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L’illusione di una vita saggia
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E-book410 pagine6 ore

L’illusione di una vita saggia

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Info su questo ebook

Una incredibile testimonianza dall'interno delle Pubblica Amministrazione, che

racconta anche degli anni di Tangentopoli.

Tutti sono colpevoli, nessuno è innocente
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2013
ISBN9788891120595
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    Anteprima del libro

    L’illusione di una vita saggia - Eleonora Marini

    finita.

    CAPITOLO PRIMO

    E arrivò il primo giorno di lavoro, oddio, non arrivò liscio come l’olio, ci furono due o tre altre incazzature e litigi con l’ufficio personale, altre due o tre minacce da parte sua, ma alla fine ’sto cazzo di primo giorno di lavoro arrivò. Venne assegnata al servizio bilancio. Giulia aveva ventotto anni, ma sembrava molto più giovane, certi giorni sembrava una quindicenne. E non era una fortuna, per una in carriera. Magari andando avanti con l’età avrebbe fatto comodo, questo suo aspetto molto giovanile, ma a ventotto anni non tanto.

    Quel giorno, atteso da una decina di anni più o meno, cioè da quando faceva le scuole superiori, studiò con attenzione quello che doveva mettersi. Alla fine decise che era meglio restare anonima, classica e vedere poi l’aria che tirava. Tirava aria strana anche nei vestiti, perché, specie le donne, erano o vestite classiche da manager inappuntabili o vestite da ce l’ho solo io. E fu così che anche lei il primo aprile iniziò… bello scherzo di aprile, anche per lei.

    Cosa pensa una che dopo tanti anni di studio, dopo tanto penare, dopo un concorso vinto onestamente, riesce finalmente a vincere un posto che poi mica in tanti vogliono– Pensa che dovrà presentarsi dal capo, chiedere cosa deve fare, dire cosa sa fare, qual è il suo percorso di studi… etc… etc… Niente di tutto questo. Appena messo piede nella segreteria di quello che le avevano detto essere il servizio bilancio, un banale stanzone con due brutte scrivanie,( giusto per dire che lei era Giulia Marini, vincitrice di concorso e, quindi, per una quasi quarantina di anni circolante per quegli uffici), le si presenta uno che le chiede di che partito è, anzi, le dice di che partito non è… visto che non apparteneva a uno dei suoi.

    – Toh… guarda… una socialista! – dice tranquillo il tipo ben vestito con un sigaro pendente in bocca.

    – Perché dovrei essere socialista, scusi? – gli fa Giulia piuttosto risentita, a lei i socialisti erano garbati sempre molto poco.

    – Beh – disse quello con l’atteggiamento di uno che dice la roba più normale di ’sto mondo – non sei democristiana, altrimenti io lo avrei saputo che oggi arrivavi… Quindi, sei socialista!

    Quella frase, detta con quell’atteggiamento di ci vuole tanto a sapere cosa sei sputatole in faccia, fu come una manata in pieno volto per Giulia. Cazzo, pensò, qui non si sfugge, o l’uno o l’altro. Solo loro assumono, solo loro hanno il posto, democristiani o socialisti , manco un ago sfugge dalle mani di questi avvoltoi.

    Giulia rimase per un po’ a decidere su che reazione avere. La sua natura alquanto aggressiva le suggeriva di dirgliene di tutti i colori, ma la sua natura strategica, Giulia era altamente strategica in tutti i suoi atteggiamenti, le suggerì di controllarsi. In fondo, quello era il suo primo giorno di lavoro. Alla fine optò per una soluzione intermedia, né aggressiva né placida, ma acida, perché in fondo, un po’ di acida ironia non sta male mai in nessuna situazione.

    – Diciamo che ogni tanto qualcuno sfugge – disse con tono sostenuto ma stemperato da un sorrisetto placido.

    – Ma sei una comandata? – insistette quello che non sapeva rassegnarsi. Comandata voleva dire che proveniva da altro Ente.

    – No, né comandata né raccomandata – rispose Giulia, che per fortuna voleva contenersi – ma vincitrice di concorso.

    – Sì, sì – rispose quello – dicono tutti così. Vieni, aspetta qui fuori che il dirigente ancora non s’è visto.

    E le fece segno di sedersi su una poltroncina molto consumata.

