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Segni verso un disegno
Segni verso un disegno
Segni verso un disegno
E-book197 pagine2 ore

Segni verso un disegno

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Info su questo ebook

Dentro un piccolo baule blu si ritrovano svariate carte, quaderni, taccuini, fogli sfusi e un raccoglitore di vignette. Rovistando e scartabellando, l’autore, nel ruolo di redattore si applica, affinché assumano una fisionomia oltre i limiti di un confuso canovaccio abbandonato. Non otterrà un disegno ben rifinito, ma potrà almeno proporre un arrangiamento testuale fruibile: un’opera in via di formazione, dove va delineandosi l’ascesa del boss Ugariello Migliaccio, detto Menelik il ras. Attorno a lui una folla di figure: padrini, cumparielli, guaglioni. Accade una girandola di avvenimenti come uno spettacolo di varietà, e ogni tanto affiorano, quasi fuori campo, le voci di un poliziotto e di un giudice.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2012
ISBN9788879805858
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    Anteprima del libro

    Segni verso un disegno - Vittorio De Matteis

    Specchio oscuro

    34

    Segni verso un disegno

    Vittorio De Matteis

    ISBN: 978-88-7980-575-9

    © 2010 Greco&Greco editori, via Verona, 10, Milano 

    www.grecoegrecoeditori.it

    1

    Un ingorgo fenomenale tra i fumi, tra i gas buttati fuori dalle marmitte. Un gran guazzabuglio senz’apparente via d’uscita: automobili, camion, pullman, furgoni, furgoncini e svariati catorci. Nessuno si muove più. Tanti colori, tante forme: una enorme ferraglia arenata, ammassata in ambedue i sensi di marcia. Tutt’una trappola. Qua in mezzo Ugariello Migliaccio a bordo della sua Suzuki bordò viaggia zigzagando, sterzando ora a destra ora a sinistra, infilando risicati varchi e spiragli sul lungomare Caracciolo. Pensa, soddisfatto di pensare laconicamente: vaffanculo. E svicola, solleva nella fantasia un dito medio teso: vaffanculo. Non c’è altra parola da usare.

    Svicola tirando un respiro di sollievo, e via! caracollando, sgaloppando, sotto il sole che sprigiona splendidi raggi nel cielo senza nuvole. Emerge così dalla massa anonima, e corre, ormai corre, Ugariello Menelik, ma semplicemente Ugo Migliaccio per l’anagrafe.

    Il vezzeggiativo, Ugariello, risale all’epoca in cui non era che uno scugnizzo nato e cresciuto nei Vicoli Spagnoli. Piuttosto recente invece il soprannome, un titolo d’onore: Menelik, come dire ras, cioè capo. Appunto amici e nemici, o finti amici, nonché soci oppure concorrenti, se parlano di lui, spesso lo indicano per esteso, gonfiando la voce: Ugariello Menelik il ras.

    In breve, un boss.

    Riferisco quel che trovo su antiche carte custodite dentro un piccolo baule blu in soffitta.

    Carte: precisamente quaderni, quadernetti, taccuini tascabili, fogli sciolti, qualcuno spiegazzato, altri arrotolati.

    Ma voglio essere più preciso:

    due quaderni dalla copertina fantasia, sessantotto pagine il primo, cinquanta l’altro, perciò rispettivamente denominati il Maggiore e il Minore; due magri quadernetti, copertina color seppia, denominati per comodità d’uso: Alfa, il meno sottile; Beta, il più sottile;

    cinque taccuini dalla copertina marrone, grandi poco più di un portafoglio, numerati da Uno a Cinque; un discreto quantitativo di fogli sfusi, formato protocollo, qualcuno arrotolato, stretto da un cordoncino gialloverde;

    un voluminoso Album contenente ritagli di giornale, protetti uno per uno da buste di plastica morbida trasparente;

    un Raccoglitore a fogli mobili dove riposano varie vignette, scenette perlopiù dotate di didascalie o di nuvolette come nei fumetti.

