La valle dai sassi che ridono
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Anteprima del libro
La valle dai sassi che ridono - Andrea Tessaro
1.
Sulle propaggini orientali dell’Altopiano dei Sette Comuni sorge la minuscola frazione di Rubbio. Lì fino a qualche tempo fa era possibile visitare la cosiddetta cava dipinta
del bassanese Toni Zarpellon: un’opera di grande fascino e suggestione. Là dove l’attività estrattiva dell’arenaria aveva deturpato il paesaggio, l’artista ha disegnato facce e animali sfavillanti di colore, una fantasmagoria stupefacente e a tratti inquietante.
Una domenica pomeriggio di diversi anni fa vi condussi un amico, Carlo, e suo zio Renato, medico in pensione. Questi, appassionato d’arte, aveva sviluppato negli anni un’approfondita conoscenza della storia della pittura, al punto da diventare nostro immancabile cicerone in occasione di visite a mostre e città d’arte.
Quel giorno, tuttavia, qualcosa andò storto. Renato, anziché godere di quel manicaretto di cui mi proponevo fiero imbanditore, alla vista della cava dipinta rimase per qualche istante turbato, ebbe un capogiro, fu sul punto di perdere i sensi. Non spenderò inutili parole sulla nostra conseguente e viva apprensione. Renato comunque si riprese e chiese di essere riaccompagnato subito a casa. Il suo silenzio fu fonte di angoscia per tutto il viaggio di ritorno.
Circa una settimana dopo ricevetti un laconico messaggio. Renato mi accolse nel suo studio, Carlo era già là. Ebbi immediatamente l’impressione che negli occhi dell’anziano medico fosse calata un’ombra. E so per certo, me l’ha rivelato il nipote che gli è stato vicino sino alla fine, che da quel giorno non ebbe più a recuperare la sua giovialità.
«Vi devo delle spiegazioni», cominciò con tono un po’ formale. «So di avervi dato qualche pensiero di troppo quel giorno alle cave. Da allora non ho smesso di esplorare l’archivio della mia memoria, alla ricerca di ciò che vi avevo abbandonato tanti anni fa. In un certo senso mi sono stupito, data l’enormità dei fatti, di averlo recuperato solo nelle forre più profonde.»
Renato sorrise.
«Scusate le metafore forse un po’ troppo forbite: può darsi che siano figlie dell’eccessiva cautela nel maneggiare la materia. Quei sassi dipinti hanno dischiuso una porticina segreta.» Allungò la mano sulla scrivania e prese un taccuino. «Entrare nelle stanze dimenticate dei ricordi è come rinascere, nomen omen… anche se le mie le ho ritrovate popolate da cadaveri e fantasmi. Ad ogni modo, se non avessi recuperato questo piccolo diario tutti i dettagli sarebbero persi per sempre.»
Renato sospirò e si scusò di non averci ancora offerto da bere. Dopo che Carlo ebbe distribuito le bibite, proseguì.
2.
Molti anni fa fui, per un brevissimo periodo, medico in un piccolo comune di montagna nel vicentino, Valli del Pasubio. Ciò che vi accadde durante la mia permanenza costituisce il nocciolo di quanto sto per raccontarvi.
Da una settimana non faccio che rileggere gli appunti, scandagliare i ricordi, dissezionare i fatti con la freddezza di un entomologo. Della partenza dal paese conservo un senso di vuoto e smarrimento. Eppure adesso, inaspettatamente, osservando i vari momenti sparsi della narrazione come punti su un piano, mi accorgo che molti di essi dovevano stare sulle stesse linee, che le linee formavano figure, che queste, infine, erano animate a mo’ di burattini da una sola mano. Sono arrivato quindi a delle conclusioni: tutto o quasi mi risulta chiaro. Per questo mi chiedo: allora cosa ne capivo? La risposta che mi sono dato è che forse intuivo tutto, benché confusamente, come se lo vedessi attraverso un vetro offuscato. Se l’ho rimosso è anche per un senso di colpa derivante dal ruolo di catalizzatore che ebbi probabilmente in quelle tragiche vicende.
Ho sfogliato rapidamente il taccuino senza soffermarmi sul significato dei segni, all’inizio rapidi, spesso confusi e disorganici: date, nomi, indirizzi. Ho notato ai bordi delle macchie di inchiostro. Di pagina in pagina i ghirigori si allargano e si dispongono, prendendo una forma via via più definita: ora sono delle piccole spirali. Ho recuperato finalmente il senso di questa figura. Non la intendevo allora, come nell’iconografia classica e cristiana, simbolo della ripetizione, del ritorno. Da semplice sfogo o tic divenne per me metafora del fluire degli eventi da un centro, motore immobile o, meglio, agente occulto. A volte mi sembrava di coglierne con chiarezza la direzione, come se avessi la certezza di trovarmi in un punto preciso della curva: intuivo da dove partiva e fin dove sarebbe giunta. Tuttavia, nel momento stesso in cui cercavo di annotare nel mio taccuino queste sensazioni il tratto della penna finiva per avvolgersi su se stesso.
Ma riprendiamo la narrazione. Era una tarda serata d’estate quando ricevetti una telefonata da un collega. Era stato nominato medico condotto a Valli, dove il suo predecessore era da poco deceduto. Mi disse di trovarsi in difficoltà, essendo temporaneamente impossibilitato a muoversi. In realtà, come appresi in seguito, si trovava in vacanza al mare con degli amici, dove aveva una qualche tresca. Si trattava di sostituirlo per una o due settimane. Trascorsi il giorno successivo in una situazione a dir poco seccante, tra le continue variazioni di programma del collega e i miei tentativi di prendere contatto con qualcuno in paese per predisporre il breve soggiorno. Alla fine, alla vigilia della partenza, restammo intesi per una supplenza di un paio di settimane.
«Pare ci sia qualche problema in paese», mi confidò vagamente.
3.
Giunsi a Valli del Pasubio in serata: la spettacolarità del paesaggio mi lasciò senza fiato. Il tramonto, in cui il cremisi aveva una parte singolare, lo rendeva eccitante attraverso un gioco di luci calde e radenti e ombre profonde.