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Post Scriptum. Memorie. O quasi
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E-book487 pagine6 ore

Post Scriptum. Memorie. O quasi

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Info su questo ebook

Julia Dobrovolskaja ha vissuto una lunghissima vita. Traduttrice in russo dei maggiori scrittori italiani (Sciascia e Moravia, tra i tanti), amica di Paolo Grassi, Guttuso e Rodari, una volta in Italia ha tradotto e insegnato a tradurre, ha scritto dizionari e manuali, allevando più di una generazione di traduttori. In questo volume il lettore troverà le sue memorie. Pagine che partono dall'infanzia e percorrono i decenni di una vita intensa, avventurosa, ricca di incontri e di colpi di scena. Pagine che lo porteranno nella Russia sovietica e nelle sue contraddizioni, nella Spagna delle Brigate internazionali, e di nuovo in URSS, in un quotidiano sdoppiato, ma che mai voleva cedere all menzogna. Ha scritto Sebastiano Grasso sul Corriere della sera: "Una lunga vita in un «volume di dimensioni modeste» di una persona che si autodefinisce «poco seria, nel senso che non mi prendo mai sul serio». In Post scriptum. Memorie o quasi, l’autrice racconta la storia della sua vita: gli anni della scuola e la vincita di un concorso sulla poesia di Majakovskij; i giochi col fratellino Lev, ucciso a 21 anni al fronte nel 1945; l’appartenenza al «Gruppo dei cinque»; la laurea di lingue; i viaggi in Spagna come interprete; il lavoro alla TASS per leggere i giornali spagnoli, inglesi, tedeschi, italiani e francesi e aggiornare gli schedari; la condanna del Tribunale speciale «per chi era in grado di potere commettere un delitto» (in pratica chi andava all’estero) con conseguente carcerazione, nel ’44, alla Lubjanka, poi in campo di lavoro correzionale, nel lager di Chovrino; l’insegnamento di italiano all’Istituto universitario di lingue straniere; la riabilitazione nel ’55 e la conseguente reintegrazione. E ancora: le prese di posizione a favore di Anna Achmatova e la perdita del posto di lavoro; le traduzioni in russo di Sciascia, Moravia, Rodari e altri ancora; il lavoro come interprete e accompagnatrice, fra gli altri, della Callas, di Guttuso, Abbado, Grassi; il progressivo abbandono del comunismo, dopo Budapest e Praga; l’espatrio a Milano nel novembre del 1982 e l’inizio di una nuova vita…"
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2015
ISBN9788891182487
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    Anteprima del libro

    Post Scriptum. Memorie. O quasi - Julia Dobrovolskaja

    1925.

    1. Inizio dal principio, com’è giusto che sia

    Sono nata sul Volga, a Nižnij Novgorod, il 25 agosto del 1917, tra la rivoluzione borghese di Febbraio e la cosiddetta proletaria di Ottobre. Non saprei dire quale, ma un qualche significato recondito in quel tra ci dev'essere.

    Mio padre, Abram Bencianovič Bril', era il primogenito di un falegname di Vitebsk, amava gli alberi (come li amo anch'io) e in casa c'era sempre odore di trucioli. Sin dal ginnasio sognava di frequentare l'Istituto universitario di selvicoltura, mise da parte i soldi dando ripetizioni e la spuntò: preparatissimo, partì per Pietroburgo e si iscrisse al prestigioso Istituto che sfornava studiosi di boschi e foreste, riuscendo a entrare nella quota riservata agli studenti ebrei. Per mantenersi agli studi passava le vacanze estive nelle tenute di quegli scansafatiche dei suoi compagni di corso, preparandoli agli esami. Ricordo che ci raccontava di un ricco possidente, papà di uno di loro, a cui piacevano i cetrioli con il miele. E anche di come si era rovinato gli occhi a furia di studiare di notte, alla luce di una lampada a petrolio. Dovette mettersi presto gli occhiali.

    Mio padre era un uomo di poche parole, una persona buona e mite che visse una vita non troppo felice e morì a 58 anni; lui e mia madre sopravvissero all'inverno atroce dell'assedio di Leningrado, ma il cuore di papà ne uscì compromesso.

    Terminata l'università, nel 1916 lo mandarono nel governatorato di Nižnij Novgorod a occuparsi di mezzo migliaio di chilometri quadrati di foreste. Dunque sposò la mia futura mamma, diciottenne, e la portò tra quei boschi dove gli spettavano una casa, un mezzo di trasporto (cavallo e biroccio) e un attendente. Il suo sogno si era realizzato.

    Mia madre - Vera Solomonovna Zauber - aveva un diploma da esterna al ginnasio di Gomel' (prima di trasferirsi a Nižnij Novgorod gli Zauber vivevano in campagna) e sognava anche lei di laurearsi. Dunque si mise a studiare e delegò a Prokopij, l'attendente, le faccende di casa. L'anno seguente gli affibbiò anche la sottoscritta, appena nata.

    Come possa essersi preso cura di una bimba in fasce quel campagnolo spilungone, quarantenne e scapolo, resta un mistero.

