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La spada dell'impero
La spada dell'impero
La spada dell'impero
E-book502 pagine6 ore

La spada dell'impero

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Info su questo ebook

«Simon Scarrow È il miglior scrittore di romanzi storici.» Il Venerdì di Repubblica

L’imperatore Claudio è morto
Roma è pronta a risorgere

54 D.C. L’imperatore Claudio è morto e Roma è in tumulto. Nerone, infatti, ha preso il potere, ma suo fratello Britannico non è disposto a tirarsi indietro e si proclama a sua volta vero erede al trono. Una sanguinosa lotta per il potere sta per cominciare. Il prefetto Catone e il centurione Macrone non desiderano altro che un’onorevole carriera nell’esercito, al fianco dei loro uomini coraggiosi. Preferiscono fronteggiare il nemico a viso aperto piuttosto che tendere trappole in qualche intrigo di palazzo. Ma la fama di Catone ha catturato l’attenzione di molti, determinati ad avere lui e i suoi invincibili uomini al proprio fianco, quando ci sarà la resa dei conti. Per sopravvivere, Catone dovrà essere astuto e assicurarsi l’appoggio dell’unico uomo di tutto l’Impero di cui si fida ciecamente: Macrone. Perché intorno a loro sta per cominciare una partita di cui ogni singolo soldato di Roma è diventato una pedina. Un gioco politico che potrebbe scatenare una guerra civile in grado di mettere Roma in ginocchio.

Un autore da 5 milioni di copie 
Tradotto in 10 Paesi

Quando un imperatore muore il destino di Roma è in bilico

«Scritto bene e sostenuto da accurate ricerche. Tra gli stranieri da registrare: il nigeriano Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«L’invenzione e la storia si accostano e confl uiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli.»
La Lettura

«Simon Scarrow è riuscito a costruirsi una discreta fama. Merito del modo in cui costruisce i suoi personaggi, ma anche del fatto che ha saputo cogliere e raccontare il fascino di certi momenti storici. Quelli in cui il corso degli eventi determina per sempre il futuro.»
Il Giornale

«Le saghe di Simon Scarrow spopolano.»
Il Venerdì di Repubblica
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore di moltissimi romanzi tra cui Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, L’aquila dell’impero, Sotto un unico impero, La spada e la scimitarra, Roma, sangue e arena, Per la gloria dell’impero, I conquistatori (con T.J. Andrews) e La spada dell'impero, tutti pubblicati dalla Newton Compton. Le sue opere hanno venduto oltre 5 milioni di copie nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822726520
La spada dell'impero
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    La spada dell'impero - Simon Scarrow

    Elenco dei personaggi

    Quinto Licinio Catone, prefetto della Seconda coorte della guardia pretoriana, promettente giovane ufficiale

    Lucio Cornelio Macrone, centurione della Seconda coorte della guardia pretoriana, duro veterano

    Nerone, nuovo imperatore di Roma, figlio adottivo del defunto imperatore Claudio, spera di entrare in una nuova età dell’oro, sempre che trovi l’oro necessario a che ciò accada

    Britannico, figlio del defunto imperatore Claudio; fratellastro di Nerone e niente affatto felice di esserlo

    Agrippina, vedova dell’imperatore Claudio, spera di riprendere il controllo su suo figlio

    Pallante, primo liberto dell’imperatore Nerone, astuto, spietato e avido

    Vitellio, comandante della recente spedizione inviata in Spagna; aristocratico molto ambizioso

    Granico, senatore che ha vissuto abbastanza da vedere tutto e disprezzare i costumi dell’attuale epoca

    Vespasiano, ex legato della Seconda legione e senatore, soldato onesto e abile

    Domizia, moglie di Vespasiano, donna troppo ambiziosa per il bene del marito

    Amrillo, senatore di Roma

    Giunia, Cornelia, mogli di senatori

    Attalo, agente di Domizia

    Fenno, Tallino, spie di Pallante

    Lemillo, ammiraglio della flotta a Miseno, vecchio lupo di mare che mantiene la rotta

    Spiromande, navarca (comandante di squadrone) della flotta a Miseno

    Pastino, legato della Sesta legione, che odia con forza gli avvocati

    Guardia pretoriana

    Burro, prefetto che comanda la guardia, promosso pur non avendo le abilità necessarie

    Mantalo, tribuno

    Terzillio, comandante della Terza coorte

    Cecilio, tribuno minore

    Seconda coorte pretoriana

    Cristo, tribuno; ex amante della moglie defunta di Catone, Giulia, e noto donnaiolo

    Placino, Porcino, Petilio, centurioni

    Metello, Ignazio, Nicolis, Gannico, Nerva, optiones

    Rutilio, vessillifero imperiale

    Altri

    Giulia, moglie defunta di Catone, di probabile dubbia moralità

    Lucio, figlio di Giulia e Catone, non facile da gestire…

    Senatore Sempronio, padre di Giulia, un politico onesto, perciò una perla rara

    Petronella, balia di Lucio e donna a cui non pestare i piedi

    Tribonio, oste della Suburra

    Decimo, portiere della casa di Vespasiano

    Cefodo, avvocato dei delinquenti presso il tribunale del Foro Boario

    Capitolo 1

    Roma, fine del 54 d.C.