    Giulia era stata assegnata al servizio bilancio, c’era scritto nella lettera di convocazione, senza indicare a che ufficio. I servizi erano organizzati in uffici che erano una sottodivisione del servizio, quindi era normale non indicare l’ufficio, quello lo doveva decidere il dirigente del servizio. Veramente non è che le piacesse tanto, lei amava la strategia aziendale, creare meccanismi per far crescere le aziende. Aveva studiato economia proprio per quello. Quindi, star lì a far pagamenti o bilanci e basta non è che le piacesse poi molto. Ma non aveva protestato più. Aveva già fatto pure troppo casino e voleva stare un po’ buona a studiare la situazione. Inutile protestare e farsi già notare. Una volta inserita, si disse, mi guarderò intorno.

    Dopo circa un’ora che aspettava in un atrio, da cui partivano diversi corridoi pieni di uffici e, piuttosto perplessa, visto che nessuno la degnava di uno sguardo, decise di fare qualcosa: si alzò e si intrufolò in uno dei corridoi, quello che le dava l’idea di essere il più importante.

    – Scusi? – chiese all’unica persona che trovò seduta dietro una scrivania, eppure erano quasi le dieci – Sono Giulia Marini, vincitrice di concorso, sono stata assegnata a questo servizio.

    – Ah sì? – rispose quest’unica persona, una signora sui cinquanta, piccolina, di statura magra e molto indifferente anche lei, probabilmente la caratteristica principale di chi già ci lavorava in quegli uffici, – prosegua lungo il corridoio, il dirigente si trova nell’ultima porta a sinistra.

    – Grazie – disse Giulia guardando verso quella penultima porta e dirigendovisi. O almeno, tentò, perché non fece in tempo che una figura maschile le sfrecciò davanti in piena corsa e quasi la fece cadere. Mezza barcollante e molto sorpresa, guardò per capire chi fosse quell’uragano e si accorse che era un uomo sui quaranta che correva tenendosi in mano la cintura aperta dei pantaloni, abbondantemente scesi, con la maglietta tutta arrotolata fino quasi sottobraccio, tanto che fra i pantaloni scesi e la maglietta arrotolata gli si vedevano fianchi e schiena nuda. L’uomo arrivava fino in fondo al corridoio, girava e ricominciava. Su e giù, su e giù.

    – Così mi passa il pizzicore alla schiena – diceva correndo – l’aria me lo fa passare.

    Piuttosto perplessa, Giulia proseguì per il corridoio, quando un tizio che stava seduto su una sedia immobile a guardare il muro, giusto dietro uno schedario che stava nel corridoio, le fece fare un altro salto. Guardò e riguardò il tizio che non mosse un muscolo, non fece un cenno di saluto, niente di niente, come se lei non esistesse e tirò avanti per quel corridoio che adesso, più che il corridoio di un ufficio pubblico le sembrava quello del manicomio. Eppure ho vinto un concorso in regione,– si disse. O almeno mi pareva. Ma qui sembra che abbia vinto un posto all’ospedale psichiatrico–. E perplessa riprese la sua strada verso l’ufficio del dirigente.

    – Dica? – chiese uno piuttosto anziano seduto dietro a una scrivania di noce massiccia e che doveva essere il dirigente, visto che sulla targhetta era scritto così, anche se non ci avrebbe giurato, vista la gente strampalata che aveva incontrato e vedendo che rimaneva titubante sulla porta.

    – Buongiorno, sono Giulia Marini, vincitrice di concorso, assegnata a questo servizio.

    – Ah bene! – fece quello alzandosi e venendole incontro – sono Glauco Tommasi, il dirigente. Adesso l’accompagno al suo posto di lavoro.

