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Il vero volto di Miss Hurst: Harmony History
Il vero volto di Miss Hurst: Harmony History
Il vero volto di Miss Hurst: Harmony History
E-book227 pagine4 ore

Il vero volto di Miss Hurst: Harmony History

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Info su questo ebook

Inghilterra, 1824
Quando lascia la colorata e caotica Calcutta e torna a Londra per cercare una moglie degna del suo rango, Ashe Herriard, Visconte Clere, rimane deluso dalle debuttanti del ton, che trova scialbe e grigie come la capitale. Solo una donna attira la sua attenzione: ha occhi profondi e luminosi, serici capelli lunghi, e una personalità a dir poco curiosa. Un giorno, infatti, si presenta come Mrs. Drummond, un altro come Madame Deaucourt, e in società si fa chiamare Miss Hurst. Intrigato dalla situazione, Ashe decide di scoprire quali innominabili segreti e peccaminosi misteri si celino dietro il volto ammaliante di quella fanciulla, così poco adatta a diventare viscontessa, ma con la quale la vita non sarebbe certo noiosa.
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2019
ISBN9788830501553
Il vero volto di Miss Hurst: Harmony History
Autore

Louise Allen

Tra le autrici più lette e amate dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Il vero volto di Miss Hurst - Louise Allen

    Immagine di copertina:

    Gian Luigi Coppola

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Tarnished amongst the Ton

    Harlequin Mills & Boon Historical Romance

    © 2013 Melanie Hilton

    Traduzione di Angela Medi

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3050-155-3

    1

    Porto di Londra, 3 marzo 1824

    «È grigia, come tutti dicevano che sarebbe stata.»

    Ashe Herriard si sporse sul parapetto della nave e, attraverso gli occhi socchiusi, contemplò il Tamigi stipato di battelli, dalle piccole barche a remi a quelle che facevano apparire minuscola perfino la loro East Indiaman a quattro alberi.

    «Ci sono più toni di grigio di quanti pensavo esistessero. E marrone e beige e verde. Soprattutto grigio, però.»

    Si era aspettato di odiare Londra, di trovarla estranea, ma appariva vecchia e prospera e stranamente familiare, anche se ogni cellula del suo corpo voleva detestare quella città e ciò che rappresentava.

    «Non sta piovendo e Mrs. Mackenzie aveva detto che pioveva sempre, in Inghilterra.» Sara stava accanto a lui, avvolta in un pesante mantello. Appariva allegra ed eccitata, anche se stava battendo i denti. «È come il Garden Reach a Calcutta, solo più brulicante di attività. E molto più freddo.» Indicò avanti a sé. «C’è anche un forte. Vedi?»

    «Quella è la Torre di Londra.» Ashe sorrise. Non desiderava comunicare il suo cattivo umore alla sorella. «Come vedi, ricordo molto bene le mie letture.»

    «Sono davvero impressionata, fratello caro» convenne lei con uno scintillio che impallidì quando guardò più in là lungo il parapetto. «Mata si sta comportando in modo molto coraggioso.»

    Ashe seguì il suo sguardo. «Stanno cercando entrambi di essere forti, immagino.»

    Suo padre circondava con il braccio la vita della moglie, tenendola stretta a sé. Non era insolito – loro erano espansivi in un modo che era poco elegante anche per le regole piuttosto elastiche dell’informale società europea di Calcutta – ma lui conosceva il genitore e sapeva che quell’espressione calma associata alla mascella serrata significava che il Marchese di Eldonstone era pronto alla lotta.

    Che fosse una lotta contro i vecchi ricordi di un paese che aveva lasciato decenni prima non la rendeva meno reale. Separato dal proprio padre, sposato a una donna per metà indiana che aveva scoperto con terrore che suo marito era l’erede di un titolo in Inghilterra, dove un giorno avrebbe dovuto fare ritorno, Nicholas Herriard aveva resistito fin quando aveva potuto, prima di lasciare l’India. Ma i marchesi non avevano posto nella diplomazia militare della Compagnia delle Indie Orientali, e lui aveva sempre saputo che, una volta ereditato il titolo, sarebbe dovuto tornare in Inghilterra a fare il suo dovere.

