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Nel Novecento. Marsico Paterno e il sindaco michele Lotierzo
Nel Novecento. Marsico Paterno e il sindaco michele Lotierzo
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E-book271 pagine4 ore

Nel Novecento. Marsico Paterno e il sindaco michele Lotierzo

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Nella storia sociale italiana della Basilicata, le vicende politiche e le lotte sociali sono illustrate attraverso la figura di un sindaco del Novecento.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2023
ISBN9791221475180
Nel Novecento. Marsico Paterno e il sindaco michele Lotierzo

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    Nel Novecento. Marsico Paterno e il sindaco michele Lotierzo - Antonio Lotierzo

    Parte Prima

    IL GOVERNO DELLA COMUNITÀ

    A MARSICONUOVO: DALLE FAMIGLIE

    AI PARTITI POLITICI

    Gli anni della fine giuridica della feudalità ( dal 1806 al 1820, data della morte dell’ultimo principe di Marsico, Girolamo III Pignatelli) coincidono con l’affermazione ed il consolidamento della borghesia rurale e professionistica marsicana, costituita da un gruppo di famiglie che attraversano i luoghi, il potere e la storia locale fino a noi.

    Nel 1806 la popolazione di Marsico e Paterno raggiungeva i 7.200 abitanti; nel 1861 si sfiorarono i

    9.000. In questo cinquantennio, la impetuosa crescita demografica è da attribuirsi al miglioramento delle condizioni di vita e degli strumenti di lavoro ma forse anche alla confluenza, dopo il sisma del 1857, di gruppi di Montemurro, da accertare meglio a livello archivistico.

    L’espansione demografica ottocentesca contrasta con le altre forme di serio declino economico, specie nei confronti della regione; infatti: a) molte terre, da Ponticello a s. Pietro, dopo Galaino, sono passate in altri due comuni che fino ad allora risultavano solo bonatenenti nei confronti di Marsico: Tramutola e Marsicovetere; b) per effetto del Concordato del 1818, Marsico aveva perso la titolarità della diocesi e veniva aggregata a Potenza, poco contando quell’eufemistico aeque et principaliter.

    Infine, c) Marsico, dall’appartenenza amministrativa al Principato Citra, era passata alla Basilicata, assumendo una posizione eccentrica e periferica; il vero centro emergente era Potenza, che dalla Restaurazione si riempiva di uffici provinciali.

    La perdita della presenza del vescovo finì col rafforzare questo nucleo di borghesia rurale, in quanto, per i processi di spoliazione dei beni ecclesiastici, rese disponibili per essa i terreni della chiesa e dei conventi, la cui gestione affittuaria si trasformerà in vera proprietà privata lentamente, nel cinquantennio che vide accumularsi l’effetto della leggi eversive con quelle dell’incameramento.

    Il patrimonio delle famiglie Barrese, Potenza, Giachetti, Tafuri, La Cava, Blasi, Cicchetti, Navarra, Messina, Rossi, Masini, Greco, Rivelli, Caggiano, Doti venne a costituirsi dalla duplice eredità dei terreni feudali ed ecclesiastici. I Navarra e i Cicchetti lavoravano alle dipendenze del solo nobile, il principe Pignatelli, come erari, attuari, procuratori.

    Minoritario ma non assente fu il ruolo del commercio, connesso con la pastorizia ( lana, formaggi) . La borghesia rurale, cresciuta e sviluppatasi all’interno delle strutture feudali e del patrimonio, fiscalmente quasi esente, delle chiese ricettizie, raggiunse e conseguì una propria autonomia politica in quel processo di liberalismo, anche economico, che si è soliti definire Risorgimento italiano.

    Per una prima informazione, specie sui moti e sulla Carboneria, il lettore potrà leggere le pagine di Ignazio De Blasiis (1987) passando poi alle considerazioni del denso saggio di Maria De Cristofaro ( 1991). Dalle eversioni ed incameramenti, la borghesia riuscì ad ereditare anche il patrimonio edilizio esistente: quasi tutto il palazzo Pignatelli venne acquistato, nel 1884, quale nuova sede del Municipio; il Convento delle monache benedettine, al Casale, fu trasformato in scuole elementari ( poi anche ginnasio); il Convento dei Cappuccini fu venduto all’asta ai contadini; presso s. Francesco, il Seminario fu trasformato in carcere ed in locali per le guardie di Pubblica Sicurezza.

