati, siam quasi arrivati dice questa qua» il borbottio come di pentola sul fuoco, «quasi arrivati…» ripeté Giacomo tra sé, con lo sguardo basso di chi ha perso qualcosa nell’erba, prima di contrattaccare.

    «Com’è che saranno due ore che secondo te siamo quasi arrivati?»

    La frecciata arrivò improvvisa, ruvida nel tono appena temperato dal sarcasmo.

    «Adesso io mi alzo soltanto se tu mi rispieghi bene, ma bene, bene, bene, perché anziché fare delle vacanze come le persone normali, che si va al mare col pedalò e il gelato e tutto… Ecco, perché invece noi adesso siamo qui, in questo… in questo…» Giacomo roteò gli occhi come se la parola che cercava fosse uno dei moschini che gli ronzavano intorno.

    «In questo nulla!» sbottò infine, mentre in qualche modo si rimetteva in piedi.

    Dal canto suo, Francesca sorrise. Apertamente sorrise per la naturalezza con cui il fratello aveva appena infranto il suo stesso ultimatum, quello di non rialzarsi finché lei eccetera, eccetera. Comunque, missione compiuta. Scongiurata la pausa, ora si trattava solo di sopportare qualche altra lagnanza sul caldo, sulla strada, su quanto mancava davvero, almeno finché la prossima salita non avrebbe spezzato il fiato a entrambi, riconsegnando ai grilli, ai corvi e alle poche, lontane automobili, il privilegio di scalfire il silenzio dei campi intorno a loro.

    L’idea del viaggio, come sempre, l’aveva avuta lei.

    Partire a piedi dalla casa di Fornovo e da lì percorrere la versione italiana del Cammino di Santiago, la via Francigena attraverso Emilia, Toscana e Lazio fino a Roma.

    Giacomo aveva accettato.

    «Quello che vuoi» aveva detto come a darle corda, poco convinto che la sorella sarebbe riuscita a superare l’ostacolo degli ostacoli.

    «Pur di non restare a casa con la mamma, quello che vuoi. A proposito, glielo dici tu.»

    Cosa poi si fossero dette le due donne di casa non era dato sapere, ma alla fine partire erano davvero partiti. E senza obiezioni.

    La faccenda aveva dell’inspiegabile, anche perché da quando era successo quel che era successo, Cinzia, così si chiamava la madre, aveva rovesciato sui due figli un attaccamento sempre più morboso. Di punto in bianco, Giacomo si era ritrovato a contrattare per ogni uscita di casa, per ogni spazio di libertà, neanche fosse un ragazzino. In più, c’erano da sopportare i commenti sul modo di vestire, su come sedeva a tavola, sui turni al lavoro, sulle sue avventure sentimentali liquidate dalla madre come relazioni saponetta.

    Francesca tutto questo se lo era risparmiato per una semplicissima ragione: era partita. Colombia, progetto di volontariato internazionale. Dieci lunghi mesi dall’altra parte del mondo, dove tra fusi orari e linee ballerine si erano sentiti pochissime volte. Una chiamata Skype a Natale e una a Pasqua. Altrimenti, via mail. Cinzia gliene spediva una ogni santo giorno, in un crescendo di ansie quando la risposta si faceva troppo attendere, cioè, secondo i suoi canoni, praticamente sempre. Allora, la donna finiva per sfogare tutte le preoccupazioni sul figlio rimasto che, di tanto in tanto, veniva costretto a mettere mano alla tastiera.

    Oggi la mamma dice che forse ti hanno rapita – STOP – ignoti i responsabili – STOP – spero non cannibali – STOP – non risarciremo danni – STOP – in caso di intossicazione – STOP.

    In realtà Giacomo avrebbe preferito ricambiare i silenzi della sorella con altrettanti silenzi, come parte di un unico codice cifrato. Il più onesto per dimostrarle quanto fosse fiero di saperla là dove voleva essere.

    Perché Francesca, ai suoi occhi, era sempre stata una sorta di ebrea errante, una nomade, una rondine girovaga.

    Una latitante internazionale, secondo sua madre.

    Ce l’aveva messa tutta, Ettore.

    Era anche arrivato puntuale, per una volta.

    Preso posto in uno dei banchetti dell’aula, sfoderato dallo zaino il blocco per gli appunti con lo stemma della Camera dei Deputati, era pronto. Pronto ad ascoltare l’audizione in commissione del Ministro dell’Interno Cesare Serra.

    Si era ripromesso di restare attento, di seguire parola per parola, di non lasciarsi distrarre da niente.

    Ce l’aveva messa tutta, Ettore.

    Ma come al solito, dopo le prime battute la sua attenzione era scivolata altrove.

    La sigla C.A.S.A., unico scarabocchio rimasto sulla carta intestata.

    Del resto, niente.

    Il Ministro parlava, parlava, parlava e lui, proprio come ai tempi del liceo, si era lasciato risucchiare dal paesaggio idilliaco che con grande impegno aveva iniziato a disegnare a tutta pagina. Prima le tre dolci colline, senza mai staccare la penna, il sole appena sopra quella centrale, due nuvole in alto a sinistra e rondini stilizzate in volo verso l’angolo di destra.

    «Casa» mormorava tra sé il deputato del Nodo.

    Doveva trattarsi di una specie di tavolo di coordinamento per il contrasto al terrorismo o roba simile, ma non ricordava più come decifrare le singole lettere. C come Commissione, A per antiterrorismo, S – Sicurezza, ma A... a... a che cosa? si chiedeva, mentre con pazienza certosina riempiva di alberelli gli spazi bianchi.