    – Grazie – rispose Giulia un tantino sollevata, visto che ’sto Glauco Tommasi, a parte il fatto che aveva un solo dente in bocca, sembrava normale. E si accodò al dirigente che intanto si dirigeva verso quello che presumibilmente sarebbe stato il suo ufficio. Presumibilmente, perché Giulia Marini, vincitrice di concorso, inesperta, ci metterà due anni per scoprire che quello che le era sembrato normale, seppur sdentato, la stava accompagnando alla prima scrivania che avrebbe incrociato, incurante che avesse fatto parte o no del Servizio a cui era stata assegnata, giusto per togliersela dalle scatole. E sempre due anni ci avrebbe messo a scoprire che quella scrivania faceva parte di un altro servizio che non c’entrava niente con quello che risultava dal decreto di assegnazione… Come dire, sarebbe stata due anni abusiva. Ma niente sapeva e niente immaginava Giulia, quel giorno di aprile, quando giuliva e compiaciuta si sedette sulla sua bella scrivania di color marrone. Il fatto era che Glauco Tommasi detestava qualsiasi nuovo funzionario e appena ne arrivava uno, nonostante che lui ne richiedesse continuamente, lo sbolognava nella prima stanza con una scrivania libera. Strano tipo Glauco Tommasi, tempestava l’ufficio personale con continue richieste di funzionari che poi, non solo non utilizzava, ma nemmeno poteva vedere. Ed era così indisponente col personale che certi, rottisi per bene, prendevano, si alzavano e andavano a lavorare da un’altra parte, così, di loro iniziativa. E nessuno aveva niente da ridire. Il fatto era, e questo Giulia lo capirà prestissimo, che il numero di dipendenti sotto ogni dirigente era uno dei tanti segni distintivi di importanza e di potere che c’erano. Ed era uno dei parametri che potevano essere sempre utilizzati per un aumento di stipendio. Al momento non era così, ma visto mai… E nessun dirigente si lasciava sfuggire l’occasione per aumentare la dotazione del suo ufficio. Perché, se c’era una cosa praticata alla grande, era proprio il visto mai–. Anzi, c’erano casi di dirigenti particolarmente pressanti che tempestavano l’ufficio personale di continue richieste di funzionari, tanto che quelli, sfiniti, gliene mandavano di continuo. Tutta gente che immancabilmente avrebbe scaldato la sedia, perché se c’è una cosa che non si usa fare negli uffici, è mettere il personale dove ce n’è bisogno. Comunque, soddisfatta e ignara, Giulia si sedette sulla sua bella poltroncina girevole e accarezzò la scrivania che per la verità era molto impolverata, cosa che neanche notò. A dire il vero neanche fece molto caso al fatto che il dirigente se ne fosse andato in fretta senza farle minimamente cenno al lavoro, a chi doveva chiedere, niente di niente. Tranquilla, tirò fuori la sua agenda, giusto per darsi un tono, visto che non c’era scritto proprio niente. Aveva però letto su un manualetto di management che bisogna averne sempre una fra le mani e appunto questo stava facendo. Cominciò a guardare l’ufficio. C’era poco da guardare. Era il classico stanzone pieno di faldoni, pratiche, carte, polvere, tanta polvere. Anche sulla sua scrivania c’erano parecchie carte, pratiche, almeno a lei sembrava. E giusto per capire qualcosa, diede una sbirciatina. Erano elenchi di mandati di pagamento veri e propri. Qualcuno doveva essere già a posto, visto che era spillato dietro a dei decreti, altri dovevano avere avuto degli inciampi, perché erano nudi e crudi, senza niente allegato. Di fronte alla sua scrivania ce n’era un’altra decisamente più abitata della sua. Era semicoperta da un mucchio di carte. A metà della scrivania c’era un timbrone immerso in un tampone di inchiostro. Per terra, pezzetti di carta in ordine sparso. Carta che sembrava fosse destinata al cestino, ma che aveva preso terra prima. Del possessore della scrivania, nemmeno l’ombra. Cominciando a realizzare che nessuno le aveva detto cosa fare, quali fossero i suoi compiti, cominciò a tamburellare sulla scrivania. Gli uffici, intanto, si erano animati. Si sentiva un brusio di fondo, porte che si chiudevano, gente che passava nei corridoi e andava non si sapeva dove. Nessuno venne a dirle qualcosa, un saluto, una frase. Sembrava invisibile. Scoglionata e piuttosto demoralizzata, decise di guardare meglio le carte che stavano sulla sua scrivania e quindi, presumibilmente, un qualcosa che fosse attinente al suo lavoro. E stava proprio cominciando a capire , quando entrò nella sua stanza Gloria Mangano, una che aveva fatto il concorso con lei e come lei era stata assegnata al servizio bilancio.

    – Posso? – chiese timidamente e spaesata anche lei.

    – Ciao – rispose Giulia un tantino sollevata. Vedere un’anima persa come lei, non poteva che aiutarla

    – Senti – disse la sua collega sedendosi davanti ala scrivania – ma a te hanno detto cosa devi fare–

    – A me– Niente di niente. Non guardare ’ste pratiche che ho qui davanti. Faccio finta giusto per darmi un tono – rispose Giulia, – mi hanno detto di star qui e io qui sto.

    – Be’, almeno a te hanno detto di star qui – rispose mogia, – io manco una stanza ho. È da questa mattina che sto su una sedia nel corridoio.

    – Si farà pure vivo qualcuno – rispose Giulia, che non sapeva che a lei era andata meglio solo perché il dirigente aveva trovato in fretta una stanza libera. Se, putacaso, non ce ne fosse stata una disponibile, avrebbe scaldato la sedia sul corridoio anche lei.

    – Speriamo – rispose piuttosto demoralizzata, – mi sento così ridicola.

    – Non dirlo a me – rispose Giulia.

    Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che entrò il suo collega di stanza. Anzì, precipitò, perché come sempre, era incazzato nero.

