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La parte mancante
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E-book194 pagine3 ore

La parte mancante

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Info su questo ebook

Marco Antonelli torna a narrare le sue storie dopo il successo di “L’uomo che scriveva storie sui muri”, il suo primo romanzo. Dieci nuovi folgoranti racconti che esplorano la quotidianità dei protagonisti alla ricerca di quel tassello capace di svelare le loro scelte e i loro pensieri. L'autore restituisce vita ai suoi personaggi attraverso una precisa e puntuale analisi psicologica, ma sempre con rispetto e una sorprendente delicatezza, anche nelle storie più crude e inquietanti. Una narrazione moderna, lucida e senza respiro, che accompagna il lettore alla scoperta di verità scomode e spesso inaspettate.

La parte mancante è un segreto, una ragione, un dubbio, una rivelazione oppure, come nella drammatica confessione del racconto “Foglie d’oro”, un lunghissimo incubo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2020
ISBN9791220307994
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    Anteprima del libro

    La parte mancante - Marco Antonelli

    mancante.

    Nelle onde, il canto

    Cosa le porto signor Bosoni?

    Pietro Bosoni sollevò lentamente lo sguardo dal portatile. Sentiva il calore del sole sulla pelle nuda del collo e delle braccia, lasciati scoperti dalla camicia di lino. Si sistemò meglio sulla sedia e sorrise.

    Prendo un caffè freddo, Federico. Maggio qui da voi non è come da noi a Milano. È un'altra cosa. Non so, sembra un calore più intenso, più profondo. Un caffè freddo sarà perfetto.

    Benissimo signor Bosoni. Rispose il cameriere tornando ver-so il bancone.

    Era un bar affacciato sulla costa ligure di levante. Uno dei pochi aperti già dall’inizio di aprile. Una sorta di palafitta sulla spiaggia, con il pavimento in legno e una ringhiera di bambù tutta intorno. I tavolini di metallo satinato e le sedie in perfetto stile anni Sessanta, con l’intelaiatura in ferro e la seduta e lo schienale in fili di plastica gialla, che simulavano un’improbabile paglia intrecciata. Qualche ombrellone rosso proteggeva i rari clienti dal sole di primavera inoltrata. Il mare era a pochi passi, tanto che nei giorni di alta marea le onde scivolavano facilmente sulla riva ghiaiosa e lambivano i pali di sostegno della terrazza. Era una delle ultime strutture sul lungomare, lontana dalla strada principale e dai negozi per turisti. Spesso, per lunghi minuti, si poteva godere di un silenzio quasi perfetto, a eccezione del suono ipnotico dell’acqua spumosa che lambiva i ciottoli sul bagnasciuga.

    Federico preparò in fretta la bevanda, emulsionando caffè, ghiaccio tritato, sciroppo di zucchero e vanillina, con la maestria dei suoi quarant’anni di servizio.

    Ecco fatto, signor Bosoni. Agitato e non mescolato, come direbbe leisachì! Disse posando il bicchiere sul tavolino. Pietro Bosoni sorrise educatamente alla battuta che gli aveva sentito ripetere decine di volte da quando era andato lì per la prima volta, quasi un mese prima. L’aveva scelto perché era un bar pulito, tranquillo, lontano da qualsiasi distrazione. E forse anche perché Federico gli era stato simpatico fin dall’inizio. Avevano entrambi superato i sessant’anni, gli stessi capelli grigi e lo stesso amore per la quiete. Ambedue passavano la giornata nei cinquanta metri quadrati della terrazza sul mare, spesso in silenzio e quasi sempre davanti ai loro computer accesi, ognuno immerso nelle proprie silenziose attività.

    A proposito, come procede il libro? Chiese Federico, in uno dei suoi rari momenti di loquacità.

    Non c’è male. Va un po’ a rilento, non proprio come vorrei, ma sono abbastanza soddisfatto. Rispose Pietro. Fece un gesto vago, come per indicare la direzione di una meta ancora lontana, poi abbassò di nuovo lo sguardo sullo schermo. Il libro era lo scopo della sua lunga vacanza. Era andato in pensione all’inizio dell’anno e, dopo aver smaltito il senso di smarrimento dei primi giorni, aveva deciso di provare a scrivere quel romanzo che sognava da sempre. Aveva tutto il tempo del mondo. Era vedovo da oltre dieci anni, nessun figlio e solo una sorella molto più giovane che viveva in Sicilia. Non si incontravano quasi mai e il più piccolo dei suoi nipoti, che ormai aveva sette anni, non l’aveva mai visto, se non su Skype o nelle foto che lei gli inviava con regolarità. Nessun amico vero, nessun legame. Un’esistenza metodica, senza grandi sorprese o grandi cambiamenti, a parte la morte di sua moglie. Ormai si era abituato alla solitudine, ma le settimane svuotate del suo lavoro si erano rivelate più lunghe di quello che si era aspettato.