    L’esponente del Governo intanto continuava a parlare, parlare, parlare. Più precisamente leggeva. Il suo tono monocorde faceva il paio col linguaggio lontano, oscuro e burocratico del documento. Era un intruglio di locuzioni al condizionale come: «… la cellula sarebbe da intestarsi al radicalismo internazionale…», scenari indefiniti dove «…potrebbero verificarsi le condizioni per l’emergere di turbamenti dell’ordine pubblico…», senza dimenticare l’elenco dei «rischi contenuti», ma comunque «da non sottovalutare», legati ai gruppuscoli eversivi censiti dai Servizi: dai neonazisti ai centri sociali, passando per una nuova setta composta di testimoni di Geova dissidenti.

    Terminati gli alberelli della prima collina, Ettore alzò lo sguardo per verificare se qualcuno stesse ancora seguendo la relazione.

    Praticamente nessuno.

    Il collega di fianco a lui, un ex-comunista sulla sessantina alla terza legislatura, scorreva le foto dei nipotini sul cellulare. Quando incrociarono gli sguardi inclinò appena lo schermo per mostrarglieli.

    «Tommaso e Nicola» mormorò con un filo di voce dietro al sorriso da gigante buono.

    Ettore ricambiò intenerito, prima di notare le due belle onorevoli dei partiti moderati sedute in fondo alla sala. Ricordava bene quanto si fossero scannate in ogni talk show durante la campagna elettorale, eppure a vederle ora sembravano due amichette alla festa delle medie, tutte prese a parlottare fitto fitto, con la mano davanti alla bocca. La complicità con cui ridacchiavano la diceva lunga, più di qualsiasi analisi politica, sul perché la loro alleanza di Governo, il cosiddetto Patto dei Responsabili tra progressisti e liberali, stesse reggendo dall’inizio della legislatura. Forse non c’entrava davvero l’Europa, pensava Ettore, né la stabilità dei mercati, tantomeno la retorica sull’arginare i populismi, così come forse sbagliava chi riduceva le larghe intese a una faccenda di mera spartizione di potere. Tutto questo certamente esisteva, come esisteva in carne e ossa Franco Guiscardi, la grigia figura del Premier, e non meno esistevano i suoi ministri, tra cui il tecnico Serra al Viminale, ma l’impressione di Ettore era che fossero soltanto i frutti più maturi, e visibili, di un albero che affondava le sue radici altrove. Così pensava, mentre distrattamente continuava la sua carrellata tra i banchi dell’aula. Dei deputati presenti, la maggior parte cazzeggiava sullo smartphone, qualcuno chiacchierava col vicino di posto, un paio scrivevano al computer, mentre altri fissavano il soffitto o si reggevano la testa tra le mani affranti dalla noia. Soltanto uno, seduto in prima fila, girava ancora le pagine del faldone in sincrono con il Ministro. Era Ottavio Persichetti, il secchione dei Comma 22.

    Ettore si fissò a guardarlo.

    Sembrava passata un’era geologica da quando Nodo e Comma avevano dato vita al cosiddetto Governo del Rinnovamento, invece non era trascorsa che una legislatura.

    A suo giudizio le due forze politiche se l’erano cavata abbastanza bene all’epoca, nessun miracolo, ma qualcosa avevano fatto. Poi, tutto era naufragato con la crisi di Governo e l’approvazione della legge elettorale denominata a buon diritto Papocchium. La stessa che nelle successive elezioni aveva riconsegnato il Paese alla vecchia guardia. A gente come il Ministro Serra che intanto continuava a ruminare imperterrito la sua liturgia, ora elogiando «... la costante opera di prevenzione in sinergia con le Prefetture e gli enti locali ...»

    Gli mancava solo il parruccone bianco in testa, perché la restaurazione fosse completa anche dal punto di vista estetico, ragionava Ettore, quando lo schermo del suo cellulare s’illuminò sul banchetto.

    Un messaggio.

    Matilde.

    Ciao, mio odorevole! Hai visto in Francia? Di seguito il link del lancio d’agenzia.

    Parigi, 13 luglio, 15:46 – BANLIEUE IN FIAMME: Si aggrava la rivolta nelle periferie di Parigi dopo che questa mattina in un blitz della polizia sono rimasti uccisi tre cittadini francesi di origine algerina. Segnalati gravi disordini in tutta la cintura urbana intorno alla capitale. Il sindaco ha invitato alla calma con un tweet.

    Bel casino digitò lui, comunque secondo me qui non frega niente a nessuno, aggiunse prima di premere invio.

    Davvero non ne state parlando?! rispose la moglie a stretto giro.

    Davvero...

    Ma allora di cosa parlate?

    Di quello che non succede.

    A zappare dovreste andare… tutti a zappare.

    Ettore tentò di placarla con una faccina sorridente, subito pentito di averla innescata.

    Funzionava come una molla, Matilde.

    Di solito se ne fregava della routine politica che impegnava il marito a Roma, ma di tanto in tanto s’incaponiva su qualcosa e allora iniziava la sua pressione a distanza tormentandolo di messaggini.

    Va be’ odorevole, fatti sentire appena hai finito di perdere tempo allora, love u (con due cuori).

    Ettore sperò di averla scampata.

    Love u (tre cuori) rispose sollevato, e tornò agli alberelli.

    Benché si trattasse di un disegno da poco, gli piaceva cercare di rispettare un minimo di proporzione, così le figure in primo piano avevano contorni più precisi nei tronchi, nelle radici e nelle fronde, mentre a mano a mano che procedeva a riempire la sommità delle colline si concedeva tratti schematici e approssimativi, quasi che per rendere al meglio l’immagine della foresta fosse necessario sacrificare quella del singolo albero. Era un paradosso che ogni volta finiva per dipingergli uno strano sorriso sul volto, come quello di certi bambini quando vengono sorpresi a giocare da soli, mentre sempre più lontane ormai echeggiavano le parole del Ministro.