    – Buongiorno – disse sgarbato – voi chi sareste–

    – Siamo le vincitrici di concorso, assegnate a questo ufficio – rispose Giulia che, visto che aveva una seggiola assegnata ufficialmente, si sentiva un po’ più forte.

    – Concorso–! – chiese meravigliato il tipo – e da quando fanno concorsi– Qui si entra in tutti i modi meno che col concorso. La vostra sarà una chiamata diretta.

    Giulia ancora non lo sapeva, ma da quelle parti, quando una entrava per chiamata diretta voleva dire per chiavata diretta. Quindi, implicitamente, aveva detto che loro si erano fatte chiavare per entrare.

    – Infatti è stato il primo concorso – rispose Gloria Mangano, ignara anche lei delle dicerie.

    – Ho capito – rispose il tipo – be’, io sono Roberto Carlini. Ma voi siete state piazzate tutte e due qui nella mia stanza? – chiese sospettoso, visto che di scrivanie ce ne erano due. Era un vecchio trabiccolo della pubblica amministrazione, come si autodefiniva, ne aveva viste di tutti i colori e sapeva che ogni giorno ce n’era una nuova. E mai gradevole.

    A quel punto Giulia cominciò a squadrarlo un po’. Un bell’uomo, senza dubbio, alto e muscoloso, molto bruno, uno che si doveva curar parecchio, sui cinquanta, ma ruvido e incazzereccio, si vedeva subito.

    – Veramente solo io – rispose Giulia.

    – Io, invece, ancora non so dove andrò – rispose scoglionata Gloria – anzi, vi lascio e mi rimetto sulla mia seggiola lungo il corridoio, sia mai che qualcuno mi chiami o che qualcuno me la freghi, così mi toccherebbe stare pure in piedi.

    E Giulia rimase sola con Roberto a prendere le prime lezioni di sopravvivenza. Il vecchio trabiccolo pensò giustamente che, se non sai le cose basilari, non vai avanti. E le cose basilari non erano di certo di diritto amministrativo.

    Non ci mise tanto a passare quel benedetto primo giorno di lavoro di Giulia di quel tanto agognato posto nella pubblica amministrazione e fu proficuo di insegnamenti. Primo, imparò che in ufficio si lascia sempre una vecchia giacca, un vecchio cappotto, in maniera tale che chi viene deve avere l’impressione che sei al lavoro, mentre invece sei fuori a farti gli affari tuoi, ma, soprattutto, imparò che in quelle stanze, in quegli uffici, fra quegli apparati, l’unica cosa seria che si faceva era il sesso. Bella attività, del resto. Uscì verso le sei di sera piuttosto stanca, combattuta fra entusiasmi e prime perplessità. Roberto era una brava persona, si vedeva. Ogni tanto urlava non si sa bene cosa perché masticava le parole invece di dirle, mandava qualche che tu possa prendere fuoco! la sua imprecazione preferita e urlava a bocca spalancata al tipo che aveva visto correre a braghe scese e che spesso faceva capolino nella loro stanza, ma nell’insieme si stava bene. Nel corridoio trovò Gloria ancora seduta ad aspettare qualcuno che la chiamasse. Dovrà aspettare ancora una settimana esatta prima che qualcuno si degnerà di darle una sedia con una scrivania davanti. Per quello che poi seppe Giulia, per avere qualcosa da fare dovrà aspettare ancora parecchio. A lei era andata meglio. Roberto, oltre alle prime lezioni di sopravvivenza, cominciò pure a insegnarle un po’ di lavoro. Glielo insegnò arruffato e incazzereccio come era lui, ma era meglio di niente. Con l’aria che tirava… E scoprì pure che era stata assegnata all’ufficio di spesa o così almeno credevano tutti.

    Giulia era una donna introversa, schiva, portata a stare da sola, amava i climi freddi, le giornate nebbiose, il vento che muoveva in fretta le nuvole, che ululava. Era quella che si dice una donna dal fascino torbido, ambiguo, ma non per il suo aspetto esteriore, che anzi era molto rassicurante e un po’ banale se vogliamo, era ambigua e torbida per personalità, per carattere. Ed era problematica sempre. E questo carattere torbido si avvertiva. Giulia non amava molto stare in mezzo alla gente che nonostante tutti gli sforzi, l’annoiava. – Almeno devo sopportare solo me stessa, – si diceva quando, anche da bambina, preferiva starsene in casa da sola a leggere un libro. Un giorno, da ragazzina, per la prima volta confidò a un suo amico che lei amava troppo, per essere così giovane, stare in mezzo ai suoi libri invece che tutto il giorno a caccia di ragazzi. È il destino delle persone troppo intelligenti per gli altri le aveva detto questo. Cosa che lì per lì le aveva procurato piacere, ma visto che poi il suo amico si era rivelato solo uno che mirava a trombarla, quindi poco affidabile nei giudizi, aveva accantonato il concetto che fosse per quello che cercava la solitudine. Forse, si diceva molto più banalmente, ma anche molto più sinceramente e con un po’ di esagerazione, sono una superba. Comunque, intelligenza o no, lei amava starsene per gli affari suoi.