    L’idea di andare il Liguria era arrivata all’improvviso. Forse era stato un mese di marzo insolitamente rigido a Milano. La pioggia insistente e il cielo sempre basso e grigio. Affittare un piccolo appartamento costava poco e la prospettiva di scrivere il suo libro all’aperto, su un piccolo terrazzo o su un bar in riva al mare, era stata irresistibile. In meno di tre settimane era riuscito a trovare l’abitazione che cercava, aveva pulito a fondo la sua casa, l’aveva chiusa e si era trasferito. Il primo giorno aveva semplicemente passeggiato, familiarizzando con i luoghi e trovando il locale ideale, quello di Federico. Per quasi un mese aveva scritto in religioso silenzio, a parte le poche battute scambiate al bar. Una vita regolare, scandita dai ritmi naturali del suo corpo e della bella stagione. Poi aveva conosciuto Slavenka.

    Era successo due settimane prima, nel pomeriggio di una giornata limpida e fresca. Lei si era seduta davanti a un tavolino del bar ed era rimasta per quasi un’ora a fissare il mare, poi aveva estratto un taccuino Moleskine e aveva cominciato a scrivere con una sottile matita nera. Pietro la osservava di tanto in tanto. Era alta, di costituzione robusta, con le spalle sorprendentemente larghe. Probabilmente aveva praticato qualche sport da giovane. I capelli biondi le scendevano sulla fronte con una buffa frangetta. Era sicuramente di etnia slava. La carnagione chiara, gli occhi azzurri, vagamente lattiginosi. Poteva avere quarant’anni o forse meno, era difficile capirlo. Le mani erano lisce, con le unghie curatissime smaltate di rosa tenue. Appena sotto le sopracciglia, alcune rughe disegnavano una forma arrotondata, rendendo i suoi occhi ancora più grandi, quasi infantili. Il solco fra i grandi seni, che si intravedevano nella discreta scollatura di una camicia dal taglio maschile, mostrava i segni di una vita vissuta un po’ troppo intensamente. Si erano sorrisi con naturale simpatia, un paio di volte, forse perché entrambi erano soli, di fronte al mare, impegnati a scrivere. Per certi versi erano sorrisi complici, anche se un po’ imbarazzati.

    Era tornata il giorno dopo e anche quello successivo. Passava il pomeriggio in silenzio, annotando di tanto in tanto qualche frase sul taccuino e bevendo grandi bicchieri di tè freddo che Federico le portava con la stessa silenziosa discrezione che aveva riservato a lui i primi tempi. Alla fine del terzo giorno lei aveva sollevato lo sguardo su di lui e poi l’aveva spostato su Federico ed era scoppiata a ridere. Una risata fresca, da adolescente.

    Scusate, ma non sono riuscita a trattenermi. Aveva detto con una voce profonda, con un forte accento dell’est europeo. Un’inflessione jugoslava, si sarebbe detto una volta.

    Credo di essere la più giovane del gruppo, eppure sono l’unica che scrive a mano. E voi, tutto il giorno con gli occhi fissi sui vostri computer. Questo è un segno che i tempi cambiano di nuovo, non credete?

    Federico aveva abbassato istintivamente lo schermo del suo portatile, mentre Pietro era rimasto a guardarla, affascinato dal suo timbro esotico e dal suo modo di guardare entrambi, spostando rapidamente lo sguardo da uno all’altro. Avevano cominciato così a parlare, con la naturalezza e la gratitudine di due sopravvissuti. Poche frasi. All’inizio solo sul mare, sul silenzio di quei luoghi, sulla pace che entrambi sembravano cercare. Poi si erano presentati. Si chiamava Slavenka, era di Belgrado, ma viveva in Italia da alcuni anni. Era una ricercatrice. Pietro non aveva capito bene per quale università dal nome incomprensibile lavorasse, ma era qualcosa riguardante l’architettura. Aveva approfondito le tecniche di costruzioni del tardo medioevo nelle zone di confine fra Liguria, Emilia-Romagna e Toscana, soggiornando per un lungo periodo fra Aulla, Pontremoli e Berceto, e si era infine stabilita lì per alcune settimane, con lo scopo di mettere in ordine gli appunti e terminare il suo lavoro. Non era sposata, nessun compagno, nessun figlio e nessun nuovo progetto per il futuro. Pietro la guardava spesso, mentre ascoltava. Era ancora bella, a suo modo, ma la sua espressione a volte si faceva dura, quasi sofferente. Nei lunghi silenzi fra una frase e l’altra, tormentava qualsiasi cosa avesse a portata di mano. Un tovagliolo di carta, la manica della camicia, la matita, un fazzoletto.