    «… così come le articolazioni della sicurezza digitale rappresentano…»

    Non era noia quella che si respirava, o almeno non una noia normale, sebbene le assomigliasse nei tratti più evidenti. Di particolare aveva una fodera di stanchezza notarile, come di chi assiste senza margine d’intervento a un rituale le cui fondamenta rimangono oscure. Per il resto, incombeva sull’aula il solito fatalismo d’accatto a cui i ventilatori piantati a terra, con tanto di filo a vista, aggiungevano una nota caricaturale, da Parlamento messicano.

    Ettore era appena stato raggiunto dalla loro debole brezza, quando il suo telefono tornò a illuminarsi sul banchetto.

    Nuovo messaggio.

    Matilde. Altro che placata. Stavolta solo il link, senza commento.

    "ULTIMA ORA – Montpellier, 13 luglio, 15:59 – ATTENTATO: Colpi d’arma da fuoco nell’Ikea di Montpellier, probabile commando armato all’interno con ostaggi."

    Non aveva fatto in tempo a leggerlo che subito ne aveva inviato un secondo.

    "BANLIEUE IN FIAMME: La rivolta delle periferie contagia Marsiglia dove più cortei non autorizzati convergono verso il centro: duri scontri, gravi i danni. "

    A quel punto, Ettore alzò automaticamente la mano.

    «Signor Ministro» aggiunse ad alta voce interrompendo la litania.

    Gli occhi di Serra lo inquadrarono con una certa incredulità, E questo qui chi è? Come si permette di interrompermi?; dicevano, senza bisogno di parole.

    «Signor Ministro, scusi» continuò Ettore, sicuro delle sue carte, «ma credo che vista la situazione in Francia sarebbe meglio aggiornare la seduta affinché il Governo possa riunirsi con urgenza.»

    Qualcuno dei presenti fece eco di approvazione, chi per l’effettiva gravità delle notizie, chi probabilmente perché sospendere la commissione significava guadagnare l’uscita dal Palazzo con un paio d’ore d’anticipo. Già la convocazione di venerdì era sembrata a molti una forzatura della prassi parlamentare. Quanto a Serra, era evidente che stesse cadendo dalle nuvole, tuttavia non si scompose.

    «Certo, certo onorevole. Concordo con lei» borbottò, prima di indirizzare un’occhiata gravida di rancore al suo portavoce seduto in uno dei banchetti laterali.

    «Vogliate scusarmi» aggiunse nello scatto marziale con cui si alzò dalla sedia, dopodiché uscì dall’aula seguito da un codazzo di funzionari a testa bassa.

    Davanti a quella fuga precipitosa il nonno di Tommaso e Nicola, il gigante, si voltò verso Ettore.

    «Bravo» disse alzandosi dal suo posto con un largo sorriso da osteria.

    «Guarda te che Caporetto hai combinato…»

    Per raggiungere il mare Chiara e Valentina avevano preso una ripida deviazione dal sentiero principale, appena accennata oltre un sipario di rovi e sterpaglie. Non era stata un’impresa facile, tanto che avevano festeggiato l’atterraggio sulla spiaggia con l’entusiasmo di una piccola vittoria. La Corsica le premiava con una lingua di sabbia dorata soltanto per loro.

    Dopo aver fatto il bagno, per un po’ erano rimaste distese una accanto all’altra. Chiara con la schiena al sole e gli occhi fissi sul suo Dostoevskij, mentre Valentina, liberatasi del reggiseno, si rosolava pigramente, indecisa sul da farsi.

    Da una parte invidiava la capacità dell’amica di restare così concentrata sulle pagine di un libro, tanto che per un attimo aveva valutato di imitarla, solo che proprio non faceva per lei. Di solito già dopo due, cinque, massimo dieci minuti veniva assalita da una generale insofferenza che contagiava per prime le mani, come se il problema fosse la forma, il peso, la presa sempre insoddisfacente delle dita sulle pagine, poi era l’attenzione via via a sfumare fino a convincere gli occhi che non ne valesse la pena.

    Ma se leggere non le piaceva, impedire a Chiara di leggere era invece uno dei suoi passatempi preferiti. Così aveva iniziato col girarsi sul fianco e guardarla. Guardarla fissa. Ma Chiara niente, come fosse altrove. Allora, Valentina aveva attaccato con le domande, le più stupide.

    « Delitto e castigo, cos’è, un giallo?»

    Mentre parlava si divertiva a tormentare l’amica con le dita a pinzetta sulla pelle del braccio. «Secondo me è stato il maggiordomo… è sempre il maggiordomo, lo sai? Eh, lo sai? Lo sai? Lo sai?»

    Più ripeteva e più forte pizzicava, senza tuttavia scalfire minimamente la compostezza da sfinge della sua vittima. Rubarle il libro dalle mani era stata la mossa successiva, l’unica in grado di estorcere l’attenzione che Valentina desiderava.

    «Guarda che non ci sono le figure, mi spiace.»

    Chiara lo aveva detto con rassegnazione, nella speranza che stare allo scherzo fosse il modo più veloce per tornare in possesso dell’ostaggio. Certo, immaginava di dover prima sopportare qualche presa in giro. Probabilmente quella zanzarina irrequieta avrebbe declamato un passaggio ad alta voce o chissà quale altra innocua scempiaggine. Tutto si aspettava, meno che Valentina le chiedesse conto di una frase scovata a casaccio.