    Giulia stava sempre con la testa fra le nuvole a vivere le situazioni che la vita le presentava, come se fossero del passato, come se venissero da chissà che epoca… Era una che non riusciva mai a vivere il momento, era perennemente incapace di vivere e di godere quello che in quel momento la vita le presentava… Come si dice in questi casi– La vita è altrove… Ecco, Giulia era una che viveva la vita altrove e in anni passati, nel tentativo di catturare di nuovo quelle emozioni e riassaporarne i sapori. Giulia era, a dirla breve, riluttante ad accettare il presente. Non era una che avesse un grande rapporto col mondo attuale. Tutto questo era molto in contrasto con il suo aspetto esteriore, fisico, che invece era molto tranquillizzante. Vero è che dire che un fisico è tranquillizzante vuol dire poco, ma era proprio così. Era sì parecchio carina, ma di un carino non aggressivo, un carino che poneva le sue radici nella quotidianità. Un carino di tutti i giorni. Un connubio strano, però. Lei diceva di sé che era un carino trasparente che faceva vedere quanto fosse incasinata nella personalità e che così riusciva a mascherare la banalità del fisico. Esagerava, come sempre, non era poi così banale di fisico, era, appunto, un carino di tutti i giorni. Castana chiara, lineamenti delicati, poco accennati, bella pelle sottile, begli occhi grigioverdi. Cosa ci poteva essere di più quotidiano–

    Passò in fretta anche la prima settimana di lavoro, tutta occupata com’era a capire dove fosse finita. Giulia era una donna sveglia, attenta al minimo particolare, diffidente dell’ambiente in cui era trovata a lavorare, fino all’eccesso. E questo sin dal primo giorno. Che strano, però, mitizzare tanto un lavoro e, quando ci si arriva, vivere in uno stato di diffidenza totale. Del resto, però, ne aveva sempre sentite tante su quegli ambienti, che era naturale la sua diffidenza. Giulia poi veniva dal popolo, non aveva avuto mai raccomandazioni di nessun tipo, era andata avanti a sacrifici e impegno. Era quindi naturale, per lei, diffidare di quegli ambienti borghesi, di quei signori–, come le diceva la madre. Che poi i signori veri non ci pensassero nemmeno ad andare a lavorare nella pubblica amministrazione, neanche le sfiorava la mente. Per lei, quei colleghi che erano tutti figli di insegnanti o di impiegati, erano signori". Stava giusto riflettendo sul fatto che non conoscesse nessuno dei suoi colleghi, mentre scorreva i corridoi e leggeva le targhette dei nomi degli occupanti degli uffici, quando si incrociò con un suo vecchio amico: Adriano Giustozzi. Adriano era uno che aveva conosciuto alle scuole medie e che poi aveva perso di vista, uno che già a quattordici anni aveva la fissa della politica. Andava sempre in giro come in posa già a quei tempi, segno che certe cose ce le devi avere nel sangue. E di sicuro non era cambiato. La vide per primo lui.

    – Ciao! – le disse fermandosi di botto.

    Giulia, tutta presa dal suo giochino di leggere i nomi sulle targhe e di dirsi manco questo conosco, ci mise qualche secondo a riconoscerlo.

    – Ciao! – disse accendendosi nel vederlo, perché finalmente incrociava qualcuno che conosceva – che ci fai da queste parti–

    – Che ci fai tu– Io ci sto da due anni, sono consigliere – rispose Adriano.

    – ’azzarola, alla fine ci sei diventato davvero politico di professione! – rispose Giulia con una faccia felice, manco avesse visto la Madonna di Loreto. Mica tanto per lui, quanto per lei, che almeno, finalmente, aveva un amico lì dentro, anche se dire amico era un po’ troppo, erano anni che non si vedevano.

    – Sì, vedo che ti ricordi – rispose sussiegoso e compiaciuto Adriano che, come tutti i politici, era molto narciso.

    Adriano era diventato un bel giovane alto e distinto. Capelli castani lisci, molto curati, occhi sempre un po’ socchiusi, tipico atteggiamento di chi non vuol far tanto capire come la pensa, vestito in modo inappuntabile, molto classico per un giovane. Un tipo atteggiato da politico di professione, insomma. O uno, naturalmente, politico.