    Il mio primo ricordo. Sono seduta in mezzo alle piantine di fragola (avrò avuto un anno, forse persino meno) e non riesco ad afferrarne una bella matura: non coordino ancora i movimenti. Da dietro un albero, intanto, la mamma mi osserva.

    E il secondo: me ne sto sola soletta in cortile quando una capra mi carica. Io la afferro per le corna con tutta la forza che ho in corpo, e lei corre in tondo cercando di disarcionarmi. Sono talmente spaventata che non riesco nemmeno a piangere. Scoppio in singhiozzi solo quando mi ritrovo fra le braccia di Prokopij.

    Ero ancora troppo piccola per comprendere i dissidi tra i miei genitori. Ma come poteva essere altrimenti? Come poteva avere voglia di seppellirsi fra i boschi una diciannovenne, mia madre, dalle pressanti esigenze interiori (così si diceva allora)?

    Finì che ci trasferimmo in città, a Nižnij Novgorod: mio padre disse addio al sogno di una vita e andò a lavorare per il Sovnarchoz, il Consiglio economico nazionale. Negli anni Trenta, poi, passò a dirigere il settore programmazione di una grande cartiera di Lenin-grado. Era un gran lavoratore, non chiedeva mai nulla, nulla pretendeva né reclamava. E a mia madre questo dava sui nervi. Io ho preso da lui.

    Con la sua laurea in lingua inglese, mia madre venne mandata a Sormovo, un paese nei dintorni di quella Nižnij Novgorod che nel 1932 avrebbe cambiato il suo nome in Gor’kij. Lo scrittore era rientrato in patria dall’Italia e Stalin - felice come un pasqua di averlo irretito - dispose subito di battezzare con il suo nome ogni sorta di cose: città, fabbriche, teatri, scuole, vie, biblioteche. A Gor’kij, per esempio, era intitolata la cartiera di mio padre, io frequentavo la biblioteca Gor’kij e il teatro Gor’kij e in via Gor’kij ho anche abitato.

    Poi mia madre venne trasferita in una fabbrica di automobili impiantata dagli americani, a lavorare come interprete per l’ingegner Layman. Mister Layman lasciò a mia madre uno splendido inglese e alla famiglia riunita un bellissimo baule che portammo a Leningrado nell’appartamento in coabitazione – la kommunalka.

    A Nižnij Novgorod a mio padre spettò una casa in vicolo Plotničij (vicolo dei Falegnami); era talmente spaziosa che io e le due figlie del portinaio tartaro ci giocavamo a nascondino. Mia madre non gradiva quella mia compagnia poco prestigiosa, ed era oltremodo disturbata dal fatto che mi venisse appetito solo quando mi invitavano in portineria a mangiare patate fritte in un fetido olio di girasole (ero una di quelle bambine odiose che vanno rimpinzate a forza). La scuola e la sezione dei pionieri, una sorta di balilla sovietici, si trovavano sulla stessa strada della clinica dov’ero venuta alla luce – la Pokrovka, la via principale di Nižnij Novgorod. D’estate c’era il campeggio dei pionieri, dove si andava da soli, senza adulti (anche io a undici anni fui eletta guida: quanta fiducia!). Forse avevano capito che i ragazzi si divertono di più e stanno molto meglio da soli. E che così facendo diventano più indipendenti e più responsabili. O forse era solo il riverbero di certe teorie pedagogiche che avevano fatto scalpore in Occidente e che alla prova dei fatti non si sono rivelate granché.

    Il piano Dalton, per esempio, fu la prima causa di autentici disastri.

    Funzionava così: la classe veniva divisa in squadre; in ogni squadra c’era chi studiava la matematica, chi la chimica , chi la geografia e via discorrendo. La mia materia erano le lettere, dunque le interrogazioni di russo e di letteratura erano affar mio. La conseguenza fu che con le scienze esatte ero – e sono – in pessimi rapporti, mentre agli altri componenti del mio gruppo faceva difetto la grammatica.

    Ai campeggi dei pionieri la sera, attorno al fuoco acceso in una radura del bosco, cuocevamo le patate e cantavamo a squarciagola:

    Che delizia le patate – ate – ate – ate, l'ideale dei pionier! Mai le dita si è leccate – ate – ate – ate chi patate mai mangiò.

    Quello era lo spirito dei tempi.

    Tracorremmo il mio sesto (sesto!) compleanno in dacia, a Velikij Vrag e mio padre mi regalò una canoa a un remo scavata in un tronco d’albero. Mi portò sul fiume con un’amichetta della mia stessa età e ci disse severo:

    – Con questa si va solo lungo la riva, non oltre. Mai!

    Non appena si fu allontanato, io e la mia amica salpammo per dondolarci in mezzo al Volga: stava passando un piroscafo che si lasciava dietro delle belle onde alte. Com’è ovvio la barchetta si rovesciò all'istante, spaventandoci a morte. Non che temessimo di affogare, no. Temevamo di non riuscire a riportare a riva la barca e di non recuperare il remo che la corrente stava trascinando via. Invece la barchetta venne tirata in secco e il remo recuperato.