    Cominciò, come accade sempre, a causa di qualche bicchiere di troppo. Non che le risse fossero una rarità, nella Suburra, men che meno nella locanda che si chiamava Romolo e la Lupa, ben nota per il suo vino da due soldi, le sue ragazze sempre allegre e per gli informatori che vendevano notizie sulle squadre degli aurighi nelle corse dei carri. Era uno dei più grossi rifugi per ubriachi dei bassifondi, e occupava l’intero pianterreno di un edificio di insulae all’angolo di una piccola piazza. Un lungo bancone correva lungo la parete in fondo, e lì il proprietario, Tribonio, gestiva un gruppetto di donne pesantemente truccate che offrivano da bere ai clienti, insieme a qualche pasto e ad altri servizi per chi voleva soddisfare appetiti più carnali. Due grossi uomini se ne stavano accanto a ciascuna delle entrate che davano sulla strada, per controllare che i clienti non fossero armati, prima di permettere loro di entrare. Alcuni osti si rifiutavano di prendere certe precauzioni per timore di allontanare potenziali clienti, ma Tribonio era in affari da più di vent’anni, e aveva una clientela fissa che accettava le sue regole per poter godere dei piaceri che si trovavano nella sua taverna.

    Quella notte, circa un mese dopo la morte dell’imperatore Claudio, stava piovendo, e le strade di Roma scintillavano sotto lo scroscio regolare dell’acqua. La dipartita di Claudio era stata salutata da un bel po’ di cautela e ansia, da parte del popolo della capitale, e non era stato un bene per gli affari di Romolo e la Lupa, perché molti cittadini si tenevano il più possibile lontani dalle strade, temendo tumulti tra le fazioni rivali che sostenevano i due figli dell’imperatore, Nerone e Britannico. Il vecchio imperatore poteva anche essere stato un po’ stordito e goffo, ma aveva dato sempre al popolo pane e giochi circensi, e soprattutto, il suo regno era stato stabile, senza la crudeltà e la spietatezza immotivate dei due imperatori che lo avevano preceduto. Ma la presenza di due eredi al più potente Impero del mondo conosciuto non poteva che portare, come minimo, a una serie di tensioni.

    Nerone aveva sedici anni, e ne contava tre più di Britannico. Non era figlio naturale di Claudio, bensì il figlio dell’imperatrice Agrippina, che a sua volta era figlia del fratello di Claudio. Il matrimonio tra zio e nipote aveva richiesto di cambiare la legge, ma i senatori avevano deciso di perdonare un problema minimo come quello di un possibile incesto, pur di mantenere il favore dell’imperatore. Così, Nerone era diventato figlio adottivo di Claudio. Tuttavia, il figlio naturale di Claudio, Britannico, non aveva mai accettato il fratellastro, che ben presto era diventato anche il favorito dell’imperatore, a causa del potere che sua madre aveva sulla mente e sui desideri carnali di Claudio. Così, negli ultimi anni del suo regno, Claudio aveva involontariamente creato una rivalità che ora minacciava la pace di Roma. Sebbene l’imperatrice si fosse affrettata ad annunciare che suo figlio era salito al trono, si sapeva bene che Britannico e i suoi alleati non avevano accettato la situazione, e il popolo era di conseguenza preoccupato, mentre attendeva che la rivalità si risolvesse.

    Un gruppo di pretoriani avvolti in pesanti mantelli entrò nella piazza e avanzò in fretta verso la locanda, parlando e ridendo a voce alta. E ne avevano motivo, visto che erano i favoriti degli imperatori, che li ricompensavano molto bene per la loro lealtà. E il nuovo imperatore non faceva eccezione. Ogni pretoriano di Roma aveva ricevuto una piccola fortuna, quando era stata annunciata la successione di Nerone, e le loro borse erano gonfie d’argento. Tribonio alzò lo sguardo con un ampio sorriso, quando i soldati entrarono nel locale, abbassando i cappucci e sfilandosi i mantelli inzuppati di pioggia, che appesero ai chiodi lungo la parete laterale, prima di avvicinarsi al bancone per ordinare le prime coppe di vino. Monete fresche di conio furono gettate sulla superficie di legno macchiato e graffiato, e coppe e fiasche furono portate dal magazzino e offerte agli uomini assetati.

    Non erano i primi pretoriani che entravano nella locanda, quella notte. Un gruppetto più piccolo era arrivato poco prima, occupando un angolo della sala e sedendosi sulle panche ai lati di un tavolo. Quei soldati erano molto meno allegri, tuttavia, anche se avevano usufruito come gli altri della generosità dell’imperatore, e ora il loro capo si voltò a guardare gli uomini al bancone, accigliandosi.

    «Maledetti sciocchi», borbottò. «Che cosa pensano di festeggiare?»

    «Un anno di paga extra, tanto per cominciare», ribatté con un lieve sorriso l’uomo seduto accanto a lui. Poi sollevò la sua coppa di vino. «Un brindisi al nostro nuovo imperatore».

    Il gesto fu seguìto dal cupo silenzio del resto del gruppo intorno al tavolo, e l’uomo continuò, in tono ironico: «Che succede, ragazzi? Nessuno brinda con me al nostro amato Nerone? No? Sono tutti disperati come te, Prisco».

    Il capo rivolse l’attenzione al bancone. «Sì, Pisone, ci sono tutte le ragioni del mondo per essere disperati, considerando la meraviglia senza mento che è finita sul trono. Sei stato in servizio al palazzo quanto me, e hai visto Nerone da vicino. Sai com’è. Non fa che ingozzarsi di leccornie mentre se ne sta in compagnia di poeti e attori. E ha anche un lato crudele. Ricordi quella volta che abbiamo dovuto scortarlo in uno dei suoi anonimi giri per la città? Quando ha iniziato a litigare con quel vecchio e ci ha costretti a bloccarlo contro il muro mentre lo pugnalava a morte?».

    Pisone scosse la testa, a quel ricordo. «Non è stato un bel momento, concordo con te».

    «No», borbottò Prisco a denti stretti. «Proprio per niente. E sarà peggio, ora che è diventato imperatore. Vedrai».