    «E questa? L’hai scritta tu?»

    Era un’annotazione a margine, scritta a matita sul bordo di una pagina.

    " Non c’è niente di più pericoloso che sentirsi al sicuro."

    Nel vederla, Chiara si era limitata ad alzare le spalle. Con gli acquisti dalle bancarelle era normale... Scarabocchi, pieghe, sottolineature, orecchie, appunti, simbolini, liste della spesa, si trovava di tutto e ormai non ci faceva più caso. Piuttosto ne aveva approfittato per riprendersi il maltolto e segnare la fine del gioco con l’amica che, sconfitta, si era decisa a lasciarla in pace per incamminarsi da sola verso il bagnasciuga.

    L’andatura appena ciondolante, lo sguardo incantato dalle impronte dei suoi piedi sulla sabbia, Valentina per una manciata di passi aveva avuto l’impressione che qualcosa le fosse rimasto impigliato nei pensieri.

    Non c’è niente più che pericoloso… niente è pericoloso come… provava a ricordare, ma le parole si erano già dissolte nel caos di altre immagini, seppellite presto dal desiderio di arrampicarsi su quello scoglio che pareva un trono di roccia circondato dalle onde.

    L’avvertimento era riemerso solo quando si stava sbracciando verso Chiara per farsi scattare una foto.

    Non c’è niente di più pericoloso che sentirsi al sicuro. Con urgenza, la voce dentro di lei tentò di recuperare il terreno perduto.

    Se Valentina l’avesse ascoltata, forse si sarebbe anche accorta del rumore dei passi di corsa e delle voci concitate che venivano dalla scogliera.

    Invece.

    «Chiara... Chiaraaa... Chiara, mi porti il sopra del costume e il telefono?»

    L’amica lì per lì non capì il succo della richiesta, a cui rispose senza muoversi dall’asciugamano, limitandosi a un gesto interrogativo.

    «Dai, così mi fai una foto qui!»

    Entrambe non fecero caso allo scuotersi della vegetazione, né colsero il senso del volo di un gabbiano sopra le loro teste.

    Credevano di essere sole.

    «No, no, no Chiara dai» iniziò a protestare Valentina, «dai, passamelo, dai!» squittiva, senza riuscire a trattenere il risolino che le veniva sempre quando si sentiva in imbarazzo.

    «Non fare la stronza» sibilò nasale e lamentosa nella lunga coda " zaaa".

    «Stronza!» ripeté incrociando le mani sul seno appena capì le intenzioni dell’amica.

    «No dai, aspetta a fare foto! Ti spiego io come. Dai, adesso smettila.»

    «Macché foto, questo è un filmato in esclusiva per Superquark. Signori e signore, ecco la cozza più grande della Corsica» rispose Chiara, che nel frattempo si era inginocchiata per inquadrare meglio la scena.

    «Stai facendo un video? Infame! Chi vede questo video sappia che Chiara Balbi è un’infame» ribatté l’amica sfidando l’obiettivo con una linguaccia.

    Stavano ancora ridendo quando la prima pietra colpì lo scoglio.

    STOK.

    Anche la seconda si schiantò con violenza contro la roccia, subito seguita da un’altra scarica di sassi che sibilarono vicinissimi alla testa e al corpo di Valentina, mentre un coro di urla feroci si levò dalla scogliera.

    Non si capiva cosa dicessero, sembravano insulti o imprecazioni in una qualche lingua oscura. Parole gridate, scagliate come maledizioni insieme ai tentativi di colpire la ragazza che ora cercava disperatamente di mettersi al riparo.

    Nell’inquadratura dello smartphone, Chiara ne contò cinque. Cinque sagome dalla carnagione olivastra, l’età indefinibile di bambini quasi ragazzi o di ragazzi quasi bambini. Li riprese chinarsi e rialzarsi una, due volte, perfettamente a fuoco nelle smorfie concentrate a prendere la mira, mentre altre pietre schizzavano intorno all’amica che nel frattempo era riuscita a scendere dallo scoglio. Ma quelli continuavano accaniti, implacabili. La rabbia sui loro volti era tanto marcata da sembrare una maschera, imitazione di gesti e atteggiamenti forse imparati altrove e che ora soltanto, nell’atto primordiale dell’agguato, potevano scaricare la loro forza contro la preda.

    Presto non solo le traiettorie si fecero più precise, insidiose, ma anche le grida finirono per concentrarsi su poche ricorrenti parole, scandite a turno come uno spartito d’orchestra. Ma al di là di qualsiasi significato, a pulsare nell’aria era l’onda di una crudeltà bambina, priva di cognizione, incapace di misura. Non si fermarono neanche quando Valentina riuscì a ripararsi oltre la gittata delle pietre. Come ossessi reiterarono lo stesso gesto ancora e ancora, prima di mescolare le urla alle risate con cui celebrarono il successo della spedizione.

    Scomparvero, infine, come incubi al mattino. Scomparvero oltre il profilo della scogliera, lasciandosi alle spalle uno squarcio che trapassò il velo della realtà, unito a un rallentamento, una sottrazione di battito nello scorrere del tempo.

    Un’intera costellazione di istanti prese a orbitare lungo una traiettoria non più lineare, ma sferica, accartocciando come in un sacco la porzione di mondo dove Chiara giaceva immobile.

    Di tutto il corpo percepiva solo le ginocchia piantate nella sabbia, quasi una forza oscura la trattenesse artigliata al suolo. Nettissima la sensazione di sprofondare, lentamente sprofondare. E benché si fosse accorta del cessato pericolo, restò a lungo in balia di una strana ipnosi. Gli occhi fissi nello schermo, l’inquadratura della scogliera ormai sgombra. Il respiro spezzato in segmenti irregolari, ora brevi, ora lunghi, mentre con fatica tentava di riprendere le coordinate del circostante.

