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Promesse e misteri
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E-book229 pagine6 ore

Promesse e misteri

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Info su questo ebook

Francia - Inghilterra, 1789. Per onorare la promessa fatta a un amico, Sir Charles Osbourne accetta di scortare la giovane Maria dalla Francia all'Inghilterra per "consegnarla" al promesso sposo. Sembra un compito facile e piuttosto noioso, ma durante il viaggio tra i due giovani scoppia un'inaspettata e irresistibile attrazione. Maria, profondamente turbata dai sentimenti che prova, non sa come comportarsi, anche perché le parole dell'affascinante Charles sono tanto appassionate quanto ambigue. Pur cercando di convincerla in tutti i modi ad annullare il matrimonio, infatti, lui non accenna a dichiararle il proprio amore. E a poco a poco Maria inizia a sospettare che dietro tutti quei bei discorsi si celi in realtà un oscuro segreto.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2018
ISBN9788858980989
Promesse e misteri
Autore

Helen Dickson

Helen Dickson lives in South Yorkshire with her retired farm manager husband. On leaving school she entered the nursing profession, which she left to bring up a young family. Having moved out of the chaotic farmhouse, she has more time to indulge in her favourite pastimes. She enjoys being outdoors, travelling, reading and music. An incurable romantic, she writes for pleasure. It was a love of history that drove her to writing historical romantic fiction.

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    Anteprima del libro

    Promesse e misteri - Helen Dickson

    Immagine di copertina:

    Gian Luigi Coppola

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Marrying Miss Monkton

    Harlequin Historical

    © 2009 Helen Dickson

    Traduzione di Valentina Ballardini

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5898-098-9

    1

    Alsazia, 1789

    Era una ventosa giornata di pioggia. Charles aveva dormito poco e male: la questione della deviazione a Château Feroc era una seccatura di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Quando sollevò il volto magro rivoli di pioggia gli scesero lungo le guance. Il tempo era perfettamente in armonia con il suo umore.

    Si diresse verso un paesino che sorgeva tutto lungo un’unica via, non molto diverso da ogni altro paesino francese, con le misere casupole addossate l’una all’altra, il campanile della chiesa ai margini, un mulino e una taverna. Uno strano fetore che si diffondeva dalle fogne gli penetrò nelle narici, sfiorando le sue paure più recondite come dita ghiacciate. Era l’odore della povertà, il disgustoso, inaccettabile tanfo che emanavano gli abissi dell’umanità.

    Il vento si era intensificato e le foglie cadute mulinavano a terra e si accumulavano nei canali di scolo. La stretta via lungo la quale procedeva a cavallo era acciottolata e tagliata da crepe, lucida per la pioggia. In giro non c’erano che poche persone, e tutte erano vestite di stracci: quando, udendo il rumore degli zoccoli del cavallo, si giravano, poteva legger loro in volto che erano affamate, una vista che gli faceva venir voglia di imprecare.

    Un senso di agitazione e di pericolo incombeva sulla Francia. Il paese si trovava in gravi difficoltà finanziarie dovute alle ingenti spese sostenute durante la guerra con l’America, che aveva svuotato le casse dello stato. Ma il popolo riteneva, a ragione, che le folli spese della corte non giovassero affatto alle finanze francesi. Mentre la povera gente faceva la fame per pagare imposte elevatissime, i nobili si dedicavano a una sontuosa indolenza nelle loro immense residenze di campagna o a Versailles, dove conducevano un’esistenza spensierata nel paradiso artificiale creato da Luigi XVI.

    Il popolo cominciava già a pensare alla rivoluzione.

    All’inizio dell’abitato Charles vide un vecchio intento a raccogliere ciocchi di legno e a infilarli in un sacco con l’aiuto di un bambino che doveva avere cinque o sei anni al massimo. Sapeva che servivano loro per scaldarsi e cucinare il misero pasto che sarebbero riusciti a rimediare. Quando l’uomo inciampò, rovesciando a terra il prezioso carico, il bambino si chinò a recuperarlo e Charles, fermatosi, scese da cavallo per aiutarli.