    E così anche lui, suo figlio, pensò Ashe. Che fosse dannato se avrebbe lasciato che quello sconfiggesse i genitori. E dannato se non avesse sollevato parte del fardello dalle loro spalle, anche se avrebbe significato trasformarsi in una specie a lui del tutto estranea: il perfetto aristocratico inglese.

    «Prenderò Perrott, andrò a terra e mi accerterò che Tompkins si trovi là ad accoglierci» disse al padre, dopo averlo raggiunto.

    «Grazie. Non voglio che tua madre e tua sorella debbano attendere sulla banchina.» Il marchese indicò terra. «Se è arrivato, fa’ un segnale da lì.»

    «Sissignore.» Ashe si allontanò in cerca di un marinaio e una barca a remi.

    Un nuovo paese, un nuovo destino. E un nuovo mondo, si disse, nuove battaglie. Già i ricordi del caldo, del colore e della vivace vita del palazzo del Kalatwah si stavano trasformando in un sogno, scivolandogli tra le dita quando cercava di afferrarli e trattenerli. Tutti, anche quelli del dolore e della colpa.

    Reshmi, pensò, allontanando il pensiero con uno sforzo quasi fisico. Niente, neppure l’amore, poteva riportare indietro i morti.

    Dovevano esistere degli uomini affidabili, coscienziosi e premurosi, da qualche parte nel creato.

    Phyllida arretrò dall’imboccatura del vicolo ed esaminò l’affaccendata banchina della Customs House. Sfortunatamente, il suo caro fratello non era tra loro. Il che non doveva sorprendere, dal momento che il loro padre non aveva posseduto un solo affidabile e coscienzioso osso nel suo corpo e, come sospettava la sua irrispettosa figlia, nessun altro pensiero in mente che non riguardasse il gioco, l’andare a donne e il dilapidare denaro.

    E ora Gregory era sparito da ventiquattro ore con i soldi dell’affitto e, secondo i suoi amici, aveva trovato una nuova bisca da qualche parte tra la Torre e London Bridge.

    Qualcosa strattonò i lacci dei suoi stivaletti. Aspettando di vedere un gatto, Phyllida abbassò lo sguardo e si ritrovò a fissare gli occhi neri del più grosso corvo che avesse mai visto. Aveva la testa e il collo grigi, e un becco massiccio, e lanciandole uno sguardo insolente riprese a strattonarle i lacci.

    «Va’ via!» Phyllida ritrasse il piede e con uno starnazzo il corvo si diresse verso l’altro.

    «Lucifero, lascia stare la signora.»

    L’uccello emise un verso penetrante, prese il volo e atterrò sulla spalla dell’uomo alto che stava di fronte a lei.

    «Chiedo scusa. È affascinato da lacci, nastri, e qualunque cosa sia lunga e sottile. Sfortunatamente è un perfetto codardo con i serpenti.»

    Lei ritrovò la voce. «Questo non è un problema, a Londra.» Da dove si era materializzato quel bell’uomo dall’aria esotica, con il suo diabolico famiglio? Osservò i folti capelli scuri, gli occhi verdi, il naso diritto e la pelle dorata. Pelle abbronzata a marzo? No, doveva essere il suo colore naturale. Non si sarebbe sorpresa di avvertire un lieve sentore di zolfo.

    «Così mi hanno detto.» Lui si allungò e lanciò l’uccello in aria. «Va’ a trovare Sara, pericolo piumato. Se lo rinchiudo in gabbia, impreca» aggiunse, mentre l’animale volava verso le navi ancorate al largo. «Ma suppongo che dovrò farlo o istigherà i corvi della Torre a compiere ogni tipo di bricconeria. A meno che non siano soltanto una leggenda...»