    Il vento si era di colpo placato e una vampa di calore l’avvolgeva come la fiamma di un rogo. Impossibile ragionare, mettere ordine. La sola ipotesi di imbastire una qualche iniziativa cozzava con la realtà di un corpo ridotto a involucro, fradicio di sudore, schiacciato dall’impensabile. La spiaggia intorno era la stessa per cui avevano esultato poco prima, ma ora pareva molto più vasta e sperduta. Così il mare, il mare buono e felice dei giochi e delle risate, d’un tratto era mutato in un abisso di desolazione.

    A stento Chiara riuscì a contenere l’onda di panico. A stento la coscienza riconquistò i movimenti del collo, dello sguardo con cui inquadrò il profilo di Valentina riversa a terra. Da ultimo, Chiara ne distinse i gemiti, e insieme lo sgomento, la punta di incredulità che troncava i singhiozzi in brevi lapilli di suono. Un richiamo tanto disperato quanto infantile, simile al guaire di una bestiola ferita, che la nudità di Valentina e gli spasmi del suo contorcersi nella sabbia coloravano di un’ombra primordiale. Quasi non fosse più una persona, una ragazza, ma una creatura del tutto nuova, partorita dalle viscere del mondo. Un impasto palpitante di ossa in rilievo appena sotto la pelle, di muscoli e nervi attraversati da scariche elettriche. Si dimenava in preda a una furia scomposta. Le mani frustavano l’aria, ora il dorso della sinistra, ora il palmo della destra chiazzato di rosso. Fremeva l’addome tarantolato, come un cocchiere incapace di domare le gambe imbizzarrite da un riottoso e grottesco scalciare.

    «Vale… eccomi, Vale. Eccomi…»

    Chiara raggiuse l’amica con l’affanno di un cane alla catena. Breve la corsa che terminò nello slancio con cui le si inginocchiò accanto.

    «Fammi vedere, fammi vedere» ripeté nel tentativo di calmarla, mentre le scopriva la ferita.

    Doveva esserselo fatto scivolando lungo la roccia. Un taglio. Profondo. Da appena sotto il ginocchio le solcava la carne lungo tutto il polpaccio. Sangue. Tanto sangue. Troppo sangue.

    Sul momento, Chiara pensò solo che avrebbe preferito fosse toccato a lei. E non per eccesso di altruismo, ma perché lei avrebbe saputo farsi coraggio anche così, con l’adrenalina a mille e la botta e la paura e la ferita sanguinante.

    Chiara ne aveva passate di peggio, Valentina no. Valentina era cresciuta nel burro. Era la piccola principessa di casa, come ammetteva con candore quando era in vena di autoironia.

    Figlia unica, i genitori non le avevano fatto mai mancare nulla: la macchina a diciotto anni, l’affitto della stanza a Milano, le tasse universitarie nonostante fosse in tragico ritardo con gli esami. E poi, i viaggetti, i corsi di yoga: tutte cose che avevano contribuito a modellare quel suo carattere entusiasta con cui conquistava l’affetto di chi le stava intorno, ma al prezzo di essere arrivata a ventiquattro anni senza la capacità di gestire il minimo imprevisto.

    Chiara se n’era resa conto fin da subito, dai primi tempi in cui avevano iniziato ad abitare insieme. Una volta, di ritorno dal lavoro, se l’era trovata seduta sul pianerottolo davanti alla porta di casa. Valentina aveva rotto la chiave nella serratura dell’appartamento e non aveva saputo fare niente di meglio che restare lì impalata ad aspettarla.

    «Ma Vale, perché non hai chiamato un fabbro?»; «Non lo so. Non lo so.»

    Oppure quando aveva piantato la macchina in mezzo alla strada dopo l’ennesima manovra di parcheggio fallita ed era andata a fumarsi una sigaretta sul marciapiede, osservando l’ingorgo che aveva provocato come se non la riguardasse.

    Valentina era così, al minimo stress si bloccava.

    Figurarsi ora che avevano appena provato a lapidarla, scagliandole addosso pietre grandi come i pugni che teneva violentemente serrati, mentre Chiara la fasciava con la magliettina gialla che usava come copricostume.

    Il sangue, tuttavia, non voleva saperne di fermarsi e, nello spazio di pochi passi, un denso rivolo rosso tornò a farsi strada fino alla caviglia. Raggiungere il parcheggio in quelle condizioni divenne una specie di via crucis, con la principessa che non solo zoppicava tra i singhiozzi, ma a ogni rumore si piantava in mezzo al sentiero, braccata dall’incubo che i suoi aggressori fossero ancora nelle vicinanze.

    Presto Chiara capì di non avere alternative. Se la caricò in braccio. A peso morto per tutta la strada, finché il titolare di un chiosco non le corse incontro appena la vide sbucare dall’ultima curva. Fu lui a chiamare l’ambulanza che caricò entrambe, ma arrivate al pronto soccorso soltanto Valentina scomparve con gli infermieri dietro le porte a soffietto.

    «Attendez ici.»

    «Aspetta qui» intimarono a Chiara.