    Una volta che ebbero finito, il volto rugoso dell’uomo si illuminò in un sorriso.

    «Grazie, monsieur» disse.

    Charles si chiese quanti anni potesse avere: sapeva che doveva essere molto più giovane di quel che sembrava, ma fu sconvolto quando, dopo averglielo chiesto, si sentì rispondere che ne aveva trentadue.

    Notando lo sconcerto nel volto dello sconosciuto l’uomo aggiunse, quasi ridendo: «La fame ci fa invecchiare, monsieur».

    In quel momento udirono un rimbombare di ruote sull’acciottolato in lontananza, un frastuono che peraltro si faceva via via più intenso e distinto. I tre si fecero da parte per evitare di essere investiti dalla carrozza nera a quattro cavalli che sfrecciava nella loro direzione. Il cocchiere in uniforme frustava i cavalli e il veicolo procedeva a una tale velocità che le ruote sembravano quasi non toccare terra.

    Charles scorse appena il pallido volto incorniciato da capelli corvini della giovane gentildonna dall’elegante abito nero seduta all’interno.

    «Guardatela» ringhiò il povero disgraziato. «Aristocratici! Tra non molto ci sbarazzeremo di gente del genere e della loro stirpe, e sarà una bella liberazione! Avranno quel che si meritano, se lo meritavano da un pezzo. E al momento della resa dei conti non avremo pietà.» E detto questo sputò a terra e si asciugò la bocca con la manica.

    «Pagate le tasse al vostro signore?»

    «Gli do tutto: pago per macinare il grano al mulino, pago per il trasporto ogni volta che attraverso un ponte, e di ponti ce ne sono a centinaia, pago per pigiare la mia uva per fare il vino. D’inverno facciamo la fame e per i nostri bambini abbiamo solo crusca e radici, che gli fanno gonfiare la pancia; l’inverno scorso una delle mie figlie è morta, è stato terribile, e mia moglie è troppo debole per lavorare. Per mangiare abbiamo dovuto uccidere i buoi, e i balivi sono anche venuti a controllare se avevo del sale in casa.»

    «Lo hanno trovato?»

    Annuì. «E con i soldi che mi erano rimasti ho dovuto pagare la multa. Le tasse ci stanno rovinando, per cui abbiamo deciso di andarcene, lasciare i mobili, la terra, tutto. Che se li prendano: se non abbiamo niente, non potranno farci pagare le tasse.»

    «Mi dispiace per voi.» Charles era sincero.

    Si infilò in tasca una mano, tirò fuori un louis e lo porse all’uomo. «Prendete questo, comprateci qualcosa da mangiare per voi e per la vostra famiglia.»

    L’altro si limitò a scuotere il capo. «E dove lo spendo un louis? Non avete pezzi più piccoli, monsieur? Se vado dal panettiere con tutti quei soldi rischio che il balivo lo venga a sapere e mi aumenti le tasse.»

    Charles si riprese il louis e gli diede qualche monetina di minor valore, che l’uomo si mise in tasca con gratitudine. Con un po’ di attenzione, quei soldi potevano bastare a lui e a sua moglie per dare da mangiare a tutta la famiglia per giorni, forse settimane.

    «Tempi terribili aspettano la Francia, il potere si sta sgretolando in tutto il paese» disse Charles, risalendo in sella.

    L’uomo annuì. «Eh già, monsieur, proprio così» disse con voce roca per l’emozione. Il suo volto, già rigato dalla pioggia, si bagnò di lacrime. «Ma non credo che vivrò abbastanza a lungo per vederlo.» Prese per mano il bambino, fece un cenno di ringraziamento e si allontanò.

    Charles si avviò lentamente: non riusciva a scrollarsi di dosso quell’incontro. Dal suo arrivo in Francia aveva visto molta sofferenza: i contadini erano pieni di debiti e sempre più infuriati, anche a causa delle catastrofiche conseguenze dello scarso raccolto dell’anno prima.