    Quella sera stessa si erano incontrati casualmente davanti al negozio di alimentari dove Pietro acquistava i piatti pronti che erano alla base dei suoi pasti solitari. Era sembrato naturale a entrambi cenare insieme a casa sua. Avevano preparato la tavola quasi in silenzio, ascoltando la musica di sottofondo proveniente da una vecchia radiolina che qualcuno aveva abbandonato nell’appartamento ammobiliato. Slavenka beveva molto, apparentemente senza risentirne. Anche Pietro era abituato al vino e ai liquori da quando aveva perso sua moglie, ma beveva soprattutto il venerdì sera o il sabato, quando i postumi del giorno successivo sarebbero stati visibili solo ai suoi occhi. Intanto la voce di Slavenka si faceva sempre più profonda, le sue frasi più brevi. Pietro sentiva il calore del suo fiato, mentre le versava da bere ancora una volta. Gli tremavano le mani quando, nella penombra della stanza, slacciò i bottoni della sua camicia. I seni erano bianchi e pesanti, sotto le sue mani sudate. Lei si voltò su un fianco e gli mostrò il braccio destro, con una vistosa cicatrice appena sotto la spalla. La pelle era tesa, bruciata, orribilmente deformata.

    Che cosa…? Sussurrò Pietro, con la voce rotta da una emozione che quasi non ricordava più.

    Non chiedermi nulla, ti prego. Guardala come se fosse sul corpo di una persona che incroci per strada. Accetterò la tua espressione di disgusto, ci sono abituata. Poi non guardarla più. Dimenticala e basta. Slavenka prese di nuovo il suo bicchiere, bevve di un fiato e poi, insieme, si persero in un mondo e in un tempo che sarebbe rimasto solo loro.

    Anche il risveglio fu silenzioso, con le teste pulsanti dal troppo alcool bevuto, l’imbarazzo delle nudità alla luce del sole, la condivisione frettolosa dell’unico bagno.

    Lei disse che sarebbe tornata al suo appartamento e che si sarebbero visti più tardi. Pietro si avvicinò per abbracciarla ancora una volta, ma Slavenka alzò la mano, il palmo rivolto verso di lui. Un gesto perentorio, che non ammetteva repliche.

    È stato bello Pietro. È stato…ugodan. Piacevole, come dite voi italiani. Ma io ho delle regole. Slavenka parlava in modo lento, come per essere sicura che lui capisse bene.

    Vorrei che tutto questo accadesse ancora. Qui, di notte. Ma fuori da questa stanza i contatti saranno… sporadično. Credo la parola giusta in italiano sia sporadici. Occasionali. Hai capito, no? Ci vedremo al bar. Ci potremo salutare, dire due parole sui fatti del giorno, sul mare o su quello che vorremmo mangiare a pranzo o a cena. Tu per me sarai il signor Bosoni, come ti chiama il barista, e io Slavenka. Saremo solo conoscenti. Io devo finire il mio lavoro e tu il tuo..

    Ma che senso ha? Chiese Pietro, ancora fermo di fronte al suo braccio sollevato. Non abbiamo legami, nessuno ci conosce. Nessuno avrebbe nulla da dire. Siamo liberi.

    Slavenka scoppiò di nuovo nella sua risata infantile. Liberi dici? Sì, in un certo senso hai ragione. Ma le regole sono e rimangono queste. Non mi chiedere altro. Siamo naufraghi che dividono la stessa zattera. Ognuno potrebbe essere il salvagente lanciato all’altro, se le cose fossero diverse. Ma non è così. Voglio bere con te, voglio sentire il calore del tuo corpo. Voglio, come si dice? Uživati! Godere con te. Ma alle mie condizioni. Non dire altro, per favore. Ci vedremo più tardi sulla nostra terrazza. So che saprai come comportarti. E la notte io sarò qui. Oppure non ci sarò. Dipende da te.

    E così era stato. Per due settimane lei era venuta ogni pomeriggio. Scriveva, beveva tè freddo, prendeva garbatamente in giro Federico perché passava ore davanti al suo portatile, sorrideva a Pietro, chiamandolo signor Bosoni e scambiava con lui poche parole. Niente di più. La sera arrivava puntuale per cena, spesso con un paio di bottiglie in un sacchetto di carta, come nei film americani. Quasi sempre rimanevano al buio, bevendo lentamente, ognuno perso nei propri pensieri. Si sfioravano, si toccavano, si amavano, senza mai pronunciare quella parola. Era solo uživati, come diceva lei. Godere. La mattina dopo c’era il caffè forte, il mal di testa, l’odore acido del loro alito e quello inebriante della loro pelle calda e sudata. Poi lei spariva fino al pomeriggio.

    Tutto bene, signor Bosoni? La voce di Federico lo riportò di nuovo sulla terrazza di fronte al mare.