    – E come potevo non ricordare? – rispose Giulia – parlavi solo di politica, eri l’unico fra noi ragazzi.

    – Vero – disse Adriano con un sorriso un po’ folle, – la politica l’ho sempre avuta nel sangue. Ma tu, cosa ci fai qui– A te della politica non fregava niente.

    – Ho vinto un concorso – rispose Giulia raddrizzandosi, visto che a quei tempi era ancora capace di raddrizzarsi per qualcosa. Mancava il petto in fuori e sarebbe stata perfetta. Orgoglio e pregiudizio, poteva essere il suo motto da quando era entrata in regione.

    – Brava, complimenti, mia bella secchiona! – disse Adriano chiamandola con lo stesso nomignolo di quando erano ragazzini, – se ti conosco bene e se sei rimasta quella di quegli anni… auguri!

    – Grazie, anche se non ho proprio capito cosa volevi dire – rispose incerta Giulia che chiaramente aveva avvertito l’ironia nelle parole di Adriano. Cosa c’era da fare dell’ironia, pensò, sul fatto che una cerca di essere coerente, piena di buona volontà– Sicuramente lui si riferiva a quello, perché era il suo tratto caratteristico anche da ragazzini.

    – Volevo dire che tu, con i tuoi idealismi, sempre se ancora li hai, qui ti divertirai, anche se penso che questo posto cambierà in fretta anche te. Qui dentro, mia cara, tutto e tutti cambiano, esplodono, si sciolgono, qui tutto diventa corrotto. Hai presente una casa di sale che entra nell’acqua bollente– Ecco, questa è una casa di sale che si scioglie nell’acqua in un secondo e scioglie tutto quello di buono che sta al suo interno, cose e persone. Scioglie e intorbidisce.

    E quella fu la prima volta che Giulia sentì quella strana espressione, quello strano modo di definire un posto di lavoro pubblico. E le rimase impresso per bene nella mente. Anche se, alla fine, era solo uno dei tanti modi che la gente aveva per definire quell’ambiente. E non era manco il peggiore.

    – Continuo a non capire – mormorò Giulia sempre più in difficoltà, arrossendo di incertezza.

    – Capirai in fretta… oh se capirai… – rispose acido Adriano – ma posso anticiparti che entro breve non sarai la stessa idealista tutta d’un pezzo che sei… O che eri, non so.

    – Non penso – rispose Giulia che stava cominciando a capire a che cosa si riferisse Adriano, – io non cederò mai ai compromessi. Non sarò una santa o una ingenua, qualcosa posso anche accomodarla, ma grosse cose non le farò mai.

    – Vedremo, vedremo… Ne ho conosciuti, sai, di eroi proletari come te, ma chissà perché, una volta arrivati in questi posti, cambiano.

    – Capirai, vendersi per questi due soldi che mi danno! – rispose Giulia.

    – Per due soldi o per uno, ma non è solo il vendersi, è ben altro. Questi posti son così, dopo poco che ci sei cominci a ragionare in maniera torbida, ambigua, vedi solo complotti, marcio e tanta cattiveria, in te e negli altri. Entro breve ti accorgerai anche tu di quanto stai cambiando, magari cercherai di resistere, non lo nego, ma cambierai il tuo modo di pensare né più né meno come gli altri. D’un tratto ti accorgerai che fai dietrologia su tutto, che quello che vedi ha bisogno di essere decodificato perché in effetti quello è: un’altra cosa rispetto a quello che sembra, – disse Adriano con il sarcasmo nella voce, ma un sarcasmo brutto che sapeva di perfidia, – qui dentro sei condannato al male prima ancora di cominciare. Il perchè lo vedrai presto: qui nessuno è innocente, ognuno è vittima e carnefice in un gioco al massacro senza scampo. Qui ognuno è ricattato e ricattatore. Si tengono tutti per le palle e solo così si tengono in piedi. Ognuno sa una marea di segreti, di robaccia piccola e grande che usa per avere vantaggi. Ma è proprio tutto questo che tiene in piedi la baracca. Senza questi ricatti incrociati sarebbe crollata da un pezzo, schiacciata dal marcio che produce.

    – A sentirti sembra un romanzo – rispose dubbiosa Giulia che a quei tempi era ancora diffidente sì, dell’ambiente, ma troppo al di fuori delle vere faccende. Per lei, in quel momento di noviziato, era più facile diffidare di un contesto di lavoro che di singole persone. Un ambiente è neutro, dice tutto e niente, cominciare a vedere il male in ogni singola persona che ti vive accanto ogni giorno è molto più difficile.