    La popolazione riteneva che i responsabili dell’alto prezzo del grano fossero i nobili ed era piena di rabbia nei loro confronti.

    Dalla recente presa della Bastiglia, a Parigi, la rivolta si era diffusa nelle campagne, e in molte regioni si erano verificate azioni violente. La Francia era una polveriera: sarebbe bastata una scintilla per farla esplodere, e nessuno poteva immaginare quali sarebbero state le conseguenze. Conosceva gli umori delle masse: bastava che vedessero un po’ di sangue per perdere la ragione, ed era proprio l’uso della violenza che lo rendeva scettico sui motivi del dissenso: molti dei rivoltosi erano attaccabrighe, orribili bruti che non avevano mai patito la fame e non erano mai stati altro che briganti.

    Quando giunse nel paesino successivo, Charles si accorse subito che qualcosa non andava. Capannelli di persone avevano interrotto le loro attività per radunarsi nella piazza lastricata a guardare una giovane donna che aveva al braccio una grande cesta e stava distribuendo del cibo a un gruppetto di ragazzini scheletrici. La carrozza che l’aveva superato poco prima era ferma dall’altro lato della strada, e il cocchiere era visibilmente nervoso.

    Charles fece il suo ingresso nella piazza rallentando il cavallo fino al trotto: poteva percepire nell’aria il fermento e il panico delle persone intorno a lui. Udì un mormorio minaccioso levarsi al suo passaggio: si sentiva osservato da volti esitanti, insolenti o turbati.

    Avvicinandosi alla donna rallentò ancora, cercando di celare la sua apprensione e la sua paura. Temeva di essere coinvolto in una rissa e di dover ricorrere all’uso della pistola: sapeva bene che la folla, come un animale, avvertiva il nervosismo degli altri.

    La donna pareva calmissima. Scorgendolo si interruppe e sollevò lo sguardo perplessa. Lui scese da cavallo e, senza abbandonare le redini, le si avvicinò.

    «Cosa state facendo?» le chiese prendendola per un braccio e tirandola di lato.

    «E chi sareste voi, se permettete?» domandò la ragazza squadrandolo dall’alto in basso e scrollandosi di dosso la sua mano. Nell’atteggiamento di quell’uomo dal fisico magro e slanciato, da cui traspariva una pericolosa vitalità, e nel contegno volitivo della sua bocca ben disegnata c’era un che di sfrontato. Anche la mano abbronzata che le aveva afferrato il braccio le ricordava l’artiglio di un rapace, mentre lo sguardo di quegli occhi azzurri era terribilmente determinato. Quell’intromissione la mandava su tutte le furie.

    «Non importa chi sono» sbottò lui sottovoce. «Non avete un po’ di buonsenso? Guardatevi un attimo intorno e magari capirete perché sono preoccupato.»

    «Queste persone mi conoscono, non mi faranno del male.»

    «Se ne siete davvero convinta siete ancora più pazza di quanto pensassi. I vostri bei vestiti e il fatto che abbiate del cibo sono sufficienti a mettervi dalla parte dell’autorità e a rendervi diversa da loro.»

    Lei drizzò il capo e reagì al rimprovero in tono offeso. «I bambini sono affamati, io sto solo cercando di aiutarli.»

    «Esponendovi a un pericolo?»

    «È molto più probabile che aggrediscano voi che me, comunque vi ringrazio per il vostro interessamento...» borbottò la fanciulla.

    «Non dovete ringraziarmi» disse Charles in tono brusco, «ma, accidenti, cosa pensate di ottenere? Non vi rendete conto che la cosa più assurda che una donna possa fare di questi tempi è portare del cibo in paese? Fanno ancora in tempo ad aggredirvi.»