    «Se non altro, ci ha pagati bene».

    «Solo alcuni di noi», replicò Prisco. «Ci sono ancora i ragazzi che hanno fatto la campagna in Spagna. Non saranno contenti di scoprire che non avranno la loro quota di argento, quando torneranno a Roma».

    «Non hai tutti i torti… Comunque, cosa ti fa pensare che il fratellino di Nerone sarebbe un imperatore migliore?».

    Prisco ci pensò su per qualche istante e poi si strinse nelle spalle. «Niente, probabilmente. Ma Britannico non è uno sciocco. Ed è stato cresciuto fin dalla nascita per governare l’Impero. E poi, è il figlio naturale di Claudio. Quindi è suo diritto di nascita diventare imperatore. Invece, quel povero ragazzo è stato messo da parte da quella subdola puttana di Agrippina e da quel viscido bastardo di Pallante».

    Al sentir nominare il consigliere più importante del nuovo imperatore, Pisone si guardò intorno con ansia. La locanda poteva essere uno dei luoghi che spie e informatori imperiali frequentavano per ascoltare le conversazioni e denunciare i dissidenti ai loro padroni al palazzo. Pallante era noto per la sua scarsa tolleranza verso chi lo criticava, e verso chi osava criticare l’imperatore. Tuttavia, non gli sembrò che nessuno stesse origliando, e prese un rapido sorso di vino, prima di lanciare all’amico un’occhiata di avvertimento. «Meglio tenere a freno la lingua, Prisco, o finirai nei guai e ci trascinerai dentro anche noi. Avrei preferito anch’io che il nostro nuovo imperatore fosse Britannico, ma non lo è, e non possiamo farci niente».

    Prisco gli rivolse un rapido sorriso. «Forse non tu. Ma ci sono persone che faranno qualcosa».

    «Che intendi?».

    Prima che Prisco potesse rispondere, furono interrotti da una risata sguaiata alle loro spalle.

    «Guardate un po’, ragazzi: è il nostro amico Prisco con i suoi amichetti!».

    Prisco riconobbe subito quella voce, ma non si girò. Posò la coppa di vino, e rispose ad alta voce: «Ehi, Biblio, perché non vai a farti fottere e mi lasci bere in pace?»

    «A farmi fottere?». Il nuovo arrivato aggirò il tavolo e abbassò lo sguardo su Prisco e i suoi compagni. «Non è questo il modo di salutare un vecchio compagno che porta dei doni».

    Stappò la fiasca di vino che portava sotto un braccio e riempì la coppa di Prisco, prima che lui potesse reagire. Poi sollevò la propria verso gli uomini al tavolo.

    «Bene, ragazzi. Chi si unisce a me in un brindisi al nostro comune benefattore? All’imperatore Nerone, che gli dèi lo benedicano!». Svuotò la coppa in un solo sorso, prima di lanciarla sul pavimento con uno schianto, e di asciugarsi le labbra con il dorso della mano. «Questo sì che è vino buono».

    Nessuno degli uomini aveva risposto al brindisi. Lui li guardò e inarcò un sopracciglio. «Che succede? Non volete bere alla salute del nostro imperatore? A me questo fatto puzza di slealtà». Si guardò intorno, fissando i compagni radunati lì accanto. «Che ne dite, ragazzi? Sembra che a questa gente non piaccia Nerone. Qualcuno potrebbe considerarla più che una slealtà. Potrebbe dire che è tradimento, forse. Non sarà che speravano che fosse quello stronzetto di Britannico a vestire la porpora? Ma, a quanto pare, il nostro ragazzo ha vinto. E il vostro ha perso. La scelta è stata fatta, e ora dovete piantarla di lamentarvi e accettarlo».

    Prisco si alzò con lentezza, sollevando la propria coppa di vino mentre fronteggiava Biblio. «Le mie scuse, fratello. Dove sono finite le mie buone maniere?».

    Poi girò con delicatezza il polso, e un rivolo di vino rosso scuro scivolò sulla mano di Biblio. Prisco continuò a versarlo, risalendo lungo il suo braccio, fino alla spalla dell’uomo, e infine sulla sua testa, dove scrollò la coppa per farne cadere le ultime gocce. Poi ritrasse la mano e fissò Biblio in silenzio, mentre l’altro lo fissava con astio.

    «Te ne pentirai, Prisco».

    «Sul serio?».

    Prisco colpì in faccia Biblio con la coppa, schiantandola insieme al naso del soldato. Poi, mentre l’uomo barcollava all’indietro, con rivoli di sangue che gli scorrevano sul volto, urlò agli amici: «Che state aspettando? Attaccateli!».

    Con un ruggito, i suoi compagni saltarono in piedi, rovesciando le panche e il tavolo prima di caricare gli altri pretoriani, con i pugni sollevati come martelli. Prisco mantenne l’attenzione su Biblio. Aveva sempre considerato quell’uomo uno stupido sbruffone, ed era arrivato il momento di dargli una lezione. Scattando avanti, caricò un gancio che piombò sotto il mento dell’uomo, facendogli rovesciare indietro la testa, seguìto da un pugno allo stomaco e da un montante che colpì Biblio alla mascella, facendolo barcollare prima di ritrovare l’equilibrio.

    Fulminò Prisco con lo sguardo. «Sei morto!», ruggì. «Morto, cazzo!».