    – No, mia piccola secchiona, tutt’altro. Il romanzo deve essere credibile. Qui è talmente tutto brutto, perfido e fetente da essere irreale. Comunque ci si risente, perché, scusa, adesso devo andare, ho una riunione di maggioranza. Tanto ci vedremo spesso, d’ora in poi.

    – Sì, certo, lo penso anche io – rispose lei ancora sospettosa. Pensava che la volesse prendere in giro come quando erano ragazzini quando le nascondeva i libri perché diceva che li consumava a forza di studiarli. Quindi, è solo la rete dei ricatti che non fa crollare la baracca, si diceva camminando a testa bassa… mah, vedremo.

    Non sapeva Giulia che con quel breve colloquio aveva avuto tutte le informazioni necessarie su quel posto, tutto quello che le occorreva sapere per capire come ci si viveva, su come ci si viveva e su come bisognava contenersi. Come si dice in questi casi– Lei ha tutto quello che le occorre per lavorare. Non sapeva, ma ben presto avrebbe saputo e a malincuore avrebbe dovuto ammettere, che Adriano, suo antico compagno di scuola, le aveva detto solo grandi verità in quel loro breve e veloce incontro, il primo di tutta una serie di incontri e di scontri che avrebbero pesantemente condizionato la sua futura vita. Altro che le lezioni di sopravvivenza di Roberto, che pure erano toste! Ma Roberto era solo un vecchio trabiccolo della pubblica amministrazione, un prodotto di altri tempi, non meno corrotti e perfidi, ma probabilmente più semplici. In fondo era l’Italia che era diventata molto complessa e tumultuosa, con cambiamenti continui e incertezze profonde. L’Italia, come sempre, si era voluta trasformare e, come sempre quando si trasformava, lo faceva senza limiti e senza contrappesi di sorta. La pubblica amministrazione era solo lo specchio di quella Italia.

    Pensierosa, Giulia rientrò nella sua stanza e si sedette alla scrivania per riflettere. Chissà cosa avrà voluto dire con quegli auguri, si diceva tamburellando con una penna sul tavolo, e con tutti quegli strani discorsi sui cambiamenti. Giulia aveva ventotto anni ed era ben convinta di avere una personalità ormai matura, definitiva, come sarebbe potuta diventare come quello che lui descriveva– Lei non era una che poteva far del male, diventare perfida, non all’eccesso, almeno.

    – Conosci Adriano Giustozzi? – chiese al suo rustico compagno di stanza che lavorava da tanti anni in quel posto e che pareva sapere tutto di tutti.

    Era uno strano tipo, pure lui, adesso che lo conosceva meglio. Sembrava schizofrenico nel modo in cui era maniacale. Maniacale come teneva le carte, sempre nella stessa porzione sulla scrivania, né un centimetro di più né uno di meno. Maniacale come teneva le penne nel portapenne, sempre senza cappuccio e rivolte verso l’alto. Maniacale su tutto, anche nel vestire. Sempre senza una piegolina, un pelo. Unico neo nella sua precisione maniacale erano quei fogli, quelle penne, quello che non serviva più che invece di buttare nel cestino gettava per terra. Aveva di sicuro una grande valenza, quel buttare via con malagrazia quello che era finito, da non usare più. Una grande valenza simbolica, che rappresentava tutti loro: se non servivi ti buttavano via senza grazia. Comunque, era un frustrato, pure lui.

    – Come no – rispose alzando gli occhi dalla pratica che aveva fra le mani, – il consigliere. Tipettino sveglio e molto arrivista, come tutti qui dentro, politici o funzionari.

    – Eravamo compagni di scuola, tanti anni fa – mormorò sempre molto pensierosa Giulia, – è sempre stato attratto dal potere. Quando giocavamo voleva comandare sempre lui. Ha sempre detto che avrebbe fatto il politico e a quanto pare c’è riuscito.

    – Politici si nasce – sentenziò Roberto, – non ci si diventa. È qualcosa che hai nel sangue. E non è qualcosa di buono.

    – Sì, certo – rispose Giulia, anche se ho sempre avuto l’idea che in politica ci si mettano i falliti delle diverse professioni, quelli che hanno la percezione che non sanno fare niente di veramente buono.

    – Attenta – rispose Roberto, che se c’era qualcosa che aveva imparato dopo tanti anni nella pubblica amministrazione era la marea di cose che si pensano ma che, mai e poi mai, si devono dire. – Una volta si diceva anche i muri hanno orecchie–, oggi si dice mai dire come la pensi davvero".

    – Lo so – rispose sbrigativa Giulia cercando la penna che si era infilata sotto il foglio.