    La scuola – insieme a tutto ciò che ci circondava – si prefiggeva di fare di noi dei "man-kurt"¹. Ricordo perfettamente una fiaccolata in prima elementare: sfilammo accanto a una chiesa in cui si stava celebrando la messa di Pasqua e a un preciso ordine urlammo con quanto fiato avevamo in corpo: Dio non c’è!. Durante un’intervista per il Gazzettino di Venezia, alla domanda se fossi credente citai questo aneddoto e borbottai: C’è da stupirsi che io rispetti i dieci comandamenti….

    E poi c’era la musica. La sorella minore di mia madre, Asja, studiava al conservatorio. Non ricordo se si sia mai diplomata; di certo a un certo punto della sua vita appese il pianoforte al chiodo e divenne medico. Trovò comunque il tempo di accompagnarmi – piccolissima – dal direttore. Levinson (accidenti, non mi sarei mai aspettata di avere tanta memoria per i nomi!) saltò subito su – avevo l’orecchio assoluto! – mi caricò in spalla e mi portò in giro per le classi (davano tutte su un corridoio ampio e luminoso) a mostrare quel portento ai suoi colleghi.

    Per anni ho studiato musica di malavoglia; ma forse la responsabilità è dell’insegnante. Ormai sedicenne, invece, a Leningrado andavo di mia iniziativa fino a casa del diavolo per prendere lezioni private.

    Non so come funzioni l’orecchio assoluto, ma ancora oggi sento la necessità costante di ricaricare la mia dinamo interiore con un po' di buona musica.

    Già che stiamo parlando di musica… Dopo le scale, i solfeggi, la ritmica e altre amenità, lungo la via di casa i futuri Mozart si sedevano sulle loro cartellette nere con i ritratti in bassorilievo di Schubert o Beethoven e si lanciavano giù da una qualunque altura coperta di neve, intersecando come forsennati le rotaie che le giravano attorno, tra gli scampanellii isterici dei tram in arrivo.

    A scuola tutti dovevamo svolgere un qualche lavoro sociale, ognuno aveva il suo incarico. C’era, per esempio, da far uscire il giornale murale, il tadzebao, in cui festeggiare le date storiche della rivoluzione o mettere alla gogna gli assenteisti.

    Venivamo educati allo spirito internazionalista – di lì a poco sarebbe scoppiata la rivoluzione mondiale, no? – e non per nulla con suo padre, un comunista americano, a Nižnij Novgorod era arrivata anche una vittima del capitale: Harry Eisman, pioniere statunitense. Giovane rifugiato politico, Harry venne invitato da noi, a scuola, a tenerci un discorso in cui sbugiardava gli sfruttatori borghesi, e anch’io scrissi una poesia (pessima) sull’argomento.

    Il mondo è piccolo, si sa. Anni dopo, a Mosca, finii per caso a una serata a cui Harry Eisman, reduce del Gulag, era stato chiamato a intervenire quale partigiano della pace.

    La prima nota stonata della mia fulgida infanzia sovietica risuonò durante il nostro trasferimento a Leningrado. A a metà strada, a Ivanovo-Voznesensk, ci fecero scendere dal treno insieme ad altre famiglie che si trasferivano altrove portandosi dietro tutti i loro averi. Gli uomini dell’NKVD trattennero il convoglio per qualche ora, fino a che non fummo tutti perquisiti in cerca di preziosi: lo Stato aveva un bisogno impellente di oro. Ci perquisivano nel solo modo che conoscevano: da carcerieri. Con cura particolare – ginecologica, direi – le donne. Ma non trovarono niente da espropriare.

    Una volta a Leningrado mia madre portò al Torgsin² le riserve auree di famiglia (un anello d’oro della nonna) per comprare alla figlia ormai signorina un golfino azzurro – lana purissima! – di fattura estera e celestiale bellezza. Molti anni dopo, al MGIMO – l’Istituto universitario per le relazioni internazionali – un collega che non avevo riconosciuto mi fermò per chiedermi se ero quella stessa Julia Bril’ con il maglioncino azzurro che lo aveva fatto sospirare alle serate danzanti dell’università.

    Evidentemente non ebbi altro da mettere per diversi anni.

    In un modo o nell’altro lo choc di Ivanovo-Voznesensk venne superato. Me presente, gli adulti non fecero mai menzione dell’accaduto. Chissà, forse in era sovietica sarebbe stato meglio non avere figli, così da evitare il solito dilemma: parlare apertamente in loro presenza condannandoli a uno sdoppiamento della personalità (solo a parenti e amici si potevano dire determinate cose, agli altri si riservava qualche commento di circostanza) oppure tacere. I miei genitori ebbero pietà di me (e di se stessi) e scelsero la seconda opzione.

    C’era uno zio che io, pioniera, detestavo: era lo zio Malev, che diceva peste e corna del regime. Aveva sposato Lena, un’altra sorella di mia madre a cui devo il colore dei capelli e la voce. Solo molto tempo dopo, quando mi chiarii alcune cosette, capii e apprezzai l’intelligenza e la perspicacia dello zio. Era un geniaccio che riusciva a moltiplicare a mente anche numeri di tre cifre, ma i due arresti che subì lo prostrarono e gli istillarono una paura tremenda verso tutto e tutti.