    C’è questa ricchezza cartacea dentro il baule: roba smembrata, pezzi e pezzetti da riunire, da ricucire alla bell’e meglio, mettendoci un certo impegno, un certo tempo.

    Imbarchiamoci dunque nell’Avventura.

    Si parte dal quaderno Maggiore, prima pagina. Lungo i margini laterali affiorano otto disegnini in bianco e nero, come tanti poster, ma in miniatura, attaccati sulle pareti per ornare le camerette dei ragazzi. Ecco una pupattola con la gonna a forma di triangolo, poi il pupattolo con i pantaloni a tubo; e ancora: una cassaforte classica, una pipa alla maniera di Magritte, un paio di natiche grassocce, un’ascia di guerra, una clessidra con la sabbia che scivola giù a piombo, un alberello rigoglioso di rami e di foglie.

    L’ultimo disegno, quasi lo stesso, riappare ingrandito nella zona superiore della pagina. Fa da simbolo.

    Rappresenta il tipico clan, la struttura di una famiglia in senso largo. Vediamola al dettaglio qui sotto.

    Il boss è la base, colui che comanda.

    Gli affiliati di alto rango formano il tronco, la colonna portante. Sono i parenti stretti, gli amici sicuri, i cumparielli.

    I rami poi significano i guagliuni che da poco tempo hanno intrapreso la carriera, denominati scagnozzi se non più di primo pelo, quindi abbastanza esperti.

    A completare lo schema figurativo, i ramoscelli designano i fiancheggiatori, i collaboratori esterni, gli amici degli amici.

    Tra i ramoscelli, conviene dirlo, i resoconti giornalistici a disposizione segnalano soggetti marginali: il guardiano di cantiere, il vigile urbano, lo sfasciacarrozze, il meccanico, l’agente di custodia, il tarallaro, il bagnino, l’infermiera, la massaggiatrice, e non solo, bensì importanti personaggi incensurati: il primario d’ospedale, il consulente finanziario, l’avvocatessa, la ginecologa, l’ispettore ministeriale, il grossista di maglierie, l’esportatore di carne bovina, il gioielliere, l’antiquario, il costruttore edile, eccetera. Qui però la situazione si movimenta. I personaggi importanti non sempre si limitano al ruolo di fiancheggiatori o collaboratori, spesso agiscono da veri e propri affiliati: occupano il tronco della quercia, se l’albero disegnato somiglia a una quercia. Sicché il direttore di banca, il presidente di una società pubblicitaria, il titolare di un autosalone, e chi organizza spettacoli musicali, chi commercia in frutti esotici, chi fornisce cibi precotti alle mense aziendali, eccetera, possono tranquillamente essere dediti a illeciti guadagni sotto legali attività di copertura.

    Ma vedo che alcune foglie cadono.

    E debbono cadere! cadere come gli infami, cioè le spie, i doppiogiochisti, i delatori prezzolati dalla polizia.

    Sono munnezza, niente più che munnezza, e un bel giorno arrivano i munnezzari, e la spazzano via.

    Uno schifo del genere, eccolo: Tonino Mazzarella.

    Tonino si è messo a giocare con due mazzi di carte, ripeteva parecchi anni or sono un certo boss nella ristretta cerchia dei fedelissimi. Sigaro all’angolo della bocca, fumo davanti agli occhi, questo anonimo boss emergente da una vignetta custodita nel Raccoglitore soggiungeva: gli faremo perdere il vizio, all’infame.

    Dopo una settimana, o giù di lì, l’esecuzione.

    Una mattina, a Poggioreale, il Mazzarella degustava la sua irrinunziabile tazzulella di caffè dietro le sbarre, quando di botto si è abbattuto sul pavimento. Schiumava saliva dalla bocca e dal naso, non proferiva sillaba, solo grugniti mentre si contorceva soffocato dalle convulsioni.

    Così Tonino l’infame crepava su mandato del boss, secondo i sospetti nutriti dal giudice che insegue la verità.

