Fantasmi pieni di sonno
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Anteprima del libro
Fantasmi pieni di sonno - Luca Marchesini
Specchio oscuro
30
Fantasmi pieni di sonno
Luca Marchesini
ISBN: 978-88-7980-582-7
© 2009 Greco & Greco editori, via Verona, 10, Milano
www.grecoegrecoeditori.it
Quella casa era piena di fantasmi
Quella casa era piena di fantasmi, non era una mia allucinazione, tanto è vero che altrove non ne ho mai visti ma in quella casa sì, e d’altronde Marghi me lo confermava, lei che come me fantasmi prima non ne aveva mai visti e invece in quell’appartamento li vedeva eccome fin da quando era venuta a abitarci con la famiglia, e soffrire in due delle stesse allucinazioni nello stesso posto sarebbe una cosa ben strana e in tre poi, perché anche suo padre li vedeva, non sempre come lei, solo una volta ogni tanto, però li vedeva, sua madre invece no e era preoccupata per il marito, non per Marghi, non so bene perché, e sì che a lei si mostravano quasi tutti i giorni, forse pensava che per i giovani è normale avere certe mattane che poi gli passano quando si sposano anche perché ai suoi tempi si usava che in genere certe cose una donna mica le faceva prima di essere sposata, o forse era solo che a Marghi non voleva bene come a suo marito ma meno.
A ogni buon conto in quella casa i fantasmi c’erano, altroché.
Quando ero bambino ai fantasmi non ci credevo. Adesso invece ci credo, ci credo perché li ho visti in quella casa. Via Revere, il nome di un poeta di un paio di secoli fa ma anche una cosa come rovere, rovi rovine cassa da morto, però allora in molti avrebbero dovuto vedere fantasmi, da quelle parti, e invece che io sappia a vederli eravamo soltanto Marghi e io e qualche volta suo padre, mentre sua madre non li vedeva e insisteva perché il marito andasse da uno psichiatra mentre per Marghi avrebbero provveduto il tempo e qualcos’altro. Se avesse saputo cosa succedeva in quella casa fra me e Marghi quando loro non c’erano forse avrebbe cominciato a preoccuparsi anche per lei, però non lo sapeva.
Esistono, fra i luoghi, delle affinità, come un’eco dentro. Così quella zona, con i suoi antichi palazzi i suoi viali alberati i giardini e tutto il resto, non è che una briciola di Vienna, una briciola schizzata lontano. Via Revere però, e soprattutto lo stabile in cui abitava Marghi, con quel portone di legno scuro, più che a Milano faceva pensare a Lodi e dunque non a Vienna ma a una qualche città inglese, a Oxford, per esempio, e per non restare nel vago. C’è, a Oxford, fra gli altri, un vecchio pub, una roba tutta sottoterra che ci si va giù con una scala a chiocciola, appena un mezzo giro, però ripida e con un soffitto basso che ci sbattevo ogni volta con la testa e in più dovendo scendere rannicchiato rischiavo d’inciampare, e una volta ho inciampato davvero e sono rotolato, per fortuna erano gli ultimi gradini, e sono arrivato così fino al banco fra le risate di alcuni avventori e l’indifferenza di altri dallo sguardo perso. Perso in un boccale di birra. In un ricordo doloroso. Ci sono certi cortiletti, a Oxford, e anche a Lodi mi ricordo di un cortiletto, quasi un cavedio, se non per un pertugio angusto, un breve angusto tunnel e poi appunto quel cortile e una bettola, ci si spendeva niente però si mangiava bene, roba semplice ma saporita, e sostanziosa anche. Invece quel pub di Oxford aveva fuori un’insegna, sopra c’era dipinto un orso e anche nel nome c’era un orso, una cosa come la tana, o qualcos’altro, dell’orso. In genere ci capitavo col buio ma qualche volta anche per il lunch, un boccale di birra scura, nera, come il portone della casa di Marghi, però allora Marghi era un pezzo che non la vedevo più, non sapevo nemmeno che fine avesse fatto, certo non pensavo a lei nonostante il richiamo del colore della birra, ne gocciolava spesso da un bancone, c’era sempre un ubriaco che rovesciava una bottiglia o un boccale, il nero la schiuma bianca e nera e un lacrimare meticoloso e assente.