    Leningrado, dunque. La scuola all’angolo tra il Bol’šoj e il Kamennoostrovskij.

    I primi appuntamenti romantici sotto l’orologio.

    Gli anni della Gioventù comunista, da komsomolka (o komsomol’ska, come scrive il mio biografo, Marcello Venturi). La gioia di vivere, ovvia per un’adolescente, a cui si aggiungeva l’ottimismo d’obbligo per i sovietici, che secondo Stalin ormai vivevano benissimo, in allegria. Ricordo che mi piazzavano al pianoforte sgangherato della palestra, si mettevano tutti intorno a me e attaccavano in coro, baldanzosi:

    Le ragazze del gruppo son tante,

    Come mai di una sola è il tuo cuor?

    Esser puoi un comunista perfetto

    E in primavera la luna mirar.

    Mirare la luna, e perché?

    Già, perché, come mai, dimmi tu?

    Perché ora da noi

    Tutti giovani siaam

    E il nostro giovin paese amiaaam.

    O qualche altra scemenza del genere.

    È strano che non mi rendessi veramente conto di quanto le parole di quella canzone fossero insulse, brutte e, soprattutto, false. Fatto sta che nel 1944, in cella, la mia compagna di carcere Nina Ermakova si prese dieci giorni di isolamento per avere intonato un altro brano della stessa opera, vale a dire:

    Grande è il mio paese natìo,

    colmo di boschi, prati e rivi,

    non v’è al mondo un paese come il mio

    ove l’uomo tanto libero respiri.

    Per fortuna mi capitò una brava insegnante di letteratura. Fu una voce sommessa ma viva, genuina. Impara a pensare con la tua testa! – insisteva Varvara Ivanovna Bachilina. Ciò nonostante il tema su Majakovskij con cui vinsi un premio al concorso indetto dall’Assessorato alla Pubblica istruzione non commentava lo splendido poeta lirico, ma il poeta della rivoluzione. Del resto, in quegli anni i giovani andavano pazzi per il roboante vate iconoclasta che si struggeva d’amore per Lilja Brik dalla fulva chioma. La conseguenza fu che cominciarono a chiamarmi la nostra Lilja Brik, senza – del resto – che la cosa mi disturbasse, tutt’altro! Potevo pensare, allora, che la vita mi avrebbe fatto incontrare la vera Lilja Brik a Peredelkino, dove la mia amica Tamara Ivanova, moglie dello scrittore Vsevolod Ivanov e madre del celebre linguista Vjačeslav Ivanov, meglio noto con il soprannome di Koma, aveva ceduto una parte della sua dacia a Lilja e al marito Vasilij Abgarovič Katanjan? Chi avrebbe mai detto che saremmo diventate amiche?…

    All’epoca avevo già un fratellino: Lev, Lëva. I sei anni di differenza si sentivano, e io non facevo nemmeno caso a lui. Che, invece, mi guardava adorante e si vantava della sorella maggiore con gli amici. Crebbe senza che me ne accorgessi, si fece alto e bello e diventò l’astro del circolo filodrammatico della scuola, riscuotendo un particolare successo con I masnadieri di Schiller.

    Con Lilja Brik nella sua daci a Peredelkino, anni '70.

    Poi si iscrisse all’Accademia d’arte drammatica. Il 25 gennaio del 1945, giorno del compleanno di nostra madre, venne ucciso al fronte nei pressi di Königsberg. Aveva ventun anni. Finita la guerra mio padre andò a cercare la sua tomba e me la indicò in una lettera facendo uno schizzo con una croce. Anche io sarei andata a Königsberg, ma avrei trovato solo il campo arato di un kolchoz. Io e Saša Dobrovolskij, mio marito, bussammo a tutte le porte per scoprire dove si trovava la sepoltura di quei tre ragazzi, tre tenenti, ma nessuno seppe o volle dircelo.

    Rividi Lëva un’ultima volta quando mi scrisse dopo esser stato ferito e Saša riuscì a farlo trasferire in un ospedale militare di Mosca.

    Andavo a trovarlo ogni giorno: su quel viso che si era fatto più affilato c’era il solito sorriso radioso. Mi accoglieva sempre con uno sguardo adorante, mio fratelllo. E pensare che nella vita gli avevo dato così poco…

    Zoppicava ancora quando lo rispedirono al fronte. Di suo mi è rimasta una piccola foto formato tessera; è in divisa, con il berretto a bustina. Nient’altro.

    La sua scuola di Leningrado e l’Accademia teatrale di via Mochovaja organizzarono una mostra di sue fotografie nei diversi ruoli che aveva interpretato.

    ¹ Secondo la leggenda, per poter disporre incondizionatamente del suo popolo, un satrapo d’Oriente schiacciava le teste dei ragazzi in uno stretto copricapo di cuoio, così da farne esseri senza memoria e senza volontà, degli schiavi perfetti, dei "mankurt".