    Lei non sapeva cosa rispondergli: era consapevole del fatto che aveva ragione. La sera prima, mentre i domestici sparecchiavano, li aveva sentiti mormorare che gli avanzi della cena sarebbero bastati per far mangiare per più di un mese la povera gente di paese, che andava a letto ogni sera affamata, compresi i bambini piccoli, che non potevano capire perché dovessero soffrire la fame. D’impulso lei aveva allora detto al suo cuoco di riempire di cibo un cesto ed era venuta in paese a distribuirlo ai bambini. Ora, però, osservando quei volti ostili e affamati, fu percorsa da un brivido e capì di aver commesso un errore.

    «Avete ragione» dovette ammettere. «Forse non sarei dovuta venire, adesso ho fatto, vado.»

    Erano l’uno davanti all’altro. In piedi di fronte a Charles vi era una slanciata ragazza di altezza media dalla fronte ampia, il mento affilato, la carnagione color avorio e splendidi occhi, il cui verde luminoso era incorniciato da ciglia spesse e folte e sottolineato da graziose sopracciglia nere. Aveva gli zigomi arrossati, forse per il turbamento, forse per il sole.

    Aveva i capelli corvini raccolti sotto il cappellino, ma qualche setosa ciocca arricciata sfuggiva da sotto la tesa, facendogli venir voglia di allungare una mano e rimetterla a posto. Il mento era atteggiato a un’espressione orgogliosa, e tutto nella sua postura suggeriva grande coraggio.

    Portava un mantello nero su un abito dello stesso colore, abbigliamento che suggeriva che si trattasse inequivocabilmente di una nobildonna.

    Charles invece indossava una giacca nera, pantaloni e stivali pure neri di pelle alti al ginocchio e una sciarpa di seta bianca avvolta intorno al collo. Era alto, snello e arrogante, come sapevano essere gli uomini importanti. Aveva penetranti occhi celesti con riflessi color argento, lunghe ciglia scure e da sotto il cappello spuntavano capelli bruni e spessi, discosti dal suo bel volto e fissati alla nuca da un nastro nero.

    Guardò la ragazza con aria severa. «Immagino non abbiate raccontato a nessuno quel che avevate intenzione di fare...»

    Lei scosse la testa. «Me l’avrebbero impedito.»

    «Avrebbero fatto bene. Dovrebbero punirvi, e la prossima molta vi consiglio caldamente di pensarci due volte prima di fare una cosa del genere. Volete che vi accompagni?»

    La ragazza indietreggiò, risentita per quell’atteggiamento tirannico. Che diritto aveva di criticarla? «Certo che no» si limitò a rispondere. «So prendermi cura di me stessa.»

    Charles guardò la carrozza allontanarsi prima di risalire a cavallo e cercare una locanda per la notte.

    Era una Maria riflessiva quella che affrontò il viaggio in carrozza fino a Château Feroc, intenta a scrutare fuori dal finestrino e cercando al contempo di togliersi dalla testa quel detestabile sconosciuto. Nonostante le basse nubi incombenti, faticava a immaginare le rivolte che minacciavano la Francia quando di fronte ai suoi occhi si stendeva un paesaggio così incantevole. In quel momento, comunque, avrebbe preferito essere a Gravely, in Inghilterra, dove lei aveva trascorso il periodo più felice della sua vita.

    Suo padre, Sir Edward Monkton, aveva espresso nel testamento la volontà che la figlia rimanesse sotto la tutela della Contessa de Feroc, la sorella della sua defunta moglie, finché non avesse raggiunto l’età giusta per sposare il Colonnello Henry Winston. Il colonnello aveva svolto un ruolo amministrativo ben pagato nelle fila della Compagnia delle Indie Orientali, e così aveva conosciuto suo padre: erano passati sei anni da quando, di ritorno in Inghilterra, aveva fatto visita a Sir Edward nella residenza di Gravely.

    Suo padre all’epoca aveva molti problemi di salute, causati da varie malattie contratte in India. Sapendo di avere i giorni contati e volendo assolutamente assicurare un futuro a Maria prima che i cacciatori di dote cominciassero a presentarsi a Gravely, era stato ben felice di accettare la proposta di matrimonio del colonnello, un uomo dal volto abbronzato che aveva molte storie sull’India da raccontare.