    – Ti do un consiglio – disse Roberto scrutandola perché aveva già capito la personalità della sua nuova collega – se vuoi andare avanti bene qui dentro mantieni sempre un profilo medio tendente al basso, nasconditi nel branco, non cercare di emergere e se lo fai, ricorda, che lo fai a tuo rischio e pericolo. Qui, se c’è una cosa che suscita sospetto e diffidenza, è il funzionario serio, attivo e disponibile. Se poi fai gli interessi della pubblica amministrazione, ti scavi la fossa giorno dopo giorno. Altra cosa, non dare mai l’impressione di essere intelligente.

    Perché Giulia non stette ad ascoltare quel saggio consiglio–

    Tra una scoperta e l’altra, fra un consiglio e l’altro, Giulia contava i giorni. Primo giorno di assunzione, secondo giorno, prima settimana e via di questo passo. E avrebbe continuato a contare il tempo per tutto il primo anno di assunzione. Finito quello, si sarebbe considerata ormai troppo stagionata per dover contare ancora. Dopo andò solo ad anni: primo anno di assunzione, secondo anno e via dicendo. Ogni giorno di quei primi tempi viveva qualche sorpresa nuova, ogni giorno aggiungeva qualche informazione al suo scarno bagaglio di neo assunta. Cercava di farsi vedere scafata e pronta a ogni evenienza, ma certe volte proprio non sapeva cosa dire, come reagire. Ed era anche normale, vista l’umanità che girava stralunata per le perdute stanze, come diceva con grande serietà Roberto. E fu verso le 16.00 del suo decimo giorno di lavoro, ne era rigorosamente certa perché stava proprio con l’agenda in mano a contare, quando le pareti divisorie dell’ufficio contiguo al suo cominciarono a tremare. Lì per lì pensò al terremoto poi, vedendo che il lampadario se ne stava fermo, cercò di capire cosa fosse quel tremore. Sembrava che qualcuno buttasse qualcosa di pesante contro la parete. Ma non capiva cosa potesse essere, anche perché quell’ufficio era vuoto.

    – Roberto – chiese angosciata– ma cos’è ’sto rumore– Cosa sono questi tonfi–

    Roberto, indifferente e senza nemmeno alzare lo sguardo dai fogli che stava leggendo, alzò le spalle.

    Piuttosto confusa e non sapendo cosa pensare, provò a far finta di niente anche lei, ma non ci riuscì, perché i tonfi si erano trasformati in un rumore squillante, come di schiaffi sonori su qualche povero viso.

    – Ma cazzo, Roberto! – disse a voce parecchio alta – ma mi vuoi dire cosa succede–

    – Ma sono quei due scemi… – e fece sempre l’indifferente ma stavolta guardandola.

    – Quei due scemi, chi? – domandò Giulia.

    – Miriam, quella che sta all’ufficio Entrate. Come sempre fa le sceneggiate con il suo amante –borbottò scoglionato Roberto.

    – Cosa vuol dire sceneggiate? – domandò Giulia sussultando visto che ora si sentivano urla appena soffocate.

    – Recitano agli amanti gelosi . Lui viene qui, fa la sceneggiata chiedendole dove era, perché non ha risposto al telefono e via dicendo e poi comincia a prenderla a schiaffi. Lei scappa dalla sua stanza e si rifugia in questa accanto. Poi lui le corre dietro, la sbatte sul muro e via dicendo. Sempre la stessa solfa – e terminò sempre scoglionato.

    – Cazzarola, ma lei accetta tutto questo? – domandò sconvolta Giulia.

    – Certo, che lo accetta, anzi, si eccita pure – rispose Roberto – vedrai che fra un po’ non sentirai più niente. Ecco, senti– Tutto tace, si sono eccitati e adesso…

    – Vuoi dire che scopano, adesso? – chiese Giulia aguzzando le orecchie. In effetti non si sentiva più niente.

    – Di preciso cosa fanno non so, certo non lavorano – rispose Roberto cercando il timbro.

    – Però – disse Giulia, – che fantasia – e si rimise a fare quello che aveva interrotto.

    Dopo una mezzoretta vide passare davanti alla sua stanza Miriam, la masochista, che se ne tornava quasi ballando verso il suo posto di lavoro. E nel farlo quasi si scontrò con la protocollista che stava portando a Roberto una pratica.

    – Oggi più botte del solito – mormorò mettendo la cartellina sulla scrivania di Roberto, – è tutta un ematoma.

    – Per quello ballava così felice? – chiese Giulia che ormai aveva chiaro il meccanismo. Tante botte, tanto amore.

    – Già, oggi danzava come una libellula

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