    Ma prima che potesse dare seguito alla minaccia, Prisco lo caricò e lo attaccò di nuovo. Biblio scostò la testa per schivare il pugno, ma fu troppo lento, e lo prese dritto sulla gola. Prisco sentì ossa e cartilagini cedere, mentre Biblio grugniva e si portava le mani al collo, annaspando per respirare. Con un pugno sollevato, e basso sulle gambe, Prisco attese che l’uomo reagisse. Ma Biblio arretrò di qualche altro passo, artigliandosi la gola mentre la mascella si muoveva frenetica e gli occhi sembravano volergli schizzare dalle orbite. Poi inciampò su uno sgabello e cadde all’indietro, piombando sul pavimento di pietra e sbattendo la nuca. Restò sdraiato a fissare il soffitto, poi sbatté alcune volte le palpebre, fu scosso da un tremito e rimase immobile.

    Prisco si avvicinò con cautela, ma la rissa si era scatenata nei pressi del bancone e nessuno stava badando a lui. Toccò Biblio con la punta dello stivale.

    «Alzati!».

    Non ci fu risposta, così lo colpì con un calcio. «In piedi, bastardo, così ti mostrerò cosa succede a chi sostiene Nerone».

    Biblio si prese il calcio senza reagire, e il primo brivido di terrore sfiorò la nuca di Prisco. Rilassò i pugni e si accosciò con cautela accanto all’altro.

    «Biblio?»

    «È morto!».

    Prisco alzò lo sguardo e vide una delle ragazze della locanda che lo fissava. Si portò una mano alle labbra, scioccata.

    «L’hai ucciso!».

    «No, io…».

    «È morto!», strillò.

    Alcuni dei pretoriani si girarono, e qualcuno si disimpegnò dalla rissa per capire cosa stesse succedendo. Prisco scosse la testa, abbassando lo sguardo sull’uomo che aveva abbattuto. Sapeva che la ragazza aveva ragione.

    «Ma è stato un incidente…».

    Biblio era morto. Ne era certo, come era certo del sorgere e del tramontare del sole. E c’era una sola punizione per chi uccideva i propri compagni d’arme. Si alzò e arretrò verso l’entrata.

    «L’hai ucciso», esclamò uno degli uomini di Biblio, puntandogli contro l’indice.

    Prisco si girò e fuggì. In strada, senza mantello, sotto la pioggia battente. Senza pensarci, corse nella direzione opposta dell’accampamento dei pretoriani, mentre le grida provenienti dall’interno della locanda lo seguivano.

    Aveva percorso solo un breve tratto di strada, quando sentì qualcuno alle sue spalle urlare: «Eccolo!». Continuò a correre, più veloce che poteva, fino a vedere l’imbocco di un vicolo buio davanti a lui. Ci si lanciò dentro. Svoltò a destra, poi a sinistra, e corse con tutta l’energia che aveva. I passi dietro di lui continuarono a inseguirlo per un po’, prima di svanire in lontananza. Ma continuò a correre, mettendo più distanza possibile tra lui e i suoi inseguitori, finché non si fermò su una strada che costeggiava il Foro, e si nascose tra le ombre di un arco, annaspando per respirare.

    Aveva ucciso un uomo. Era stato un incidente, soltanto un incidente. Ma questo non l’avrebbe salvato dalle regole ferree della disciplina militare. Se si fosse lasciato catturare, sarebbe morto. Soprattutto se si fosse saputo che era contrario al governo di Nerone. Gli ufficiali anziani erano già abbastanza preoccupati di come la lealtà della guardia pretoriana stesse cominciando a frammentarsi. Era ovvio che gli avrebbero inflitto una punizione esemplare, sia per far capire cosa succedeva a chi si opponeva a Nerone, sia per l’assassinio di un compagno d’arme.

    C’era un solo posto dove poteva andare, adesso. L’unico in cui avrebbe trovato altri che la pensavano come lui. Che lo avrebbero nascosto finché le acque non si fossero calmate. Altri che stavano aspettando il momento giusto per rovesciare l’usurpatore Nerone e uccidere tutti quelli che parteggiavano per lui. Non sarebbero stati contenti delle sue azioni, ma avevano bisogno delle sue capacità speciali, e non potevano permettersi di negargli asilo.

    La pioggia aveva ormai smesso di cadere, quando ebbe ripreso fiato e deciso cosa fare. Prisco uscì da sotto l’arco, raddrizzando le spalle, e si allontanò, cercando di sembrare un uomo dalla coscienza pulita. Sapeva bene dove andare e dove il futuro l’avrebbe condotto.

    Capitolo 2

    Il banchetto che segnava la conclusione dei giochi sillani era appena cominciato, quando gli ospiti indesiderati raggiunsero la casa del senatore Sempronio. Era una dimora modesta, per gli standard della maggior parte degli aristocratici del suo rango, ma Sempronio non si era mai appoggiato al nome della propria famiglia per ottenere redditizie concessioni sull’esazione delle tasse, o facili promozioni. Aveva perfino permesso alla sua unica figlia di sposarsi con un uomo al di sotto del suo rango, quando aveva scelto Quinto Licinio Catone, un giovane e promettente ufficiale dell’esercito. Sebbene Giulia fosse morta, aveva comunque messo al mondo un figlio che avrebbe fatto continuare il nome della famiglia del senatore.

    La morte dell’imperatore Claudio, avvenuta appena un mese prima, non era stata una sorpresa per chi viveva a Roma, considerò Sempronio. L’imperatore era vecchio e sempre meno lucido, e ormai non si faceva quasi più vedere in pubblico. Avevano detto che era spirato senza soffrire, e si diceva che si fosse spento mentre era circondato dalla famiglia imperiale e dai suoi più fidati consiglieri. Il successore era stato annunciato quasi subito dopo, facendo osservare ai più cinici abitanti della capitale che la consacrazione di un nuovo imperatore non era una faccenda rapida da gestire, e che con tutta probabilità il cadavere di Claudio era stato lasciato in qualche stanza dimenticata a corrompersi mentre i sostenitori del suo successore gli assicuravano il trono.