    Solo che no, non poteva accettarlo. Anche volendo, non sarebbe stata capace di sedersi in un angolino e aspettare. Perché di lì a poco, lei lo sapeva, lo avvertiva con lucida precisione, la sua rabbia avrebbe preso il sopravvento e qualcosa, Dio solo sa cosa, sarebbe successo. Lo stesso tentò di trattenersi. Prima un respiro, poi un altro, poi un altro. Intanto, roteava i grandi occhi scuri nel silenzio della sala d’attesa. Passò in rassegna le file di sedie vuote, poi un vecchietto e la moglie accanto, tre posti più in là una donna sulla quarantina con in braccio la figlia che tossiva a intervalli regolari.

    D’istinto, cercò di intercettare lo sguardo della bambina che la ricambiò incerta, prima di negarsi di scatto e tossire di nuovo.

    Se solo fosse stata al gioco, forse anche lei si sarebbe seduta e per un po’ avrebbero continuato a guardarsi. Lo faceva sempre con i bambini: per strada, in coda alla cassa del supermercato, sulla metro, con i figli dei vicini. Pochi secondi di occhi negli occhi di solito riuscivano a esercitare un prodigioso effetto calmante sul suo animo. Ma non questa volta.

    Anzi, l’aggancio mancato contribuì a incrinare ciò che restava del suo autocontrollo. Profonda, l’ira scivolò tra le intenzioni, affilandole al punto che intorno a sé Chiara non cercò più nessun conforto. Ora voleva un bersaglio.

    Lo trovò nell’addetta all’accettazione verso cui mosse, taurina, senza esitare. La scintilla di rabbia a innescare la torsione con cui capovolse il suo stato d’animo.

    Fino a poco prima, nello specchio in fondo alla sala, aveva intravisto soltanto il riflesso di uno straccio. Gli shorts di jeans sporchi di terra, il ventre scoperto, la pelle tesa come la fodera di un tamburo, sui fianchi l’impronta delle dita insanguinate dopo la prima medicazione sulla spiaggia. E poi le spalle sporgenti, i muscoli contratti, la precaria censura della fascia verde acqua all’altezza del seno.

    Fino a poco prima il suo aspetto l’aveva soltanto avvilita, come una colpa. Ma ora, al mutare di un vento interiore, Chiara indurì la fragilità in fierezza, la vergogna in spavalda ostentazione, da regina barbarica, mentre dentro di sé preparava l’assalto. Non aveva in serbo nessuna domanda da porre, nessuna richiesta. A guidarla l’urgenza, la necessità di un urto. Benché illogico, era più forte di lei. Doveva farlo e basta. Era quasi arrivata al vetro di protezione, quando vide due agenti della gendarmeria attraversare la sala d’aspetto diretti alla macchinetta del caffè.

    Di colpo le tornarono in mente le pietre, il filmato, le urla. E insieme la paura, l’impotenza, la maledetta pena nel raggiungere il parcheggio. Ma ora gliel’avrebbe fatta pagare a quei ragazzini bastardi, giurò a se stessa nel deviare verso i poliziotti. Non attese nemmeno che finissero di parlare tra loro: rabbiosa s’impose con il suo racconto. Iniziò a spiegare, denunciare per filo e per segno, ma per quanto si sforzasse loro niente. Non capivano l’italiano, non capivano l’inglese, né facevano alcuno sforzo per venirle incontro. Anche quando estrasse il telefonino per mostrargli il video dell’aggressione, si limitarono ad allargare le braccia. Dopodiché, gettarono i bicchierini nel cestino e le voltarono le spalle.

    Cinque, dieci secondi, Chiara non si trattenne oltre, poi con la mano a martello colpì la sua immagine riflessa sul vetro del distributore automatico. Un tonfo sordo rimbombò dall’incavo della struttura metallica alle pareti della sala d’attesa, ma non sortì nessuna reazione, né dall’infermiera dietro al vetro, né dagli altri pazienti. Chiara allora inspirò forte col naso, la fronte appoggiata contro la parete giallognola. Era tornata invisibile, si disse. Invisibile e inutile come nello schifo dei suoi giorni peggiori, rincarò la dose tra sé, poco prima che una voce attirasse la sua attenzione.

    «Scusi signorina, posso disturbare?»

    Le comparve accanto un uomo sulla trentina, vestito sportivo con una giacca color sabbia aperta su una polo nera.

    «Sono Jerome D’Attì, del nucleo investigativo della polizia di Bastia» si presentò stemperando con un sorriso la sua qualifica.

    «Voleva dire un qualcosa?» chiese poi in un italiano che si faceva più incerto dopo la formula di presentazione.

    Chiara gli rovesciò addosso il suo racconto. Lo fece con metodo, tanto più incoraggiata dallo scrupolo con cui Jerome le chiedeva di rallentare il ritmo per non perdersi nulla o quando la interrompeva per circostanziare luoghi e orari.

    «Mi ha sembrato di capire che ha fatto anche un video di tutto questo» azzardò lui, infine.

    «Me lo può mandare per favore? È molto prezioso per le indagini.»

    «Certo, certo» acconsentì Chiara, inoltrandolo subito al numero che le veniva dettato.

    «Eccolo qui, il mio Ettore! Vero che mi vuoi bene? Vero che ci vai al presidio all’ambasciata?»

    Rebecca lo investì appena lo vide sulla porta dell’ufficio.

    Siciliana di Agrigento, sulla quarantina, Rebecca Crispi gestiva da un paio d’anni la comunicazione del gruppo parlamentare del Nodo. Di solito poteva contare su un paio di collaboratori e una segretaria. Di solito il suo ufficio riusciva a regolare senza affanno il flusso di inviti televisivi, le interviste su carta e il materiale di approfondimento a supporto dei deputati. Peraltro, di solito, il venerdì era considerata una giornata tranquilla, tanto che quella settimana Rebecca aveva autorizzato il weekend lungo a tutto il suo staff. Sapeva che restare sola poteva essere un problema, se fosse successo qualcosa di rilevante in Italia o nel mondo, ma le era parso un azzardo accettabile.