    ² Quelli del Torgsin – Torgovlja s inostrantsami – erano negozi che, negli anni Trenta, vendevano merci agli stranieri in cambio di valuta estera e ai russi in cambio di oro o preziosi.

    2. Mogučaja kučka³: pochi ma buoni

    In nona classe andavo a scuola con Volodja R. Era un tipo sui generis, diverso da tutti gli altri. Un giorno, durante la lezione di agronomia (studiavamo anche agronomia, sì), a una domanda dell’insegnante sulla gramigna Volodja si mise in posa e declamò una poesia di Apuchtin sui fiordalisi. Venne espulso. Il giorno dopo mi aspettò fuori della scuola, sotto l’orologio. E mi svelò un segreto: a casa sua (viveva con la madre dentista in un grande appartamento dove aveva un’intera stanza tutta per sé!) si riuniva regolarmente la Mogučaja kučka, il Gruppo dei cinque. Non i famosi compositori, certo, ma cinque cervelloni delle ultime classi, ognuno con il suo hobby: chi la botanica, chi la fisica, chi la biologia, chi l’astronomia. Volodja era il filosofo del gruppo e leggeva Hegel in tedesco. Ogni partecipante teneva delle relazioni su quanto studiavano, scoprivano, pensavano o inventavano. Volodja mi propose di unirmi a loro. Non c’erano femmine nel gruppo (e molto probabilmente non per caso), ma lui era il capo e sperava di far accettare la mia candidatura. Mi diede una settimana per pensarci.

    Qualcosa scattò dentro di me, e dissi di sì. Per essere ammessi bisognava esporre il proprio credo: chi eri, perché stavi al mondo, che cosa volevi diventare, chi e che cosa apprezzavi e disprezzavi, che cosa rifiutavi e via di questo passo.

    Un atteggiamento tipicamente russo.

    Già Dostoevskij aveva scritto: I ragazzini russi sono sempre in cerca di soluzioni ai massimi problemi esistenziali: come vivere, in che cosa credere, che cosa odiare o adorare. Va da sé che non avessi mai avuto pensieri simili, ergo, prima di esporre il mio credo sulla carta dovetti chiarirlo a me stessa.

    Quanto alla futura professione era presto detto: sarei stata un’umanista. Per quel che concerne la Weltanschauung, dovetti (e fu la prima volta) spremermi le meningi. Non ci dormii la notte, rigirandomi tra le lenzuola in cerca di una risposta; accendevo la lampada, saltavo giù dal letto, scrivevo, cancellavo, buttavo nel cestino e ricominciavo…

    Fui accettata all’unanimità, ma mi restò un dubbio: mi vollero per merito o perché ero raccomandata? Di lì a tre mesi, quando avrei tenuto la mia prima relazione, tutto si sarebbe chiarito, pensai. Ma di che avrei parlato? Decisi che l’argomento sarebbe stato la letteratura occidentale. Presi il manuale per universitari di Pëtr Kogan e cominciai a farmi largo tra l’astrusa terminologia critica, lo sfondo storico (era un manuale basato su teorie classiste) e i capolavori della letteratura mondiale. Sgobbai notte e giorno. Alla fine credetti di aver fatto una buona relazione. Mi aspettavo gli applausi, ma gli altri la presero come una cosa dovuta.

    Solo diversi anni dopo capii come quello sforzo avesse segnato il mio carattere tutto sommato passivo. Non gli sono forse debitrice della cocciutaggine con cui, sola soletta, avrei compilato per sette lunghi anni il mio Grande dizionario Russo-italiano/Italiano-russo?

    Il Gruppo dei cinque morì di morte prematura. Un giorno, il 2 dicembre el 1934, arrivò tutta trafelata Olga Fëdorovna, la responsabile della biblioteca di quartiere che riforniva il gruppo di libri. Quello sgorbietto che sprizzava bontà ci sussurrò: "Ragazzi, la kučka non è mai esistita, non esiste e mai esisterà. Ognuno a casa sua!" e via che andò. Il giorno prima era stato ucciso Kirov, il tritacarne delle repressioni si era messo in moto e tutti – vecchi e giovani – potevano finire tra le sue fauci.

    Volodja dimagrì ulteriormente, cadde in depressione e gli trovarono un inizio di tisi. Quell’inverno la madre lo mandò dalla sua vecchia balia a prendere un po’ di aria buona fuori città. Andai a trovarlo diverse volte. Si consumava sotto i miei occhi. Ci mise meno di un anno a morire.

    Difficile dire se fossi riuscita a dare una forma viva al mio credo.

    Non ho neanche modo di verificarlo: il foglio su cui l’avevo scritto è andato perduto e non ricordo quali parole avessi scelto per esprimere i miei pensieri di acerba sedicenne - che suppongo, comunque, assai elementari. Di una sola cosa sono convinta: le mie Tavole della legge di allora mi venivano da Puškin, Čechov e Tolstoj. In quegli anni i libri erano la cosa più importante della nostra vita, l’antidoto alla menzogna imperante.

    Un esempio. Alla Facoltà di lingue e lettere alla quale mi iscrissi nel 1935 insegnavano ancora corifei del calibro di Žirmunskij, Smirnov, Gukovskij, Ivan Ivanovič Tolstoj, Propp. Poi venne il 1937.