    Esula dal nostro intento ripercorrere questi passaggi di proprietà e di uso ma sarà ben accettato un saggio che ripercorra, con i dati archivistici potentini, catastali e notarili, tale percorso,illuminandolo.

    Lungo il secolo XIX , nella trasformazione del paese, almeno sei famiglie svolsero un ruolo significativo: De Blasiis, Cicchetti, Dattoli, Masini-Montesano, vari ceppi dei Rossi e i Romania. I Navarra sono sindaci nel primo decennio dell’Ottocento; Gerardo Cicchetti è sindaco dal 1851 al 1853; Vincenzo Cicchetti dal 1885 al 1889. Domenico Dattoli ( famiglia che ereditò il palazzo degli estinti Barrese- Liparuoli, poi finito a don G. Boccia ed oggi donato al Comune per fini sociali) è sindaco dal 1860 al 1864; Michele Masini è sindaco dal 1864 al 1870 e dal 1882 al 1884. I vari rami dei Rossi espressero altri sindaci. Giuseppe Rossi, che esercitò il sindacato dal 1853 al 1859, era nato nel 1825 e morirà nel 1887; avvocato dal 1846, esercitò anche a Salerno fino al 1852, poi rientrò a Marsico. Tentò di risanare la situazione finanziaria del Comune ed avviò la costruzione del primo tratto della strada rotabile per Brienza. Dopo il 1860 fu consigliere di Prefettura e si interessò di affari demaniali e di reintegre d’usurpazioni terriere. Fu poi trasferito a Cosenza, Palermo, Frosinone e Catanzaro. Suo è quell’articolo breve e pieno di inesattezze, dovute all’adesione al sapere tradizionale ma collocato in rivista di prestigio, medaglione dal titolo Storia di Marsico ( con disegno), pubblicato sulla rivista Poliorama Pittoresco. Possedeva una discreta collezione di monete, in parte ereditate dall’avv. Enrico Votta e Conservate in Salerno (casa Maglione). Enrico Achille Rossi fu sindaco dal 1870 al 1881; Iginio per il 1902; Riccardo dal 1914 al 1920; Eduardo dal 1930 al 1938; Michele - erede della farmacia -dal 1958 al 1960.

    La famiglia Romania operò attraverso questi sindaci: Michele dal 1884 al 1885 e dal 1889 al 1902; Luigi dal 1903 al 1906; dal 1907 al 1914; Antonio dal 1920 al 1927 e, come podestà, dal 28.8.1928 all’ 11.3.1930; Lionello dal 1973 al 1978.

    Franco Navarra Viggiani fece il sindaco solo dal 1927 al 1928; Luigi Ventre dal 1938 al 1943.

    Per dare corpo a queste scheletriche date, dedotte dai volumi di L. Ventre e I. De Blasiis, occorrerà altro lavoro archivistico, sarà necessario collegare questi nudi profili con la complessa trama sociale ed economica della comunità nonché con le ideologie, i gruppi di pressione ed infine i partiti di massa. Allo stato delle nostre conoscenze si possono delineare alcune riflessioni e linee di tendenza.

    La struttura urbanistica di Marsico venne modificata dalla borghesia liberale, moderata e conservatrice ma anche capace di incidere sull’assetto del centro del paese.

    L’urbanistica feudale rispecchiava il prevalere dei due centri di potere, le strutture della Chiesa ed il feudatario. Nelle tre colline, si veda la stampa del Pacichelli, compaiono le molte chiese, i conventi, il vecchio castello Sanseverino (che potrebbe ricostruirsi a scopo turistico), il palazzo Pignatelli a s. Spirito, alcune case palazziate dei magnifici e dei civili, circondate dalle povere stanze ammucchiate a schiera ( anche contro il vento) degli inferiori.

    Il De Blasiis ( edito nel 1987) metteva bene in risalto l’azione di rinnovamento borghese del patrimonio edilizio, che si concretò nel decennio 1870- 1880, quando era sindaco Enrico Achille Rossi e che durò fino alla ricostruzione post-sisma del 1990.