    E così, Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico era stato presentato al popolo di Roma come suo nuovo imperatore. Eppure, si mormorava che Claudio fosse stato assassinato dalla sua giovane moglie. Avvelenato. Agrippina poteva aver reclamato la porpora per suo figlio, ma non era un segreto che molte persone influenti osteggiassero con forza Nerone. E ce n’erano di certo anche tra gli ospiti del senatore Sempronio, in quella gelida sera di dicembre.

    Le nuvole cariche di pioggia erano svanite, e il cielo notturno era limpido. Tavoli e triclini erano stati sistemati intorno al grande giardino sul retro della casa, e gli ospiti del senatore erano riscaldati da bracieri, mentre si servivano dei pasticci disposti sui vassoi davanti a loro. Il padrone di casa era al posto d’onore, su una pedana rialzata, con gli ospiti più prestigiosi ai suoi lati. Alla sua destra c’era Britannico, un ragazzo scontroso e intelligente, intento a mordicchiare la crosta di un piccolo pasticcio di cervo e a fissarlo con aria distratta. Dietro al suo triclinio si ergeva lo schiavo analfabeta che gli faceva da guardia del corpo, un grosso ex gladiatore a cui era stata tagliata la lingua in modo che non potesse rivelare nulla di ciò che sentiva.

    Sempronio era rivolto verso sinistra, intento a discutere delle ultime notizie dalla Spagna con un robusto senatore dalla testa rasata e sua moglie, quando la sua attenzione fu attirata dal suo domestico, che si sbracciava con gesti frenetici dal corridoio che conduceva all’entrata principale. Sempronio si asciugò le labbra con la punta delle dita. «Scusami, Vespasiano. A quanto pare, sono richiesto».

    Il suo ospite si accigliò. «Cosa?».

    Sempronio accennò al domestico, e la moglie di Vespasiano annuì, comprensiva. «Non ci si può mai rilassare, quando si organizza un banchetto. Che fatica».

    «Già. Ti prego di non farci caso, Domizia, e di fare onore a questi assaggi. Sono certo che anche tu concorderai con me sul fatto che il mio cuoco non ha eguali, quando si tratta di pasticci».

    Con un sorriso, Sempronio si girò e si alzò dal triclinio. Spazzolando via le briciole dalla tunica, avanzò verso il lato del giardino dove il domestico lo aspettava, con espressione ansiosa.

    «Che succede?», volle sapere Sempronio. «Si tratta forse di quel maledetto suonatore di lira? Hai accettato il prezzo che gli avevo detto, giusto?»

    «Non si tratta di lui, padrone». Crotone scosse la testa. «C’è un uomo del palazzo, alla porta. Dice che l’ha mandato Pallante».

    «Pallante?». Sempronio si accigliò. Cosa poteva volere da lui il liberto imperiale, a quell’ora? Senza dubbio aveva deciso di mostrare i muscoli, ora che il ragazzo che appoggiava era salito sul trono. Pallante si era arricchito a dismisura, sotto il precedente imperatore, e di certo era pronto ad arricchirsi ancora di più sotto Nerone. Era una delle meraviglie di quel tempo che gli umili – e subdoli – liberti avessero più potere e influenza del Senato. I membri di quel nobile organismo avevano governato Roma dai tempi in cui l’ultimo re era stato cacciato, e fino all’avvento dei Cesari. Ma ora i senatori vivevano all’ombra sempre più pesante degli imperatori, sebbene molti ancora sognassero un ritorno dei gloriosi giorni della Repubblica, quando gli uomini servivano l’ideale di Roma, invece di una dinastia di despoti che si consideravano divinità in terra e si lasciavano andare a volubili slanci di crudeltà, follia e stupidità.

    «Molto bene, allora. Vediamo cosa vuole».

    Il senatore seguì Crotone attraverso la casa e fino all’ingresso. Una figura sottile con la tunica blu della casa imperiale era in attesa accanto al portone chiodato. Si inchinò appena, prima di parlare.

    «Senatore Sempronio, ti porto i saluti di Marco Antonio Pallante, primo liberto dell’imperatore».

    «Primo liberto?». Era la prima volta che Sempronio sentiva un simile titolo. Era chiaro che Pallante stesse facendo tutto il possibile per cementare il suo posto al fianco di Nerone.

    «Sì, signore. Il mio padrone mi ha ordinato di informarti che l’imperatore e il suo seguito desiderano onorarti con una visita».

    Sempronio sentì il cuore accelerare, allarmato. «Ha anche detto perché?»

    «Mi è stato ordinato di riferirti che si tratta di una visita di cortesia, signore». Il lieve sorriso dello schiavo fece capire che la preoccupazione del senatore di fronte a quella notizia era stata prevista. «Il mio padrone dice che non c’è alcun motivo di preoccuparsi».

    «Non sono affatto preoccupato!», scattò Sempronio. «Chi crede di essere quel liberto arricchito?».

    Lo schiavo aprì la bocca per rispondere, ma poi ci ripensò e chinò il capo in uno sbrigativo gesto di deferenza. Sempronio lo fulminò con lo sguardo, mentre si costringeva a calmarsi. «Molto bene, quando è prevista la visita dell’imperatore? Dovrò mandare il mio cuoco al Foro, domattina presto. C’è qualcosa che apprezza in particolare?»

    «Signore, verrà questa sera stessa».

    «Questa sera?»

    Il senatore si scambiò un breve sguardo con Crotone. La preparazione del banchetto aveva richiesto interi giorni, e ora avrebbero dovuto interromperlo e mandare via gli ospiti prima possibile.