    «No, esistono davvero.» Un forestiero, dunque.

    Era ben vestito, ma in modo non esattamente inglese. Un pesante mantello nero, un cappotto scuro, un panciotto di pesante broccato in seta, camicia di lino bianco immacolato... No, anche la camicia era di seta.

    «Signore!»

    L’uomo aveva poggiato un ginocchio sull’acciottolato sporco e stava legandole i lacci degli stivaletti di Phyllida, consentendole di vedere che i suoi capelli erano lunghi fino alle spalle – una misura fuori moda – e legati sulla nuca.

    «Qualcosa non va?» Lui sollevò lo sguardo, il volto serio e interrogativo, i verdi occhi divertiti. Sapeva perfettamente cosa non andasse, il mascalzone.

    «State toccando il mio piede, signore!»

    Il gentiluomo terminò di stringere il fiocco e si alzò. «Difficile legare un laccio senza farlo, temo. Ora, dove stavate andando? Vi assicuro che né io né Lucifero abbiamo altri progetti sulle vostre calzature.» Il suo sorriso suggeriva che potessero esistere altri pericoli.

    Lei arretrò di un passo, ma non per evitare un assalto alle caviglie. Harry Buck stava avanzando con aria da gradasso lungo la banchina, e verso di loro, in compagnia di uno dei suoi compari. Lo stomaco le si strinse, mentre si guardava attorno alla ricerca di un posto dove nascondersi al più notorio malfattore di Wapping. La nausea quasi la sopraffece. Se, in qualche modo, lui si fosse ricordato di lei, di nove anni prima...

    «Quell’uomo.» Indicò col capo in direzione di Buck. «Non voglio essere vista da lui.» Il respiro le si mozzò in gola. «E sta venendo da questa parte.»

    Correre era fuori questione. Sarebbe stato come lanciare un gomitolo di lana davanti a un gatto: Buck l’avrebbe inseguita per puro istinto. Lei non aveva neppure un cappellino con una falda coprente, solo un semplice cappello piatto di paglia sopra la rete che le tratteneva i capelli. Che sciocca a essersi avventurata in quel territorio in quel modo, impreparata e senza travestimento.

    «In tal caso, dovremo approfondire la nostra conoscenza.»

    L’esotico straniero fece un passo in avanti, spingendo Phyllida contro il muro, poi sollevò un braccio drappeggiato nel mantello per farle da scudo e piegò la testa.

    «Cosa avete intenzione di fare...?» mormorò lei.

    «Di baciarvi.» E lo fece. Con la mano libera la attirò con efficacia contro il proprio corpo alto e duro, mentre la fissava con gli impudenti occhi verdi. Poi, con la bocca sigillò il suo ansito oltraggiato.

    Alle loro spalle risuonò il rumore di passi pesanti. La luce si ridusse all’improvviso, mentre dei grossi corpi riempivano il vicolo e una voce rozza diceva: «Sei nella mia zona, amico, così quella deve essere una delle mie prostitute e mi devi pagare».

    Una delle mie prostitute! Oh, Dio, non poteva sentirsi male, non in quel momento e non in quel luogo, pensò Phyllida.

    L’uomo sollevò il capo, spingendole la faccia nella seta soffice della propria camicia. «Questa l’ho portata con me e non la divido. E non pago gli uomini per il sesso.» Sembrava sicuro di sé, remissivo e mansueto quasi quanto un pitbull.

    Phyllida udì il compare di Buck emettere l’accenno di una risata. Ci fu un attimo di silenzio, poi Buck stesso rise: la nota, roca risata che talvolta tornava a tormentarla nei suoi sogni peggiori.