    Crepava tale quale il traditore Gaspare Pisciotta, una volta; tale quale il bancarottiere Michele Sindona, un’altra volta: carcerati entrambi, entrambi caduti bevendo caffè al cianuro.

    La storia non finisce qui.

    Affossato Tonino per l’eternità, l’affranta vedova abborda il boss nel Garden Bar presso la Stazione Centrale, una sera. Capigliatura scura, fazzoletto di leopardo annodato al collo, gola contratta in un rabbioso urlo:

    assassino! cornuto assassino bastardo, gli svuota addosso un caricatore intero, imitando così Pupetta Maresca, l’intrepida guagliona che parecchi anni or sono davanti a un bar nelle adiacenze della Stazione Centrale sloggiava dal mondo Totonno Esposito, il mandante dell’omicidio di Pasquale Simonetti, alias Pascalone ‘e Nola, marito suo amatissimo, i cui sorrisi e sguardi felici resteranno custoditi gelosamente nell’album fotografico delle nozze.

    Le foglie cadono, dicevo. Poi sulla successiva pagina riemerge Menelik, il suo viso da foto segnaletca: capelli crespi, guance lisce, labbra tumide, mento quadrato, occhi azzurri, pelle olivastra. Un maschio di robusta costituzione, non più nel colmo della primavera, tuttavia ancora lontano dall’autunno, tanto per dire che ha superato da qualche tempo la trentina, suppongo. A ciò segue un esiguo spazio bianco da scavalcare, se vogliamo leggere quanto sta scritto qui sotto:

    il sipario si alza su un magico anno, magico per i tifosi di Maradona.

    2

    Diego Armando Maradona: l’asso, il superasso, recitano i ritagli estratti dall’Album.

    Un vincente.

    C’è chi si fa poeta per dedicargli sonetti, canzoni, ballate. Una ballata rievoca il ragazzino in fuga dietro al pallone, dietro a un sogno, su e giù per praticelli e spiazzi polverosi, periferici. Un sonetto lo celebra ormai giovane goleador mentre sul campo balla il tango dopo aver inflitto il gol che ha messo in ginocchio i bolognesi.

    Allo stato attuale, Dieguito è un idolo miliardario.

    I tifosi in massa lo acclamano follemente dopo la conquista dello scudetto. Sulle auto oppure a piedi una folla inarrestabile intasa mezza città. Sotto gli altarini di Madonne e Santi ai crocicchi dei vicoli ondeggiano le bandiere azzurre, altre confluiscono verso il Centro storico, altre ancora sventolano da finestre, balconi, terrazzini. Si schiamazza, si strombazza. C’è mica più da capire. Ogni voce si perde nel fragore, affonda, svanisce dentro un mirabolante coacervo sonoro: fischietti, tamburelli, petardi, clacson, pernacchie, sghignazzi, sberleffi stile Pulcinella. Si fa spettacolo. Via nel dimenticatoio i pensieri neri, via a farsi fottere i malumori grigi. Le luminarie sfavillano.

    Schermi giganti istallati nelle piazze replicano a ripetizione le imprese dell’eroe. Eccolo prendere palla e fuggire: scarta la difesa milanista, Sud contro Nord, sfida tutti, supera tutti, li surclassa, è un genio, si fa beffe degli avversari, vola, nessuno lo ferma, colpo di tacco, tocco di punta, alè! plaf! insacca in rete. Un’ebrezza, una felicità strepitosa: Sud batte Nord. E rieccolo ora lasciare con un palmo di naso gli atleti sampdoriani: uno scatto, una velocità, una vitalità, quel tuffo, quel colpo di testa in un tuffo a pelo d’erba, e il pallone viaggia, come un fulmine trafigge l’aria: gooool! dilaga un urlo, un urlo di folla elettrizzata. La sarabanda per lo scudetto è collettiva. Mentre da mille angoli gli amplificatori sparano raffiche di musica, il fuoriclasse domina, è il re in campo. Gli spettatori fremono dalla testa ai piedi. Lui eccita, trasmette felicità.

    Sì, che esiste la felicità .

    Mai troppo durevole, però. Dura sempre meno di quanto si vorrebbe.