    Maria, all’epoca appena tredicenne, si era invaghita di quell’uomo bello ed elegante che si era fatto in quattro per parlarle, lusingarla e raccontarle della sua eccitante vita indiana, e non aveva avuto niente da obiettare. Per il matrimonio bisognava però aspettare che raggiungesse l’età giusta, e il Colonnello Winston sarebbe tornato in India per altri sei anni.

    Al suo arrivo a Château Feroc la quattordicenne Maria non aveva fatto una buona impressione, e la residenza, così diversa dalla sua casa inglese, non ne aveva fatta una migliore a lei: fredda e solenne, non aveva niente in comune con l’ambiente caldo e sereno che aveva lasciato. In Francia si era scontrata con la severa disciplina e l’ostilità dei suoi parenti e dei domestici: anche Constance, la sua viziata cugina, non le aveva certo riservato un’accoglienza calorosa. Costretta dalle circostanze a rinchiudersi in se stessa, Maria si era ritrovata a condurre una vita triste e solitaria. Il suo silenzio avrebbe dovuto suscitare compassione anche in una persona dura e poco sensibile come la contessa, ma la sua tranquillità e il suo desiderio di solitudine erano stati scambiati per indice di risentimento e di un carattere scontroso.

    Era metà mattina quando Charles giunse a Château Feroc. La splendida residenza era circondata su ogni lato da grandi giardini all’italiana, delimitati da siepi di bosso tagliate di fresco e i lunghi ed eleganti sentieri erano affollati di statue e vasi traboccanti di fiori e di svettanti fontane decorate. Sul velluto verde del tappeto erboso altezzosi pavoni esibivano impettiti il loro variopinto piumaggio.

    Nell’aria aleggiava un senso di pace e serenità, a dispetto del fatto che, come gli fu riferito alla sua richiesta di vederlo, proprio quel giorno il Conte de Feroc doveva essere sepolto nella tomba di famiglia della chiesa locale.

    Si diresse verso la chiesa. Sui volti delle persone che affollavano il sentiero che conduceva ai cancelli lesse tristezza, partecipazione, ma anche curiosità e astio per l’uomo che, imponendo tasse elevate, aveva reso a molti la vita difficile.

    Tutti gli sguardi erano rivolti verso la chiesa, che cominciò a riempirsi in una quieta processione. Charles scese da cavallo e si tolse il cappello tenendosi a una certa distanza. I parenti in lutto non erano molti, perché le persone delle classi superiori non osavano mettersi in viaggio in tempi simili.

    Il suo sguardo fu attratto dalla maestosa figura di quella che doveva essere la contessa. Era seguita da due donne a capo chino, come lei completamente vestite di nero, che stringevano tra le mani guantate di nero i breviari. I loro volti erano celati da velette che scendevano dai cappelli, lasciando intravedere che si trattava di due giovani. Lo sguardo di Charles indugiò su quella più alta, una ragazza snella di cui gli parve di riconoscere le movenze.

    Osservò il corteo allontanarsi: non sembrandogli opportuno intromettersi durante il funerale, decise di tornare alla locanda fino al giorno successivo. Non poteva però permettersi di restare oltre, era troppo pericoloso per lui rimanere in Francia: doveva andarsene al più presto.

    Seguendo l’alto domestico con la parrucca bianca e la livrea blu notte su per la grande scalinata in marmo bianco di Château Feroc, Charles si ritrovò avvolto dalla raffinata eleganza della Francia del Settecento, circondato da decorazioni dorate, infinite specchiere nei cui riflessi gli spazi parevano sdoppiarsi, eleganti porcellane, pesanti sete, spessi tappeti e lampadari scintillanti.

    Percorse un corridoio e fu fatto accomodare in una sala dall’alto soffitto a volte, caratterizzata dal lusso e dall’eleganza che si confacevano a una famiglia nobiliare. I bei mobili raffinati erano in stile Luigi XVI, l’attuale sovrano, e i cristalli del lampadario catturavano la luce

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