    «Mi piace il tuo stile. Vieni da me, se vuoi giocare forte. O trovare una ragazza compiacente. Chiedi a chiunque a Wapping del locale di Harry Buck.» I passi si allontanarono lungo il vicolo, svanendo lontano.

    Phyllida si dimenò, furiosa con l’unico uomo su cui potesse riversare la sua ira. «Lasciatemi andare.»

    «Mmh...?» Lui aveva il naso affondato nell’incavo del suo collo. E così pure le labbra, un attimo dopo, in una carezza indugiante, quasi tenera. «Gelsomino. Molto gradevole.»

    La lasciò andare e arretrò, anche se non abbastanza lontano per la pace della sua mente. Di solito lei odiava essere baciata, un atto disgustoso che conduceva ad altre cose perfino peggiori. Ma quel bacio era stato... sorprendente. E non del tutto disgustoso.

    Trasse un profondo respiro e si rese conto che, invece di puzzare di zolfo, lui aveva un profumo molto piacevole.

    «Legno di sandalo» disse forte, al posto di tutte le altre parole che urgevano di essere pronunciate. Come insolente opportunista o mascalzone. O quelle che credeva non le sarebbero mai venute in mente: baciami ancora.

    «Sì, e lavanda, giusto una punta. Conoscete i profumi?»

    Era ancora troppo vicino, con quel braccio che la tratteneva contro il muro. «Non ho intenzione di stare qui a discutere di profumeria. Vi ringrazio per avermi nascosto da Buck, ma vorrei che adesso mi lasciaste andare. Davvero, signore, non potete baciare strane donne a vostro piacimento.» Si abbassò e uscì da sotto il suo braccio, dirigendosi verso la banchina.

    Lui si girò e sorrise, gesto che le provocò una piccola scossa. Non aveva fatto nulla per trattenerla, eppure poteva sentire la sua mano su di sé, quasi fosse una realtà fisica. Nessuno l’avrebbe mai bloccata contro la sua volontà, mai più, tuttavia Phyllida non aveva paura di lui. Follia. L’avere fascino non rendeva quell’uomo meno pericoloso.

    «Siete strana?» chiese lui.

    C’era una gamma di risposte per quella domanda, nessuna delle quali adatte a una signora. «L’unica cosa strana riguardo a me è che non vi abbia preso a schiaffi» rispose. E perché non lo avesse fatto, una volta che Buck era andato via, non lo sapeva. «Buongiorno, signore» disse da sopra la spalla, mentre si allontanava.

    Lui stava sorridendo, un sorriso pigro su labbra sensuali. Phyllida dovette resistere alla tentazione di alzare i tacchi e correre.

    Lei aveva sapore di vaniglia, caffè e donna, e aveva l’odore di una sera d’estate nel giardino del raja. Ashe si passò la lingua sul labbro inferiore, mentre si guardava attorno alla ricerca del legale inglese di suo padre.

    Manderò la carrozza per voi, mio signore, aveva scritto Tompkins nell’ultima lettera che era stata consegnata al marchese: avrebbe dovuto esserci anche una cameriera inglese per Mata e Sara, e un valletto per suo padre e per lui.

    Più utile di tutti era stato l’arrivo di Perrott, un segretario privato al corrente di ogni singolo fatto, cifra e dettaglio degli affari e tenute degli Eldonstone.

    Dato il rapido declino di vostro padre e il suo sfortunato decesso che ci ha colto di sorpresa, riteniamo consigliabile non perdere tempo in ulteriore corrispondenza ma inviarvi il mio migliore assistente.

    Suo padre si era mosso rapidamente, dopo aver ricevuto l’inevitabile e non benvenuta notizia. Ashe era stato richiamato dal Kalatwah, dove stava agendo come aiutante di campo del suo prozio, il Raja Kirat Jaswan. Avevano venduto dei beni, impacchettato o regalato altri, e loro quattro, assieme al seguito, si erano imbarcati sulla prima nave diretta in Inghilterra.