    «Da un momento all’altro, signore. Sono stato inviato ad annunciare il suo arrivo quando la scorta imperiale stava iniziando a risalire la collina».

    I piedi del Viminale erano a non più di un quarto di miglio di distanza, e mentre Sempronio cominciava a calcolare il tempo che il corteo ci avrebbe messo per arrivare davanti alla sua porta, sentì il tonfo di stivali chiodati, all’esterno, e una voce che urlava di sgombrare la strada. Non c’era tempo per prepararsi a ricevere gli ospiti inattesi. Deglutì nervosamente e fece un cenno a Crotone.

    «Apri la porta».

    Il domestico fece scivolare indietro il chiavistello di ferro e aprì la pesante porta verso l’interno con un vago cigolio dei solidi cardini. L’aria fredda si precipitò all’interno, portando con sé il fetore di immondizia, sudore e vegetazione marcescente che proveniva dalla strada. Basse fiamme accese nei piccoli bracieri ai lati della porta proiettavano un vago riflesso di luce sulla strada lastricata che passava davanti alla casa del senatore. A sinistra, la via scendeva in direzione del Foro e, a meno di trenta passi di distanza, Sempronio vide una torcia tenuta sollevata da un pretoriano. L’elmo piumato di un ufficiale lo seguiva, e, subito dopo, lo scintillio opaco dell’armatura di un manipolo di soldati. Ancora oltre, due lettighe ondeggiavano piano, mentre i portatori cercavano di stare al passo con le guardie. Tra la casa e il corteo imperiale, illuminato dalla luce che usciva da una taverna d’angolo, c’erano diversi giovani, con i pollici infilati spavaldamente nelle ampie cinture di cuoio. Alcuni stringevano ancora in mano delle coppe di ceramica.

    «Voi! Fuori dai piedi, ho detto!», urlò l’ufficiale dei pretoriani. «O sentirete il piatto della mia spada sulle chiappe. Muovetevi!».

    Il più grosso dei ragazzi, con la faccia butterata incorniciata da unti riccioli scuri, si fece avanti e piegò la testa di lato.

    «Ragazzi, che succede? Ospiti sulla nostra strada? Non mi pare di averli invitati».

    La sua banda, fomentata dal vino scadente, scoppiò a ridere, sbeffeggiando i pretoriani in avvicinamento.

    «A nome di chi venite nel nostro quartiere, amico?»

    «Nel nome dell’imperatore! E ora spostatevi, se non volete essere gettati in pasto alle belve».

    Uno dei giovani sollevò le dita alla bocca ed emise un fischio derisorio. Il capo scolò quel che restava del suo vino e lanciò di colpo la coppa contro i soldati. Finì contro la cresta dell’elmo dell’ufficiale, esplodendo in un caos di frammenti e schegge.

    «Piccoli bastardi!», urlò l’ufficiale. «Adesso vi faccio vedere io!».

    Sguainò la spada, spinse via l’uomo con la torcia in mano e scattò verso i giovinastri. Il leader si girò con grazia.

    «Via, ragazzi!».

    Con una serie di strilli eccitati, i giovani corsero via sulla strada, oltrepassando la casa di Sempronio, per poi svoltare in un vicoletto un po’ più avanti, mentre le loro risate svanivano in lontananza. L’ufficiale rinfoderò la spada con un’imprecazione a denti stretti, e riprese a condurre il corteo verso l’entrata, dove gridò un ordine. I soldati si fermarono, e passò un attimo, prima che l’ufficiale desse un nuovo ordine e coppie di uomini corressero avanti per prendere posizione e controllare le strade e i vicoli intorno alla casa del senatore. Una volta che furono ai loro posti, l’ufficiale fece cenno alle lettighe di avanzare e si girò a salutare Sempronio.

    «Sesto Afranio Burro, prefetto della guardia».

    Sempronio non aveva mai visto prima quell’uomo, ma il nome lo conosceva. Burro era uno degli ufficiali promossi negli ultimi mesi del regno di Claudio, su consiglio di Pallante e dell’imperatrice, ed era uno dei sostenitori di Nerone.

    Non ci fu il tempo di rispondere al saluto, perché la prima lettiga si era già fermata davanti all’entrata. Il capo dei portatori bisbigliò un ordine e la lettiga fu abbassata con attenzione al suolo. Ci fu una breve pausa, durante la quale Sempronio riuscì a sentire un breve e sussurrato scambio di parole, prima che una mano si allungasse oltre le pieghe della stoffa che copriva il mezzo, scostandone i lembi. Ne uscirono degli stivali di lucida pelle rossa, e poi l’imperatore si alzò in piedi, stiracchiando la schiena. Finse di ignorare Sempronio, mentre offriva la mano alla madre, e un attimo dopo Agrippina si alzò al suo fianco, con l’elaborata acconciatura un po’ storta mentre si sollevava la stola per coprirsi la spalla. Sempronio notò un piccolo segno rosso, come quello di un morso, sul collo della donna, e si affrettò a distogliere lo sguardo.

    Portando un braccio intorno alla vita della madre, Nerone si rivolse al senatore e parlò in un tono che faceva pensare a un incontro casuale sulla via.

    «Ah! Mio caro senatore Sempronio! È un piacere vederti».

    Sempronio si inchinò. «Il piacere è mio, altezza imperiale».

    «Ne sono certo. Ma lasciamo da parte le formalità. Siamo tutti amici, adesso».

    «Tu mi onori».

    Nerone agitò una mano con noncuranza, prima di continuare: «Mi è stato detto che stai intrattenendo degli ospiti, questa sera. Un banchetto, a quel che ho saputo».

    Sempronio annuì. «Un modesto festino».