    I ranghi dei professori si fecero via via più radi. Con la stessa regolarità delle lezioni e degli esami, nell’aula magna dell’università si tenevano le accolte del komsomol per espellere i figli dei nemici del popolo. E ogni volta –come già aveva detto Puškin – il popolo taceva. Le votazioni finivano inesorabilmente con l’espulsione.

    Il giorno in cui toccò a un mio amico e compagno di corso, Miron T., mi precipitai sul palco in sua difesa. Era un ragazzo dotato, anche lui diverso dagli altri, anche lui un tipo sui generis. Iscrivendosi all’università aveva taciuto il fatto che il padre era stato fucilato per sabotaggio (della sua innocenza si sarebbe saputo solo anni dopo).

    Miron se la cavò con una severa nota di biasimo. Non saprei dire se lo sconto di pena si dovesse al suo sincero pentimento o alle mie parole infervorate. Fu la prima volta in cui dovetti vincere la paura, e non escludo che il mio fosse puro egoismo: se non fossi inter-venuta, la coscienza non mi avrebbe dato pace.

    Il resoconto sulla concezione del mondo richiestomi dalla kučka non fu vano. La formula-zione di un credo era un primo tentativo di sbarazzarsi della stretta mankurtiana, di far funzionare la testa. Il 25 agosto del 1968 non sarei stata tra i sette che, a detta di Havel, salvarono l’onore della Russia inalberando sulla Piazza Rossa il cartello: Per la vostra e la nostra libertà. Io provavo solo una cocente vergogna per la mia patria sciagurata. La mia strada non ha mai incrociato quella dei dissidenti; forse non ero giunta al loro grado di disperazione, né avevo il loro coraggio. Ero come tutti gli altri attorno a me: di notte ascoltavo Radio Londra, la BBC, leggevo il samizdat e il samizdat e le opere vietate dalla censura che circolavano clandestinamente. Stampata su carta velina, la Cronaca dei fatti correnti ti rivoltava il cuore, e quando presi in mano Arcipelago GULag capii che non avrei mai perdonato quelle atrocità.

    La mia forza era la resistenza passiva; nessuno è mai riuscito a farmi vivere secondo menzogna, a pensare, dire, scrivere o tradurre quel che non volevo. E per quanto possa sembrare un paradosso, io stavo con i donchisciotte, non con i vincitori. E donchisciottesca è anche la professione che mi sono scelta, la traduzione, che è esigente e ingrata. Lontana dai miei amici più cari e dal teatro Taganka, anche in Italia, per mia fortuna, ho trovato una valvola di sfogo: le ventiquattr’ore filate di trasmissioni di Radio radicale, l’organo del piccolo partito omonimo che ha sull’emblema il volto segaligno – tutto naso – di Gandhi, la radio fondata da un gruppo stretto attorno a due persone senza eguali, Marco Pannella ed Emma Bonino. Un grumo di acume, generosità e intelligenza, il lievito della società italiana.

    Di recente, nell’ottobre del 2003, a Milano è accaduto un evento senza precedenti: i tre giorni del convegno I giusti del GULag ideato dallo scrittore Gabriele Nissim, andato a caccia di quei giusti per i quali a Gerusalemme si piantano gli alberi della memoria.

    Il convegno si è tenuto al teatro Franco Parenti, un teatro povero come lo era stato un tempo il mio Taganka. E finalmente l’Italia - che ha quasi sempre ignorato i dissidenti sovietici - ha dato la parola a ospiti come Natal’ja Gorbanevskaja, Elena Bonner-Sacharova, Arina Ginzburg, vedova di Aleksandr, Sergej Kovalëv ed Elena Čukovskaja (nipote di Kornej) in rappresentanza di Solženicyn; e ancora all’associazione Memorial, a Nikita Struve e ad Aleksandr Daniel’, figlio di Julij… Sono intervenuti anche gli indigeni (siamo pochi, qua): Vittorio Strada ha parlato di Vasilij Grossman, Jurij Mal’cev (a suo tempo rinchiuso in un carcere psichiatrico) di Pëtr Grigorenko. E c’era anche l’intrepido Viktor Zaslavskij, ordinario all’università LUISS di Roma.

    Ho partecipato a tutte e tre le giornate. Sempre con un groppo in gola. Era una parte di me, qualcosa che avevo nel sangue e che nei miei vent’anni di Italia risuonava a piena voce per la prima volta. Il pubblico – in prevalenza studenti delle scuole superiori, millecinquecento solo loro, – ha avuto modo di sentire come e di che cosa vivevamo e ha scoperto con profonda emozione cose che a scuola non si studiano o - meglio - che si passano sotto silenzio.