Quello di Marghi era un appartamento colorato, buio ma colorato. Forse era il fatto d’essere buio a farlo sembrare più colorato. Il verde di una porta, al termine di un ballatoio lungo e stretto trasudante miseria. Un’altra porta di legno scuro. Il rosso di un copriletto o di un cuscino. Marghi suonava la chitarra. La suonava sempre, quando io ero lì e i suoi genitori stavano per uscire, così loro pensavano che avrebbe continuato a suonare anche dopo. Invece smetteva quasi subito, il tempo di lasciarli allontanare.
Allora i fantasmi cominciavano a prender forma.
Io dei fantasmi non so dire che cosa siano, anime di morti, schegge di vita rimaste intrappolate nei muri e che i muri di continuo rigettano fuori senza riuscire a liberarsene una volta per tutte, sogni collettivi di menti che particolari circostanze trasformano in un’unica mente. Forse, neanche questo mi sento di escludere, ce n’è di più tipi, anche se non sempre è facile stabilire a quale di questi tipi ciascuno di essi appartenga. In quella casa avevo l’impressione che fossero per lo più emanazioni delle pareti, fatti o pensieri impastati nei muri che i muri esalavano come bolle di palude, e infatti i primi che comparivano sulla porta, senza neppure aspettare che il giallo silenzio pomeridiano ricoprisse del tutto gli ultimi passi di quei due lungo le scale o il clic dell’ascensore al pianoterra, avevano l’evanescenza di vapori, si vedevano e non si vedevano, una coloritura dell’aria, incerta tondeggiante fluida. Il fatto è che io all’anima non ci credo, trovo assurda l’idea di una cosa che senza essere corpo sta però in un corpo, una cosa che senza essere materia occupa spazio. Oltretutto, se davvero i fantasmi, o certi fantasmi, fossero anime disincarnate, perché mai sfoggerebbero il più delle volte un abbigliamento impeccabile, anziché mostrarsi nella nuda forma da cui ciascun’anima è stata a suo tempo ricoperta? No. Più che una stranezza del genere, posso ammettere casomai un desiderio di vita, qualcosa di tanto forte, nel vivo, da sopravanzarne il limite naturale, appiccicandosi ai muri, agli oggetti, servendosi delle cose come di organi di un nuovo corpo. Occhi per vedere, bocche per gridare. Marghi e io andavamo qualche volta in un locale con amici comuni, una taverna greca dove ti servivano il vino in brocche di rame e per tovaglia stendevano un foglio di carta bianca, il posto era un po’ buio e le lampade trasudavano luce sanguigna, però i muri risplendevano, bianchi di calce, e le macchie di vino sulla tovaglia erano occhiaie vuote e bocche senza voce.
I ricordi sono una cosa strana, assomigliano certe volte a finestre illuminate, finestre vicine con dietro persone diverse, e così a Oxford nella tana dell’orso, la tana o qualcos’altro, ristagni di birra sul bancone e un lacrimare meticoloso, certo non pensavo a Marghi, non sapevo neppure che fine avesse fatto, anche se anni ne erano passati pochi, un paio forse tre, la vicinanza una questione di prospettiva, Marghi rideva e qualche volta mi passava una mano sopra la spalla, gli altri ridevano e anche lei rideva con loro, non vedeva le macchie sulla tovaglia, perché lei vedeva soltanto i fantasmi fantasmi, li vedeva in casa sua, anch’io vedevo i fantasmi in quella casa, però vedevo anche i desideri di vita arrancare per costruirsi nuovi corpi, mentre Marghi rideva con gli altri, mi passava una mano sopra la spalla e intanto rideva non so nemmeno di cosa però mi faceva rabbia vederla ridere in quel modo girata dall’altra parte e così all’improvviso colpii la brocca di rame, colpii la brocca rovesciando il vino sulla tovaglia e tutto intorno, e gli altri fecero ohh e Marghi invece che era girata ancora non capiva bene e rideva e lui il greco a dire ragazzi calma con voce bassa da greco, calma o vi butto fuori, e io intanto vedevo il vino ristagnare sulla tovaglia di carta lucida che non riusciva a assorbirlo così in fretta e i morti finalmente avevano una voce, i morti o i vivi di un tempo e il loro desiderio di vita più coriaceo della vita.