    Il Rossi trasformò il centro e la piazza. Al Casale, nell’ex-Convento, allocò le scuole tecniche con convitto ( ma funzionarono fino al 1885) ed intitolò l’insieme del complesso Palazzo Alessandro Manzoni, evidenziando una scelta culturale, omaggiando il grande Lombardo comparso e valorizzando l’istruzione come strumento del progresso liberale.

    Ampliò l’intera strada ( la vianova) che dal Casale prosegue per corso Vitt. Emanuele e viale R. Margherita. Per risistemare e risanare la Piazza, operò abbattendo una serie di casette monopiano che affollavano dal XV secolo la Piazza: rase al suolo le taverne delle Monache ( possedute dalle Benedettine ad affittate con buon lucro); eliminò la cappella dei Morti ( o di s. Cristoforo, essendo cessata anche l’attività della Confraternita, di cui è dato lo statuto in Colangelo, doc.7) - sita in un angolo della piazza, sotto la casa dei Ventre -; fece approntare una serie di disegni per le facciate dei palazzi che finirono per dare il tono alla Piazza ( poi dedicata al re Umberto I) : i palazzi di Emilio Votta, Antonio Sarli, Michele Ventre e Giuseppe Montesano.

    Enrico A. Rossi fece abbattere anche la chiesetta di s. Antonio di Vienna ( che il popolo chiamava, alla francese, s. Antuono), situata a sinistra dell’ingresso di casa Cicchetti.

    Fece abbattere anche l’arco medievale connesso con la casa Piscopia ( ignorandone il valore storico). Se il lettore vorrà riflettere su questa trasformazione urbanistica, anche alla luce dell’attuale ricostruzione dei complessi edilizi siti in Piazza, completati sotto il sindaco socialista Domenico Vita nel 1991, con pavimentazione ancora ritoccata, dovrà avere la pazienza di confrontare le antiche stampe settecentesche con i disegni ottocenteschi e le fotografie del primo Novecento, ottenendo la modificazione borghese, liberale e democratica, del medievale impianto urbano, segnato dalla presenza della cattedra vescovile più che dal ceto feudale e sue emanazioni.

    Lo stesso Palazzo Pignatelli, costituito da più unità, ha una sua complessa vicenda: edificato fra il 1640 ed il 1678, rovinò nella parte superiore a causa del sisma del 1857; venduto alla famiglia Masci di Avigliano, fu riacquistato dal sindaco Michele Romania per 11.000 lire e venne restaurato dal figlio Luigi; reso pericolante dal sisma del 1980, è stato compiutamente ricostruito, su progetto dell’ing. Ettore Votta, ed è sede degli uffici comunali dal 1992.

    Storia ancora più complessa hanno la cattedrale ed il succorpo, fortificazione altomedievale; i palazzi Navarra, Capano-Tafuri-Santalucia, Barrese- Dattoli-Boccia ed altre pietre erette fra cui camminiamo, ombre dimentiche ed accecate dalla vivida luce del presente.

    L’azione politica, concentrata nella lotta fra personaggi e gruppi di ristretta capacità elettorale, vide rivale E. A. Rossi contro Lovito, che, dopo una causa ( che andrebbe ricostruita e pubblicata), riuscì ad ottenere un’ampia fetta del territorio marsicano, fra Paterno e Ponticello, coltivata per secoli dai Tramutolesi con fitto di bonatenenza, per il comune di Tramutola, ristretto territorialmente e , proprio per questo, costituito da famiglie dedite al commercio ed alle fiere.

    Appartenuto alla Badia di Cava, Tramutola coltivava la zona del Tassito e di Ponticello, area che venne venduta dall’Università di Marsico con una manovra di bilancio tesa a rimpinguare le proprie entrate nel 1627, in piena crisi secentesca. Aree vendute ai Di Muria ( imparentati con la ricca famiglia marsicovetrese dei Brussone) , come può ricavarsi al mio saggio sugli statuti della bagliva. Ma la questione della legittimità della vendita, per il cavillo della mancanza dell’assenso regio alla vendita, aveva creato una lite che si trascinò fino a fine Ottocento.