    «Poco ma sicuro, secondo le abitudini del palazzo. Ho anche saputo che tra i tuoi ospiti c’è il mio fratellastro».

    «Sì, altezza».

    Nerone si avvicinò a Sempronio, finché i loro volti non furono a meno di un palmo di distanza. Fissò il senatore in silenzio, per poi piegare di colpo la testa di lato, battendogli una pacca sul petto. «Come ho detto, vorrei che questo fosse un incontro informale. Per questa sera, puoi chiamarmi Nerone».

    Il passeggero dell’altra lettiga era uscito e si stava avvicinando. Quando raggiunse la luce dei bracieri, Sempronio lo riconobbe: era Pallante. Il liberto imperiale indossava una tunica di seta color porpora sotto a un caldo mantello di lana. Oro e gioielli scintillavano sulle sue dita.

    Nerone si girò a guardarlo. «Britannico è qui, proprio come avevi detto».

    Pallante sorrise appena. «Naturalmente. La domanda è perché è qui?».

    La richiesta era diretta a Sempronio, ma il liberto continuò a sorridere all’imperatore, come se il senatore fosse un semplice servitore in attesa del corteo imperiale. Sempronio deglutì nervosamente. Pallante lo fissò con gli occhi scuri.

    «Ebbene, senatore?»

    «Ho lavorato a stretto contatto con l’imperatore Claudio, e conosco Britannico fin dalla più tenera età. Era mio dovere proteggerlo, allora, e lo è anche adesso. Sento di doverlo a suo padre, che è sempre stato gentile con me, e mi ha sempre sostenuto».

    «Molto nobile, da parte tua». Nerone sorrise. «Sono certo che il mio defunto padre ti sarebbe riconoscente per la gentilezza che hai dimostrato verso il sangue del suo sangue. E ora, se fossi così cortese da portarci al banchetto, saremmo piuttosto affamati. Venite!».

    Senza attendere un invito, l’imperatore e sua madre superarono la soglia e si avviarono oltre il modesto ingresso, verso il corridoio che conduceva al giardino sul retro della casa. Pallante diede ordine a Burro di assicurarsi che nessuno entrasse o uscisse dalla casa senza il suo permesso, e poi li seguì. Sempronio si affrettò a raggiungerlo e gli si affiancò.

    «Avrei preferito essere avvertito», mormorò, in tono basso ma duro.

    «E io avrei preferito sapere dove si trovava Britannico. Ha lasciato il palazzo senza dirlo a nessuno. E nessuno se ne è accorto, finché la famiglia imperiale non si è seduta a cena. Quando non si è presentato, non ci è voluto molto perché uno dei suoi schiavi rivelasse la verità. Per come stanno le cose, sono certo che tu possa capire che l’improvvisa sparizione di Britannico dal palazzo potrebbe essere considerata sospetta».

    Sempronio gli lanciò un’occhiata di sbieco. Se qualcuno sospettava del principe, quello stesso sospetto sarebbe ricaduto su chi gli era intorno.

    «Sono certo che non ci sia nulla di strano dietro al fatto che abbia accettato un invito a casa mia. Come ho già detto, siamo amici».

    «Amici». Pallante annuì. «Questo è un bene. Al momento, un uomo ha bisogno di tutti gli amici possibili. E ha bisogno di sapere esattamente di chi fidarsi e di chi diffidare, e agire di conseguenza. Questo vale per tutti noi, mio caro senatore Sempronio, dal più ignobile criminale della Suburra fino all’imperatore in persona. Capisci quello che intendo dire?»

    «Alla perfezione».

    Pallante gli batté una pacca sulla spalla. «Molto bene. Comunque, abbiamo rintracciato Britannico e possiamo smettere di preoccuparci, adesso».

    Uscirono dal corridoio proprio alle spalle di Nerone e di sua madre, e in un attimo il brusio costante della conversazione tacque, e sul giardino calò il silenzio, a parte il vago gocciolio dell’acqua di una fontana. Sempronio alzò lo sguardo verso la pedana rialzata e vide un’espressione preoccupata sul volto di Britannico.

    Poi Agrippina batté le mani e trillò: «Che meraviglioso banchetto! È come se il fascino della campagna si fosse trasferito proprio qui, nel centro della nostra affollata capitale. E quanti visi familiari!».

    Avanzò verso gli ospiti più vicini e li salutò per nome, mentre si affrettavano ad alzarsi per portarle rispetto.

    «Vi prego, restate seduti. Non intendevamo creare confusione; volevamo soltanto entrare e unirci al banchetto senza proclami. Senatore Granico, che piacere. E anche tu, mia cara Cornelia».

    Nerone si fece avanti per affiancare la madre, e poi la seguì mentre attraversava il giardino, raggiungendo la pedana dove Sempronio aveva accolto i suoi ospiti più importanti. Il senatore si girò e fece cenno al domestico. «Presto, fai portare un altro triclinio per la pedana».

    Nerone lo sentì e scosse la testa. «Non ce n’è bisogno, amico mio. Facci sedere dove c’è posto. Non c’è bisogno di agitarsi».

    Vespasiano e sua moglie si erano già alzati dai triclini, mentre Agrippina si avvicinava.

    «Siete sicuri?».

    Vespasiano chinò il capo. «Non c’è problema. Troveremo un altro posto dove stare».

    «Siete davvero gentili». Agrippina sorrise impudente a Domizia. «Che marito cortese. Un vero gentiluomo, ne sono certa».

    «Sì», replicò secca Domizia. «È così».

    Agrippina volse loro le spalle e si sdraiò con grazia sul triclinio, battendo con il palmo della mano sui cuscini vuoti accanto a sé. «Vieni, Nerone. Siediti accanto a tua madre».