    «Mio signore, la carrozza è proprio qui dietro. Ho fatto un segnale a Sua Signoria e mandato indietro la barca.»

    «La fine delle tue responsabilità, Perrott» disse Ashe con un sorriso, mentre percorreva la banchina al fianco del coscienzioso impiegato dai capelli rossi. «Dopo aver trascorso diciassette settimane rinchiuso in una nave tentando di insegnarci tutto, dalla legge sugli affitti agli investimenti, e i più oscuri aspetti dell’albero genealogico, sarete felice di essere di nuovo a casa.»

    «Certo, è gratificante essere tornato in Inghilterra, mio signore, e mia madre sarà felice di vedermi. Comunque, è stato un privilegio e un piacere assistere il marchese, e anche voi.»

    E il pover’uomo nutriva una tenerezza senza speranza per Sara, così sarebbe stato probabilmente un sollievo per entrambi mettere una certa distanza tra loro. Era il solo accenno di follia che lui avesse scoperto in Thomas Perrott.

    Innamorarsi era una faccenda per domestici, romantici, poeti e donne. E folli, cosa che lui non era. Non più.

    Suo padre l’aveva fatto, si era sposato per amore, una fortuna altrimenti lui, Ashe, non sarebbe stato lì. Ma era un caso a parte.

    A ogni modo, un soldato di fortuna, che era ciò che Nicholas Herriard era stato all’epoca, poteva comportarsi come preferiva. Suo figlio – il Visconte Clere, ricordò a se stesso con un intimo sussulto – doveva sposarsi per ragioni del tutto diverse.

    «Mio signore.» Perrott si fermò accanto a un’elegante vettura nera.

    La decorava uno stemma che era divenuto familiare ad Ashe attraverso i numerosi documenti legali e l’imponente albero genealogico di famiglia, e che era impresso anche sul pesante anello a sigillo che portava suo padre.

    Leggermente arretrate, erano in attesa due carrozze più semplici. «Per il vostro seguito e il piccolo bagaglio, mio signore. Quello che si trova nella stiva sarà trasportato da facchini, non appesa scaricato. Spero che tutto sia di vostra soddisfazione...»

    «Nessun carro di buoi e una distintiva assenza di elefanti» osservò Ashe con un sorriso. «Dovremmo muoverci a un’insolita velocità.»

    «Il conto del foraggio sarà di sicuro inferiore» replicò Perrott, imperturbabile, e tornarono indietro per attendere la barca.

    «Eccoti!» Phyllida gettò il cappello e la borsetta sul tavolo e affrontò suo fratello, sdraiato sul sofà come un pupazzo dai fili tagliati.

    «Eccomi qua» convenne Gregory, aprendo un occhio. «Con un maledetto mal di testa, sorella cara, per cui, gentilmente, non tormentarmi.»

    «Farò di più che tormentarti» promise lei, lanciando il cappotto su una sedia. «Dove sono i soldi per l’affitto?»

    «Ah! Non lo sai.» Lui si trascinò in una posizione seduta e iniziò a frugarsi nelle tasche. Delle banconote caddero sul pavimento in un mucchio accartocciato. «Ecco qua.»

    «Gregory! Da dove vengono questi?» S’inginocchiò e radunò le banconote, spiegandole e contandole. «Santo cielo, ci sono circa trecento sterline.»

    «Azzardo» disse lui, conciso, tornando ad affondare nel sofà.

    «Tu perdi sempre, al gioco d’azzardo.»

    «Lo so. Ma tu non fai che tormentarmi sulla necessità di essere prudente e fare economia e ho preso a cuore le tue parole. Avevi proprio ragione, Phyllida, e non sono stato di grande aiuto per te, vero? Comunque nota la mia furbizia: sono andato in una nuova bisca e loro ti lasciano sempre vincere, la prima volta.»

    «Così ho sentito dire.»

    «Hanno provveduto a farmi vincere e quando

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