    Incontrare Arina Ginzburg è stata una gioia. Fino a quel momento avevamo avuto un anello di congiunzione invisibile: lo scrittore Lev Razgon. A suo tempo Lev aveva lavorato al Detgiz (le Edizioni di libri per ragazzi) con la madre di lei, e l’aveva convinta a non intralciare il matrimonio della figlia con il dissidente Aleksandr Ginzburg (un matrimonio felice, nonostante le dure prove). Elena Čukovskaja, invece, ha consacrato il secondo giorno a me e a Bianca Balestra, o più precisamente alla presentazione presso l’Università Cattolica (di cui ero allora docente) della versione italiana da noi curata di un libro del nonno Kornej, La traduzione: una grande arte.

    Dopo di che l'allegra compagnia è finita a pranzo da me.

    … Il giorno nel quale fu deciso il destino di Miron conobbi per la prima volta le bassezze di cui può essere capace un essere umano.

    Poco prima del momento fatidico, Miron mi chiamò da un telefono pubblico. Io ero già andata a dormire, ma lui insistette che mi vestissi e uscissi fuori, al gelo. Doveva dirmi una cosa molto importante.

    Fu allora che mi confessò il triste e pericoloso segreto della sua biografia. Dalle sue parole confuse era difficile capire che cosa aveva intenzione di fare: presentarsi al comitato del komsomol per confessare oppure suicidarsi. Quando, il giorno dopo, non venne a lezione e si scoprì che aveva passato la notte fuori del pensionato studentesco, mi preoccupai: cosa gli era successo? Che fare? Decisi di chiedere consiglio all’amica Tanja I., un'intelligente biondina con un bel viso.

    Aspettiamo, sentenziò lei. Si scoprì che Miron era andato fuori città, aveva vagato per tre giorni tra i boschi, zaino in spalla, ed era tornato persuaso della necessità di restare in vita e di pentirsi delle proprie colpe.

    Al dibattito Tanja fu la prima a prendere la parola, sfogando tutta la propria indignazione. Ma che pentimento e pentimento! disse Miron era stato indotto a parlare perché la sera prima si era lasciato sfuggire la verità con una vera komsomoliana (che sarei stata io) e aveva capito che lei avrebbe fatto il suo dovere di giovane comunista (cioè la spia). Non ci vidi più e pronunciai il mio ormai celebre discorso. Tanja si sentì molto a disagio – c’era odore di ostracismo in facoltà – e si trasferì in una qualche università della Siberia. Nessuno ne ha più sentito parlare. Miron si chiuse ancor più in se stesso, continuò a non radersi anche dopo la batosta ricevuta (all’epoca la barba era ritenuta un’aggravante) e, da bravo igienista, si temprava il fisico andando in giro tutto l’anno senza soprabito e senza cappello. Mi faceva pena e gli perdonavo tutte le sue malefatte, anche di avermi reso lo zimbello dell’università staccando la mia fotografia dalla bacheca dei migliori del corso e appendendosela in bella vista sopra il letto al pensionato studentesco. Nonostante la scenata che gli feci, si pavoneggiava con una specie di orologio che al posto del quadrante aveva un’altra mia, piccolissima, foto. Alla fine glielo strappai dal polso, quel suo orologio, e glielo buttai nella Mojka.

    Gli perdonavo tutto. Diventammo amici. Sapendo che presto avrei dovuto sostenere un esame di filosofia e che, invece, me la stavo prendendo comoda a Puškino, in un centro vacanze (non potevo non approfittare di un buono-viaggio in scadenza), benché fosse anche lui sotto esami corse da me per aiutarmi a preparare una materia che conosceva a menadito. Miron era davvero un palmo sopra gli altri, ma ebbe ogni strada preclusa: si laureò, ma finì a insegnare letteratura nella lontana Burjatia. Non rimase a lungo nemmeno là, dato che si prese la briga di smascherare le ruberie del direttore di istituto. Quel paladino della verità e della legalità socialista fu sempre discriminato dalla massa imperante dei rozzi accaparratori. Neanche la burjata con cui si era sposato gli perdonò di non avere riportato dalla guerra qualche valigia di bottino. Mirono tornò con un solo trofeo: la cintura di un soldato tedesco con scritto sulla fibbia: Gott mit uns, Dio è con noi.

    Divorziarono. La seconda moglie fu più umana. Gli diede dei figli, dei bravi ragazzi. Restava il fatto, però, che Miron era relegato in Siberia, per sempre.

    Mi scriveva lunghe lettere con una grafia che pareva fatta di geroglifici.

    Quando veniva a Mosca in cerca di giustizia – non per sé, ma per gli altri –, prima passava alle Izvestija e poi da me. L’ultima volta, prima che lasciassi definitivamente il paese, mi abbracciò e mi disse:

    – Non dimenticare la tua patria, Julia!

    La patria? Ma santo cielo…

    ³ Nella seconda metà dell’Ottocento, a Pietroburgo, cinque promettenti musicisti russi – Balakirev, Cui, Borodin, Musorgskij e Rimskij Korsakov – si riunirono nella cossidetta Mogučaja kučka (Possente gruppetto, abitualmente noto in Italia come Gruppo dei cinque)

    3. La seconda nota stonata

    Superati egregiamente gli esami di ammissione all’università, non trovai il mio nome nella lista degli iscritti, ma tra i candidati. In quel secondo elenco c’erano i neodiplomati, mentre nel primo figuravano persone più mature, ex-operai, lavoratori. Ad ogni modo, poiché tutti erano ammessi a frequentare le lezioni e noi, con i nostri cervelli freschi, ci lasciavamo agilmente alle spalle la classe operaia, nessuno se ne diede gran pena. Fino a che, al termine del primo semestre, i candidati furono tutti espunti.