Anche se in fondo sono la stessa cosa, vita e desiderio di vita, quel desiderio che porta un grumo di materia, morendo in ogni istante, a riplasmare sé stesso per l’istante successivo, a plasmare un grumo che gli somiglia molto, perché due cose uguali non esistono, perché due cose uguali non sono due sono una, perché basta così, e allora ecco, tutto vive, ogni porzione di realtà si ricrea trapassando in ogni altra, continua è vita per chiunque sia in grado di cogliere una somiglianza tra i fotogrammi del suo esistere, è vita se non altro per sé stessa, un riflesso di luce un odore, l’odore della pelle, il rosso di un copriletto o di un cuscino, gli esseri si compenetrano e non se ne accorgono, si compenetrano rimanendo estranei, Marghi lei altre continuità non ne coglieva, per lei c’erano solo fantasmi da tutti riconoscibili come tali, io mi ero illuso, era solo una piccoloborghese, che vedeva cose che gli altri non vedevano ma immaginava solo quelle che anche loro riuscivano a immaginare, una piccoloborghese visionaria e una visionaria piccoloborghese, ma in fin dei conti era proprio questo che mi piaceva di lei, anche se poi mi faceva rabbia vederla ridere in quel modo, soltanto visionaria mi sarebbe mancato il terreno sotto i piedi. Magra, una zanzara. Una zanzara con due chiodini che le spuntavano davanti.
Allora i fantasmi cominciavano a prender forma.
Se Marghi certe esistenze non le coglieva, non voglio dire con questo che io le colga tutte, anzi, anche perché a rigore potrebbero essere infinite, tante quante le linee che variamente collegano tra loro gli infiniti punti dello spazio e del tempo. A Oxford ero rotolato per una scala a chiocciola, anche in quella taverna greca c’era una scala a chiocciola, scendeva o saliva da qualche parte, impregnata di buio, e anche quella era una continuità, i fantasmi che anche Marghi vedeva, i fantasmi fantasmi, erano in fondo i più simili ai comuni mortali, e non è detto che mortali non fossero a loro volta, almeno a giudicare dalla loro espressione quasi sempre mesta, apparentemente rassegnata più al trascorrere dei giorni che all’eternità, se non è poi la stessa cosa. Le innumerevoli vite che io intuivo, e che Marghi ignorava del tutto, questi fantasmi, se pure dotati di coscienza, potevano ignorarle anch’essi. D’altronde, che possedessero una coscienza vera e propria è secondo me assai improbabile. Sentimenti ne provavano di sicuro. Più che altro, provavano un contenuto dolore, ma questo non vuol dire ancora possedere una coscienza, lo provavano senza saperlo. Uno di questi fantasmi era un violinista, però quando si presentava, a casa di Marghi, suonava quasi sempre il violoncello, forse per far comprendere meglio la propria rassegnazione. Aveva lunghi baffi che gli scendevano lungo le guance paffute e lo facevano assomigliare molto alla sagoma di una marionetta che stava appesa al muro, nella taverna dove avevo rovesciato il vino sulla tavola, solo che la marionetta indossava una giubba militare, blu con i bottoni d’oro, mentre il fantasma che compariva da Marghi vestiva in modo assai dimesso e quasi mai alzava dal pavimento lo sguardo, mentre muoveva l’archetto avanti e indietro, avanti e indietro, accompagnando le nostre evoluzioni, ma piuttosto le evoluzioni di Marghi, con una sola nota, sempre la stessa, strascicata e lenta, come una grossa zanzara. Sinceramente mi faceva pena. Se anche un’eternità si apriva davanti a lui, certo