    Sì, grazie Federico. Mi ero distratto. Pensavo a una scena del libro. Mentì Pietro, guardando di sfuggita il display del cellulare, rendendosi così conto di aver fissato l’orizzonte per quasi un’ora.

    Non ha nemmeno toccato il caffè freddo. È rimasto solo immobile. Magari gli scrittori si comportano in questo modo, ma io non ci sono abituato. Mi ero preoccupato, capisce? Non ha più ghiaccio nel bicchiere, vuole che ne aggiunga un po’?

    No, grazie. Va benissimo così.

    Federico si allontanò borbottando qualcosa e Pietro rilesse dall’inizio il capitolo che stava scrivendo, cercando l’ispirazione per proseguirlo. Stava ancora scorrendo le prime righe, quando sentì un rumore secco alle sue spalle. Federico aveva chiuso violentemente lo schermo del suo portatile e si era alzato di scatto. Pietro si voltò istintivamente verso la direzione dello sguardo preoccupato di Federico. Un uomo di mezza età, con i pantaloni grigi e la giacca blu di ordinanza, stava scendendo la scaletta che dalla strada portava alla terrazza. Era molto alto e il cappello scuro, con il fregio dorato della Polizia di Stato, lo faceva sembrare ancora più imponente. Un altro uomo, in abiti borghesi, molto più basso e tarchiato, cercava di tenere il suo passo. Pietro sorrise della reazione del barista. Sapeva da tempo che Federico passava gran parte delle sue giornate su social e chat e, da quel poco che era riuscito a intravedere quando si appoggiava al bancone, si trattava di siti per adolescenti. Ognuno aveva i suoi segreti e lui non aveva mai detto nulla. Si era convinto che Federico fosse una brava persona e che non avrebbe mai esagerato. Ma ora, quella sua reazione spaventata lo lasciava un po’ perplesso.

    L’uomo alto si fermò al centro della terrazza e aspettò che fosse Federico ad andare verso di lui. L’altro era rimasto nei pressi della scaletta, come se volesse bloccare un’ipotetica via di fuga. Faceva caldo, ma l’uomo alto sembrava a suo agio, senza una goccia di sudore, malgrado la giacca e il cappello.

    Buongiorno, è lei il titolare, vero? Fece l’uomo con un tono abituato al comando.

    Sono io. Come posso esserle utile? È successo qualcosa?. La voce di Federico era controllata, ma si percepiva una sfumatura di preoccupazione. Forse non si limitava a parlare con le ragazzine nelle chat o a sbirciare qualche foto. Pietro ebbe un leggero brivido di disgusto.

    Sono l’ispettore capo Giorgio Aldrovandi della Polizia di Stato. Posso farle qualche domanda?

    Federico non rispose, ma fece cenno di accomodarsi a un tavolino in disparte rispetto agli altri, protetto da una piccola veranda in legno. Guardò in modo interrogativo verso l’altro uomo, non sapendo se dovesse invitare anche lui oppure no.

    Grazie, va benissimo qui. Continuo l’ispettore capo Aldrovandi. Lui preferisce stare in piedi. Si chiama Ivan Kuvraz. È un agente della polizia statale croata di Zagabria. Non si preoccupi, parla un buon italiano. Meglio di tanti miei colleghi, glielo assicuro.

    Federico si accomodò, asciugando le mani umide sul tessuto ruvido dei suoi pantaloni di lavoro.

    Posso offrire qualcosa? Disse rivolgendosi a entrambi, cercando di rendere il suo sorriso affabile e tranquillo. Ivan Kuvraz fece segno di no con la testa, poi torno alla sua immobilità.

    Non possiamo, siamo in servizio. Disse Aldrovandi togliendosi finalmente il cappello. Aveva i capelli ancora scuri, ma alcuni filamenti grigi gli conferivano un’ulteriore aria di autorità. Però un caffè per me andrebbe benissimo. Poi piegò la testa verso Federico, fino quasi a sfiorarlo. Magari corretto con Vecchia Romagna, se c’è, altrimenti va bene anche la grappa. Con discrezione, grazie.

    Federico tornò al tavolo con il caffè corretto e due bicchieri d’acqua, chiedendosi se quell’aria di confidenza facesse parte della scena, dei trucchi del mestiere. Decise di rimanere in silenzio e di aspettare che l’ispettore finisse il caffè. Finalmente, dopo qualche minuto, Aldrovandi prese una busta da una tasca della giacca, ne estrasse una fotografia e gliela mostrò.

    Ma certo, io la conosco! Esclamò Federico balzando in piedi. È la signora Slavenka, sicuro. Oh, mio Dio, le è successo qualcosa di brutto?

    No, per quanto ne sappiamo. La conosce bene? È una sua amica, una conoscente, frequenta il suo bar? Cosa può dirmi di lei?

    "Viene qui tutti

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