    Rebecca aveva fiuto per certe cose, di solito.

    L’onda d’urto dei fatti di Francia la travolse come un castello sguarnito sotto i colpi di un ariete infuocato. Notizia dopo notizia, la crisi accendeva l’interesse del pubblico, mobilitava le dichiarazioni dei leader, fomentava schiere di commentatori sui social. Dall’esilio della cronaca estera le periferie di Parigi, di Marsiglia e di una dozzina di altre città, avevano conquistato il centro della scena mediatica italiana in meno di un’ora. E in meno di un’ora la batteria del telefono di Rebecca era collassata. Assillanti, ostinati, il più delle volte ottusi anche di fronte all’evidenza di un sovraccarico che nessuno avrebbe potuto gestire da solo, i giornalisti di ogni redazione televisiva si erano fiondati in massa a comporre il suo numero di cellulare. Tutti reclamavano un nodista nella propria trasmissione: qualcuno che rappresentasse la linea dura su Islam e migranti.

    «Ettore, dimmi che almeno tu ci sei...»

    «All’ambasciata? Sì, certo, è anche di strada per me» rispose il deputato cercando di trasmettere alla donna un po’ di serenità, mentre ricalcolava la sua tabella di marcia posticipando l’atterraggio a Malpensa di un paio d’ore.

    «Vedi che sei un tesoro» sospirò lei prima di rispondere al telefono.

    «Sì... la dottoressa Crispi sono io, mi dica. Domani mattina? Rainews ventiquattro?» scandì ad alta voce intercettando lo sguardo di Ettore.

    «Un attimo e le faccio sapere chi le mandiamo, aspetti in linea» aggiunse appoggiandosi l’i-Phone al petto.

    «Ti prego. Ti prego. Ti prego...» mormorò a denti stretti.

    Per un attimo lui valutò la possibilità di chiedere un collegamento in diretta da casa a Como, ma certi privilegi erano riservati ai politici importanti, figurarsi se si sarebbero scomodati per una mezza calzetta come lui. Quindi, si rassegnò a decidere tra Roma e Como, tra restare e tornare.

    La battaglia divampò, breve e segreta. L’istinto lanciò l’assalto alla fortezza del Dovere con una manovra imponente, da Grand Armée. Ottocentesco l’ordine di battaglia dove in geometrica perfezione sfilarono reggimenti di sensi di colpa con gli stendardi della moglie e della figlia. A sospingerli nell’avanzata, colubrine e bombarde di malumore, insieme alla cavalleria pesante del sentimento, pronta a tutto pur di non rimanere nella cosiddetta città eterna un’ora in più dello stretto necessario. Ogni reparto fece del suo meglio per conquistare le alture di una buona scusa per chiamarsi fuori, ma l’impeto del fronte d’attacco si frantumò a parecchia distanza dall’obiettivo, falciato dal riflesso di obbedienza al partito.

    Così, mentre i resti dei suoi buoni propositi per il fine settimana franavano in disordine e senza speranza lungo le vallate che avevano risalito con orgogliosa sicurezza, annuì a Rebecca la sua disponibilità per l’indomani mattina.

    «Grazie, grazie, grazie» scandì lei in un soffio.

    «Sì, eccomi, mi sente? Allora le manderemo l’Onorevole Brasca, Ettore Brasca. Grazie, arrivederci. Sì, le mando subito il numero.»

    Chiusa la conversazione, la donna si lasciò andare a un lungo sospiro stanco, prima di tornare a parlare.

    «Grazie, tesoro. Davvero grazie, grazie, grazie, è che dobbiamo assolutamente presidiare gli spazi mediatici, una volta tanto che ci invitano. E poi è bella la cosa di domani su Rainews...»

    Fino a quel momento il deputato era sicuro di aver vinto il tipico bidone televisivo, dieci minuti dieci in una fascia oraria infame, magari all’alba, da spartire con un povero precettato come lui, ma con la cravatta di un altro colore. Perciò si inorgoglì non poco, quando realizzò che si trattava di commentare la parata di Parigi per la Festa della Repubblica Francese.

    «Hai visto che Rebecca tua ti tratta bene? Adesso però, tesoro, prendi i cartelli e corri all’ambasciata va’» lo congedò frettolosa, con l’apparecchio infernale che era tornato a suonarle in mano.

    «Pronto Valerio, tesoro, ciao… No mi spiace, gli onorevoli li ho tutti prenotati per le televisioni nazionali, prova con i consiglieri regionali, aspetta che ti mando un contatto…»

    Ettore intanto si era messo a cercare i cartelli per il presidio, prima sul tavolone centrale, tra i giornali squadernati alla rinfusa, poi sopra la scrivania di Rebecca, nella foresta di scartoffie e post-it colorati. Niente. Eppure devono essere da qualche parte, pensava, sempre più a disagio per il ritardo che stava accumulando. Doveva ancora chiamare il taxi per andare in piazza Farnese. E avvisare Matilde di non aspettarlo a casa. E capire qualcosa di più per il dibattito dell’indomani. E magari studiare qualcosa della Francia. E sapere a che ora presentarsi negli studi televisivi, tanto per cominciare. Soprattutto, doveva trovare quei benedetti cartelli.

    Dal tavolo di Rebecca era passato alle altre due postazioni, al momento sguarnite. Altri fogli, altri moduli oscuri, appunti sparsi, una lista della spesa vicino al telefono fisso di Aurora, la segretaria, pasta - insalata - affettati - mozz. - cereali per Chicco - uova - tov. - carta ig. - scottex.