    Al sindaco Michele Masini si deve la fondazione della nostra prima Società Operaia di Mutuo Soccorso che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto aprire la strada alla partecipazione politica delle classi lavoratrici, promovendone garanzie economiche e forme di assistenza reciproca, in assenza d’ogni solidarietà dello Stato liberale, tanto più che nel paese era venuta a mancare la solerte opera sociale svolta dalla Chiesa fino all’Unità, finché la parrocchia mantenne proprietà e funzioni economico-sociali. Esemplare, per comprendere il vuoto prodottosi dopo il 1860, è la vicenda della più popolosa parrocchia di s. Caterina che scomparve con la caduta della chiesa nel sisma del 1857. Il lettore di I. De Blasiis (1987, p.68-69) sa che questi non offre un giudizio positivo sull’operato di questa Società solidaristica ma noi non possiamo accettare una valutazione che rivela il conservatorismo politico del De Blasiis ed anche su tale punto occorrerà apportare nuova luce storiografica. Concordo con Nino Calice (1974) quando ricorda che la situazione delle società di Mutuo soccorso in Basilicata è ben più articolata e che non si può neppure accettare e tenere per vera l’altra interpretazione, quella rabbiosa liquidazione del socialista Ettore Ciccotti, per cui le associazioni sono nelle mani di qualche arruffone o di qualche astuto e sono servite come mezzo inconsapevole di pomposi armeggi e di vane schermaglie; esse comprendono precisamente la bassa borghesia; sono insieme alla banca, alla esattoria, ai Comuni, ai rappresentanti politici un altro strumento nelle mani di una o più famiglie, che esercitano il loro imperio assoluto nei nostri comunelli ( la citazione è tratta da E. Ciccotti, Scritti e discorsi, Bari,1970.p.102).

    Vorremmo saperne di più sulla breve vita di questa Società mutualistica, simile a quella di Viggiano. Leggendo lo Statuto della filarmonica operaia , Calice sottolineava la fedeltà istituzionale e sociale di queste prime Società, il cui modello di comportamento era rigido, rivolto all’imitazione delle classi alte, al decoro dei galantuomini, per cui in esse era proibito bere vino, giocare d’azzardo ed avere un comportamento scostumato. Il fatto che in queste società si avessero molti soci onorari, scelti fra i proprietari terrieri, i professionisti e gli impiegati, soci che pagavano la quota ma non usufruivano dei servizi sociali, rivela come queste società fossero controllate socialmente dalla compiaciuta beneficenza dei borghesi e che pertanto nella loro natura apparivano prioritari gli scopi educativi ed assistenziali. Calice ricorda anche che queste società erano normalmente controllate da maestri elementari, impiegati comunali, artigiani declassati, che nelle organizzazioni mutualistiche e attraverso la loro forza cercano di ritagliarsi uno spazio di potere nel chiuso dominio dei galantuomini ( 1974, p.23) L’insieme della società lucana era ancora avviluppato in una economia rurale precapitalistica", dove operava il dominio della rendita fondiaria, dell’usura e le masse vivevano in una precarietà generale di esistenza, ai limiti della sussistenza, condizione da cui si affrancheranno con la grande emigrazione nelle Americhe.

    Dietro i ristretti gruppi politici liberali e al di là delle consorterie, più o meno familiari, in queste società operaie avvertiamo le richieste di salari più alti, la spinta contadina verso la modifica dei patti agrari, un tumultuante mondo bracciantile che ancora non possiede né espressione politica né voto né organizzazione. E’ questo mondo, demograficamente in crescita, le cui istanze erano state represse violentemente nel periodo della lotta al brigantaggio e nella sconfitta del movimento democratico mazziniano ed anarchico, che si preparava ad abbandonare il paese con la silenziosa fuga ( o mobilità) dell’emigrazione transoceanica.

    Più di un accenno meriterebbe la storia sociale della medicina e delle condizioni igienico-sanitarie, le cui carenze affioravano ciclicamente, come nell’epidemia del colera del 1887.