    Con il cuore spezzato dal dolore e dall’offesa, dopo tre giorni passati sul divano senza mangiare né bere, senza vedere nessuno e senza rispondere alle telefonate, mi presentai in cerca di lavoro in una biblioteca di periferia.

    Mia madre scrisse a Stalin. Ci pensasse lui, il batjuška, il padre buono, a rimediare a quell’ingiustizia scandalosa. Va da sé che non ebbe risposta.

    Dopo un paio di settimane, in biblioteca arrivarono due mie compagne di scuola, Mirra Al’vang e Tanja Speranskaja, che erano state accettate entrambe all’università – una a chimica, l’altra a biologia – e che erano molto dispiaciute per me.

    – È fatta, Julia! – mi disse Tanja gongolando. – Domani andrai a lezione!

    Scoprii così che il padre di Tanja, il celebre fisiologo Aleksej Dmitrievič Speranskij (a capo dell’Istituto di Medicina sperimentale VIEM), aveva telefonato al comitato regionale del partito sistemando ogni cosa.

    Tornare all’università grazie a una raccomandazione fu triste e ingiusto: i miei compagni di sventura persero l’anno.

    Speranskij non era propriamente uno stinco di santo. Nel suo libro di memorie La nuda verità Lev Razgon, suo amico di gioventù, gli rinfaccia una serie di scelte e si prende gioco del fatto che il VIEM fosse stato ideato al solo e unico scopo di garantire al Grande Capo se non l’immortalità, almeno una lunga, lunghissima vita.

    Personalmente, non posso dimenticare che fu Speranskij a tirarmi fuori da un baratro psicologico. Voleva molto bene al nostro quartetto di amiche – Mirra, Tanja, Marina Čumakova e me –; ci aveva sempre tra i piedi nella sua enorme casa principesca, praticamente vuota, con una splendida vista sulla Neva. Ci trovavamo lì: a fare i compiti, a preparare gli esami… Era una casa piena di dolore, quella. La madre di Tanja entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche; la sorella minore, malata di tubercolosi ossea, se non era in casa di cura soggiornava in Crimea. Una volta laureata, Tanja si trasferì a Mosca, sposò il figlio del famoso poeta e traduttore Samuil Maršak e di lì a poco divorziò. Per un qualche strano motivo, presa la laurea in biologia non si dedicò alla scienza ma divenne segretaria di partito del Centro di ricerca a cui era stata destinata. Non c’è da stupirsi che, entrambe nella capitale, non ci vedessimo mai. Ci incontrammo solo ai festeggiamenti per i qua-rant’anni dal diploma, a Leningrado, in quella che era stata la nostra classe.organizzare l’incontro non fu un’impresa facile: eravamo sparsi per il paese, bisognava rintracciare tutti quanti e riallacciare i contatti. Ma ci pensò Mirra, una pierre – si direbbe oggi – come poche. Ci ritrovammo a girare commossi per il corridoio della scuola. Leggevamo nome e cognome di ognuno sulla targhetta che avevamo appesa al collo e ci riconoscevamo a poco a poco, ritrovando nei visi tratti un tempo consueti. Vennero anche due insegnanti, la mia amata Bachilina e la tedesca Frederika Ernestovna Urekki (un applauso alla mia memoria, lettore!).

    Quel che disse Tanja sulla via del ritorno, in taxi, mi suonò proprio male:

    – Che verme antisovietico è quel Rostropovič! Se l’è filata! E s’è portato dietro il prezioso violoncello che gli aveva regalato mio padre!

    Padre e figlia Speranskij suonavano entrambi il violoncello.

    E pensare che era stata una così brava ragazza, la mia amica Tanja Speranskaja! Un’allegrona, una sognatrice, una mente sveglia.

    Ho una foto di noi quattro che, nell’appartamento sul lungofiume della Neva, ci prepariamo a un ballo in maschera al Palazzo di marmo. Speranskij era venuto a sbirciare e aveva riso di gusto vedendo Mirra travestita da coniglio, Tanja da Cavallino gobbo delle fiabe russe, Marina da gatto, e me conciata come Ljubov’ Orlova, la star del cinema, nel film Il circo: parrucca da marchesa, cappello a cilindro, abito nero da cavallerizza con lo strascico e, sopra a tutto quanto, la rete di un’amaca.

    Non era stata Tanja, del resto, a tredici-quattordici anni, a sostenere che dovessimo assolutamente andare a Murmansk a vedere l’aurora boreale? Vivevamo in una delle città più belle del mondo, dove arrivavano da ogni continente per ammirare i capolavori di Rastrelli, Rossi e Quarenghi, per visitare Carskoe Selo e Peterhof, l’Ermitage e il teatro lirico Mariinskij e per lasciarsi incantare dalle notti bianche, ma

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