    Ma sempre meglio di niente, questa felicità così: a strappi nell’avvicendarsi dei giorni e delle notti.

    Indubbiamente meglio di niente.

    Sta inoltre scritto che i tifosi vorrebbero vedersi gomito a gomito con il goleador, in fotografia. E lo avessero magari a portata di mano, lo solleverebbero sulle spalle in trionfo. Devono invece, quelli che ci riescono tra la calca, accontentarsi di toccare i murales, la sua immagine dipinta qua nelle braccia di un colossale San Gennaro, come Gesù Bambino aggrappato al seno della gloriosa Vergine Maria; o là sulle pendici del Vesuvio, mentre balla la tarantella sopra una colata lavica celeste anziché rossa. Intanto con fischi e botti zampillano i fuochi d’artificio verso il vasto cielo notturno, colore intrecciato a colore: verde, violetto, paonazzo, turchino, arancione, giallo: fiori, fiocchi, scintille, fregi, arabeschi lassù, come quando si festeggiano i santi patroni.

    Piace tutto, dappertutto si fa festa, mentre la polizia lavora, indaga. Mantiene la massima segretezza passando al setaccio la vita privata dell’idolo: consumatore abituale di coca?

    Fonti confidenziali informano su festini a base di sniffate, spogliarelli, cerimonie sessuali estrose. Segnalano le sue frequentazioni, certe sue discutibili e discusse amicizie: tipacci, mormora la gente, individui loschi.

    Ma la gente non dice sempre la verità.

    Perciò gli sbirri, occhiuti sbirri, procedono in punta di piedi. Accortamente navigano tra le nebbie dell’inganno e del dubbio finché non raggiungono, se raggiungono, prove sicure: elementi probanti, secondo il vocabolario delle aule giudiziarie. Mica semplici tracce o indizi, per quanto plausibili possano apparire.

    Dando poi una scorsa al Raccoglitore, lo sguardo cattura Menelik tra la calca dei tifosi, o meglio, la scenetta che lo raffigura in atto di sgusciare via dalla calca. La sua bocca, gli angoli piegati all’insù, appare sormontata da una nuvoletta che ingloba poche sillabe, cinque parole asciutte: chi vince merita il trionfo. Il messaggio vola verso l’uomo in sua compagnia, un tappetto mingherlino dal viso secco e dal naso lungo affilato, Carmine Moccia il cassiere, la mente finanziaria del clan.

    Clan o famiglia, qui è la stessa cosa.

    Le carte infatti intendono la famiglia in senso largo.

    L’ho già detto, ora sarò più preciso.

    Oltre i genitori e i figli, strettamente uniti da vincoli di sangue, essa include le mogli dei figli nonché i mariti delle figlie, altresì una ragnatela di suoceri, zii, nipoti, cugini: un intrico, un viluppo vischioso. A potenziarlo concorrono i gruppi familiari esterni, meno autorevoli, non meno agguerriti. Per esempio: da lunga data i Cafiero, i Ciccone, i Maiella, i Mensorio, i Peluso, i Polillo fanno corpo con il clan Migliaccio, occupando una posizione subalterna che in compenso, bisogna notare, gli consente di usufruire del potere di chi sta sopra, come accade in qualsiasi struttura gerarchica. L’insieme, va notato pure questo, funziona da calamita: attira sempre nuove famiglie minori per consistenza numerica, peso finanziario, prestigio ambientale. Una mappa, qualora fosse richiesta, non darebbe esatto conto di una rete di relazioni talmente fitta da sembrare una boscaglia, un paesaggio selvoso. Molte volte poi la crescita per aggregazioni successive, quindi il cambiamento di fisionomia del clan, è prodotto da una dinamica matrimoniale con il suo seguito di battesimi, cresime e comparaggi. Il matrimonio congiunge la pulzella e il pulzello, non solo, bensì instaura un’alleanza tra le rispettive famiglie di appartenenza, o la consolida, se già esisteva. Per esempio: i Cafiero e i Migliaccio sono

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