    L’avvocato Luigi Romania operò da sindaco per risistemare il cimitero, avviò la costruzione dell’Acquedotto comunale ed impiantò le prime scuole rurali nelle frazioni di Camporeale, Galaino e Pergola ( il suo sindacato e la sua figura trovano un giudizio pienamente positivo in I. De Blasiis).

    L’intero periodo giolittiano trova operoso L. Romania ed un’analisi archivistica potrà fornire nuova luce su questo decennio in cui si elabora il primo catasto particellare (l’analisi dell’evoluzione della proprietà dovrà basarsi sul confronto fra il catasto conciario del 1736 e 1768, il catasto murattiano- borbonico del 1817 e questo più recente catasto geometrico).

    Sul finire del secolo troviamo i primi nuclei socialisti, espressi dalla borghesia delle professioni liberali ( medicina ed avvocatura) , probabilmente segnati dalla cultura positivistica, anticlericale ed umanitaria, tuttavia più vicini ad Edmondo De Amicis che non a F. Turati o a K. Marx.

    Quanto a struttura sociale , la nostra non è caratterizzata né dal latifondo né dalla grande affittanza né dal grande allevamento transumante. Non siamo stati neppure una grande zona malarica. E tuttavia, in piccolo, ritroviamo le linee di quelle forme di conduzione agraria e sociale. Marsiconuovo va collocata nell’area della piccola e media proprietà; predominava la cerealicoltura; si aveva una eccellente produzione di fagioli, un vino buono ma debole e leggero.

    Patate in inverno con peperoni arrostiti e granoturco in estate erano quantitativamente presenti nelle diete. Limitata all’autoconsumo la produzione di olio, frutta ( mele, pere, castagne, noci, fichi, ciliegie); scarse le verdure, che ci giungevano dal vallo di Diano o dal senisese. Galline, conigli, selvaggina e maiale erano la carne, con pochi animali vaccini ( che, solo se morti in incidenti o per malattie, venivano venduti a basso macello, a prezzo più basso). Presente il latte ed i formaggi, fra cui spiccava il pecorino. Non affittanza capitalistica né aziende razionali ma coltivazione diretta con piccoli affitti e prestazioni di lavoro occasionali, utili all’integrazione della bassa economia familiare. La legna veniva recuperata dai larghi boschi di faggio e di querce e dai demani comunali ( specie con la raccolta dei rami caduti, delle frascedde). Il vestiario di lana veniva prodotto localmente e risultava alquanto grossolano; un vestiario più raffinato si acquistava nelle fiere.

    Quando, nel 1904, Zanardelli visitò la Basilicata, la situazione socio-economica di Marsico risultava grave e pesante per tutti: i borghesi e i proprietari avevano esaurito ogni capitale, che avevano investito nell’acquisto dei beni terrieri, non avevano denaro per investimento, per far fruttare intensivamente la proprietà, che continuava a restare estensiva ed abbandonata nelle zone montane; i prezzi agricoli erano bassi, forte la concorrenza straniera; l’emigrazione aveva degradato il tessuto sociale e fatto lievitare i salari; le tasse continuavano ad essere troppo pesanti rispetto alla produzione reale del reddito. L’ insieme di queste povertà e tensioni sociali si ritrova nei saggi penetranti del nostro grande intellettuale dell’età positivistica, Michele G. Pasquarelli, alle cui opere rinviamo per un’analisi del quotidiano oltre che delle forme della mentalità collettiva ( sono disponibili due edizioni, quella antologica, curata da me per Lacaita di Manduria nel 1983 e quella, completa ed illustrata, di G. B. Bronzini, edita da Congedo, nel 1988).

    Nel decennio giolittiano, i gruppi radicali e socialisti avanzarono, mentre i liberali evidenziarono le prime incapacità politiche e l’avvio del declino. I primi reclamavano un deciso intervento dello Stato, crediti agevolati, riduzione delle tasse. Erano per una soluzione eterodiretta della questione meridionale successivamente, solo con F. S. Nitti, si propose la tesi dello uno sviluppo autonomo, endogeno del Sud, fondato su forme trainanti di industrializzazione.