    Lui l’accontentò, occhieggiando i pasticci che aveva di fronte. Pallante, consapevole del suo stato sociale, si allontanò dal triclinio e restò in piedi, intrecciando le mani in grembo. Agrippina osservò gli ospiti che continuavano a guardarli in silenzio.

    «Continuate pure a mangiare. Sempronio, ti prego, riprendi posto. Ecco. Molto meglio».

    Uno dopo l’altro, gli ospiti ricominciarono a parlare a mezza voce, e ben presto il tono della conversazione si alzò, mentre le persone si allungavano a prendere nuovi bocconcini per riempire i piatti d’argento. Agrippina attese che lei e Nerone non fossero più al centro dell’attenzione di tutti, e poi si rivolse a Britannico. Il principe le restituì con cautela lo sguardo, ma Sempronio notò che gli tremavano le mani. La matrigna si piegò in avanti e gli presentò la guancia. «Baciami, mio caro».

    Lottando per contenere nervosismo e disgusto, Britannico deglutì a vuoto e allungò il collo per sfiorare con le labbra la guancia incipriata, ritraendosi subito dopo.

    «Bene, eccoci qui». Agrippina batté le mani. «Un’unica famiglia felice…».

    Capitolo 3

    Il gruppo imperiale continuò a parlare del più e del meno finché la prima portata non fu consumata, e Sempronio segnalò al domestico di far portare via i vassoi di cibo. La conversazione, sulla pedana rialzata, era dominata dal giovane imperatore, mentre Nerone esponeva il suo punto di vista sui meriti della cultura greca e la necessità di portare più arte, poesia e musica nella vita del popolo romano. Era uno dei suoi argomenti preferiti, e che Sempronio aveva sentito già in molte occasioni, quando era stato in compagnia della famiglia imperiale. Si era ormai abituato ai discorsi altisonanti di Nerone in merito, ed era piuttosto annoiato.

    L’imperatore spazzolò via qualche briciola dall’ispido accenno di peluria sul mento che voleva far passare per barba, masticò rapidamente, deglutì e riprese: «Naturalmente, non voglio dire con questo che le arti più raffinate siano adatte al popolo. No, tutt’altro. Alla plebe può piacere qualche volgare spettacolo di mimi, o qualcosa di semplice, in ambito artistico, ma apprezza molto di più la carne e il sangue degli scontri tra gladiatori e delle corse dei carri. E non c’è niente di male ad apprezzare questi divertimenti, ma la vera misura di un uomo è nel modo in cui apprezza le più alte vette dell’arte di cui può godere. Non sei d’accordo, Sempronio?»

    «Come potrei non essere d’accordo con tale impeccabile argomentazione?»

    «Certo. E ne consegue che la maggior parte degli uomini non è in grado di apprezzare le belle arti. Ciò richiede una certa sensibilità, un certo senso estetico che si possiede o non si possiede. Non può essere insegnato».

    «Davvero?», intervenne Britannico, piegandosi in avanti per poter guardare il fratellastro sporgendosi oltre Sempronio. «Allora dimmi, secondo te ci sono uomini nati per suonare un dato strumento musicale, per esempio la lira? Se avessi ragione, come mai dobbiamo tutti imparare a suonarla?».

    Nerone sospirò. «Stai prendendo il discorso troppo alla lettera, fratello, come sempre. È chiaro che dobbiamo imparare a suonare uno strumento musicale, ma la capacità di suonarlo bene è innata. Come l’abilità nel canto».

    «Ah, allora avresti potuto dire così».

    Nerone si accigliò. «Ci sono volte in cui la tua pedanteria mi stanca molto».

    «E ci sono volte in cui faccio fatica a sopportare la tua imprecisione nell’esprimere i pensieri, fratello. Mi sarei aspettato di meglio, dopo che Seneca è diventato tuo mentore e insegnante».

    Le labbra di Nerone si strinsero in una linea sottile. «Temo che tu abbia dimenticato che ti stai rivolgendo al tuo imperatore. Attento a come parli».

    «Farò molta attenzione. Faccio sempre molta attenzione. E mi pare che tu abbia ripetuto più volte, negli ultimi giorni, che hai intenzione di accettare la libera espressione delle idee e di assicurarti che le persecuzioni politiche abbiano fine. Come parte dell’età dell’oro che hai proclamato, presumo».

    Nerone restò in silenzio per un attimo, prima di rispondere: «Se non ti conoscessi bene, direi che ti stai prendendo gioco di me».

    «Allora mi sembra chiaro che non mi conosci affatto».

    «Ti avevo avvertito di fare attenzione. Ho tollerato fin troppo a lungo le tue divagazioni e i tuoi commenti, mio caro fratello. Attento a non oltrepassare il limite. È vero che sono stato cresciuto in una casa austera e priva di libri, mentre tu sei stato istruito dai più grandi insegnanti che tuo padre potesse trovare. Ed è anche vero che la mia infanzia è stata quasi del tutto priva di affetto, mentre mia madre trascorreva una parte della sua vita in esilio. Mentre tu crescevi tra gli agi al palazzo, come figlio dell’imperatore. Ma ora le cose sono cambiate. Tuo padre – nostro padre – è morto, e l’imperatore sono io. Ho potere di vita e di morte su tutti coloro che vivono nella mia ombra».

    Britannico si strinse nelle spalle. «E tanti saluti all’età dell’oro della libera espressione».

    «Non provocarmi, mio caro Britannico. La pazienza di ogni uomo ha un limite».

    Nel tentativo di placare gli animi, Sempronio si rivolse all’imperatore. «Stavi giusto parlando di canto. Canti ancora, come facevi da

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