    Cartelli contro il terrorismo, niente.

    Stava per aprire i cassetti, violazione di privacy dolorosa ma necessaria, quando avvertì una mano sulla spalla. Rebecca proseguiva imperterrita la sua conversazione al telefono, in qualche modo sempre la stessa per tutta la giornata, benché cambiassero gli interlocutori.

    «Pronto Antonella, tesoro…»

    Nel frattempo, rivolta a lui indicava un punto sul lato opposto della stanza. La fotocopiatrice. I cartelli erano nel vassoio della fotocopiatrice. Ettore la raggiunse in poche falcate: non c’erano.

    A quel punto, il suo fastidio divenne rabbia, la rabbia sconforto, lo sconforto di nuovo fastidio quando alzò lo sportello della macchina. Niente, nemmeno lì.

    Disperato tornò a cercare lo sguardo di Rebecca, che ora teneva il telefono tra la spalla e l’orecchio. «Forse dopodomani è meglio» aveva appena detto, mentre con entrambe le mani gli indirizzava un gesto che poteva benissimo voler dire scava una buca così come dai da mangiare ai piccioni. Per reazione, Ettore si guardò comunque intorno, scandagliando febbrile il pavimento, il mobile con le cialde del caffè, l’armadio.

    L’armadio! Il gesto forse voleva dire apri l’armadio, si disse ormai in balìa dei suoi stessi tentativi. Ma aveva appena girato la chiave tra le ante metalliche, quando distinse il rumore dei tacchi sul pavimento seguito da un nuovo colpo alle spalle, stavolta come di qualcosa che si piega al contatto. I cartelli, eccoli. Rebecca li aveva piegati a tubo e ora glieli sventolava sotto il naso, senza per questo interrompere il suo ragionamento telefonico.

    «È chiaro che noi badiamo molto anche al contesto di ogni trasmissione, nel senso che il contraddittorio va bene, ci mancherebbe, ma se poi diventa un tutti contro uno, allora capisci che…»

    Ettore non fece in tempo a sentirne la conclusione, schizzato com’era fuori dall’ufficio, giù per le scale a capofitto.

    Chiamare il taxi, scavare una buca per i piccioni, avvertire Farnese, raggiungere piazza Matilde.

    I pensieri si affastellavano l’uno sull’altro in un delirio scomposto, finché la prima buona notizia gli apparve davanti agli occhi. Il taxi sulla strada. Libero. Pronto. Suo.

    Appena a bordo il deputato si affrettò a telefonare alla moglie, ma l’operazione si rivelò subito più complessa del previsto. Il caldo, i cartelli per il presidio sottobraccio e la fretta di arrivare, gli avevano fatto commettere il madornale errore di non sedersi sui sedili di dietro, dove avrebbe potuto organizzare meglio lo spazio, ma su quello davanti, accanto all’autista.

    Stringere i cartelli nella morsa delle ginocchia, incastrare lo zainetto sotto il cruscotto, intanto estrarre il telefono con una mano e armeggiare con l’altra verso la cintura di sicurezza. Ogni gesto in quello spazio striminzito diventava una piccola prodezza di contorsionismo, a cui un copioso e sempre più evidente sudore ascellare conferiva un che di ulteriormente angoscioso.

    Come non bastasse, il proposito di chiamare a casa s’infranse sotto la grandinata di parole che il tassista gli rovesciò addosso.

    Di punto in bianco si era messo a raccontare del figlio, Pierqualcosa, che proprio non ne voleva sapere di rilevare la licenza del taxi per seguire le sue orme. A ben vedere, non era che la solita preoccupazione dei padri sul destino dei figli, eppure nella voce pastosa di quell’uomo la faccenda assumeva i toni di un monologo tragico. Il ritmo vibrava oltre il semplice sfogo, a cui Ettore avrebbe potuto almeno partecipare, magari fingere condiscendenza in attesa del pretesto per sganciarsi. Niente di tutto ciò, casomai quello che il tassista stava sbobinando era la precisa replica del colloquio tra lui e il figlio la sera prima, con Ettore giocoforza costretto nei panni di Pierqualcosa ad ascoltare la paternale sull’importanza de «avecce ’n lavoro sicuro de ’sti tempi.»

    E la tiritera non sembrava volersi fermare neanche quando il deputato appoggiò il telefono all’orecchio con un gesto marcatamente teatrale, come a dire che ora aveva bisogno di qualche minuto di silenzio. Niente, quello imperterrito continuava a incaponirsi sulla storia del taxi, «dei sordi», «de mi moje», «der fratello più piccolo che sta a Londra», tanto che Ettore si sentì finalmente autorizzato a imporsi.

    «Per favore, mi lasci telefonare.»

    Lo disse con distacco eccessivo, di gran lunga più formale nel tono di quando poco prima aveva interrotto un Ministro della Repubblica, nemmeno avvertisse il potere plebeo che emanava quell’uomo così intriso di vita e di strada come più ingombrante, e temibile, di qualsiasi alta carica dello Stato.

    Matilde fortunatamente rispose al primo squillo.

    «… Ho una notizia buona e una cattiva...» esordì lui con la formula dell’indovinello.

    «Non torni stasera» lo anticipò lei. «E quella buona?» aggiunse incalzandolo.

    «Che non torno a incasinarti casa...»

    «Dai, scemo... quella buona?»

    Prima di rispondere Ettore gettò un’occhiata alla strada, alla vecchietta che attraversava mano nella mano con una bambina cicciottella, poi al tassista. Silenzioso, sembrava non badare alla conversazione, ma era chiaro che stesse solo aspettando il momento giusto

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