    I galantuomini e i liberali non volevano accettare né comprendere che sarebbe stata necessaria una decisa modificazione dei rapporti sociali e del potere nella collettività, un’apertura in senso democratico della vita comunitaria e della distribuzione della ricchezza.

    La legge speciale per la Basilicata del 1904 promosse una politica di lavori pubblici, concreta nell’esecuzione di strade, gallerie, ferrovie. Si muovevano le prime cattedre ambulanti d’agricoltura. Mancava un sistema bancario e creditizio; l’analfabetismo attanagliava ancora il 79% della popolazione. La borghesia marsicana appariva vittima della propria gestione della proprietà terriera e non sembrava capace di promuovere alcun progresso sociale mentre temeva ed ostacolava lo sviluppo dal basso della democrazia e del socialismo ( presenti in Val d’Agri , prima a Brienza ed a Viggiano, dove esce il giornale Il Ribelle ed opera una cooperativa diretta da Pisani, poi con circoli a Montemurro e Saponara).

    Nuove posizioni politiche, dopo la revoca del non- expedit, assunse il clero lucano.

    Era scomparso quel clero ricettizio e pletorico che trovavamo nella struttura sociale feudale, clero che aveva consentito alle famiglie borghesi di nascondere al fisco i propri beni e di ottenere buoni terreni in fitto per i propri familiari o prestiti in denaro a basso interesse. Clero e parrocchia, dopo l’incameramento e l’emigrazione, non solo erano drasticamente diminuiti ma avevano assunto un nuovo ruolo spirituale e sociale, spesso in ritirata o in contrapposizione al mondo liberale e capitalistico. Ignazio Monterisi, vescovo di Potenza e Marsico, dal 1900 al 1913, costruì una prima organizzazione sociale cattolica, che consolidò servendosi anche del quindicinale La Provincia, verificò e vivificò la vita cristiana nelle parrocchie , curò l’insegnamento della dottrina cristiana, mirò a privilegiare le esperienze agrarie più avanzate. Nel 1909 il clero potentino venne spinto a votare a favore di Francesco Dagosto, il candidato conservatore, uomo d’ordine e cattolico, che aveva ereditato ed accettato le posizioni conservatrici di Pasquale Grippo.

    Il clero mostrò chiara ostilità e competizione verso i socialisti ed i radicali. Nelle elezioni politiche del 1913, le prime a suffragio universale maschile, i cattolici seguirono le intese del Patto Gentiloni, alleandosi con i liberali- borghesi. Nel collegio di Brienza, in cui rientrava Marsico, il candidato conservatore, sostenuto dal clero, fu l’avvocato F. Dagosto, mentre il candidato dei democratici radicali e dei riformisti fu il prof. Francesco Perrone.

    Il programma di Perrone ( e N. Salomone, N. De Ruggieri, D. Severini , R. Pignatari e V. Reale) era incentrato sullo sviluppo della produzione, sull’aggressione al latifondo ed ai proprietari assenteisti, sulla costituzione di un blocco sociale progressivo, sul superamento della semplice cerealicoltura, sull’introduzione delle nuove tecniche agrarie ed associative, sull’elevamento dei salari, che avrebbe consentito alla plebe contadina di diventare popolo civile in grado di garantire e promuovere la democrazia. Questo programma perroniano venne accettato e sostenuto da M. G. Pasquarelli che, nelle comunali del 1914, venne eletto sindaco e rimase in carica per un anno. Le elezioni del 1913 segnarono un discreto successo per il gruppo radicale e riformista, infatti a Corleto venne eletto Salomone, a Matera De Ruggieri, a Muro F.S. Nitti, ed a Brienza F. Perrone.

    Perrone sconfisse Dagosto, l’uomo d’ordine sostenuto anche dalla curia. Mettendosi al lavoro, Perrone promosse l’apertura della Scuola Agraria in Marsico, a s. Maria ed altre scuole tecnico- industriali riuscì ad istituire a Lauria, Moliterno, Melfi e S. Chirico, convinto, da buon evoluzionista, che l’aumento individuale della produttività e l’elevamento culturale del lavoratore avrebbero avviato una soluzione autopropulsiva della nostra economia. Fu Perrone che avviò le ricerche petrolifere a Tramutola, ritenendo che la creazione di

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