La segretaria dello "Scrittore"
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Anteprima del libro
La segretaria dello "Scrittore" - Elena Attala-perazzini
Scrittore
1.
New York City, 1998
La giornata era da interpretare di buon auspicio. Un’aria di primo autunno, coda dell’estate torrida, esibiva pois di nuvole timide e sfocate, e un cielo cristallino che i vetri scuri facevano apparire violaceo, anziché azzurro.
Stavo per scendere dalla limousine, quando Agnés afferrò il mio braccio e mi tirò dentro. Ha cambiato idea, pensai, d’altronde non ho un curriculum all’altezza di questo lavoro, non avrei dovuto illudermi.
Aspetta
mi disse.
Senza scelta mi sedetti di nuovo dentro l’autovettura. Agnés era stata in silenzio per tutto il tragitto, come se all’improvviso si fosse pentita di avermi scelta.
Ricordati,
esordì hai il carattere giusto per Lei.
La scrutai mentre continuava a stringermi il braccio. L’autista si girò verso di noi, lo sportello era aperto.
Ascoltami,
sussurrò forandomi gli occhi ce la puoi fare, capito?!
Nemmeno una madre accompagnando la figlia al suo primo giorno di scuola avrebbe dimostrato tanta premura. Ci eravamo conosciute solo due giorni prima e sentii che ero pronta a commuovermi o a scappare. Invece rimasi ferma a guardare le townhouses di quella strada: pulite, perfette, sembravano appena costruite. Cercai di convincermi di quello che Agnés mi aveva appena detto, con la sua stessa veemenza.
Presi la borsa e mi avviai.
Durante la notte non avevo chiuso occhio. Avevo in testa le note dell’Eroica di Beethoven, chissà perché proprio quella sinfonia: maestosa, solenne. Più la scacciavo e più ritornava, evocando a tratti immagini di sciagura, a tratti immagini gioiose. Provavo a sovrastarla canticchiando una Bertè dal ritmo reggae, ma la sinfonia tornava. Ero nervosa ed eccitata: la scrittrice che stavo andando a conoscere era uno dei miei idoli.
Salii le scale, ma prima di suonare il campanello mi guardai di nuovo intorno. Era l’Upper East Side di Manhattan: strade strette e poco trafficate, tutte alberate; aiuole come giardini bonsai su cui spuntavano tulipani e violette, sembrava di trovarsi in un’altra nazione. Uscita di casa mi ero infilata nel solito tunnel, avevo preso un treno che chiamavano subway e in dieci minuti era come se avessi oltrepassato una frontiera, sbucando dall’altra parte del mondo, o perlomeno in una città che non poteva essere la mia New York.
Le strade del Village, dopo pochi mesi, le avevo già sentite mie. Affollate da studenti dai jeans troppo larghi, da negozi costruiti e smontati in giornata, da anfratti dove si vendevano cianfrusaglie, vecchi dischi, libri usati, quelle vie erano costellate di graffiti, di banchetti con donne che imploravano di adottare un gatto, di sostenere gli homeless o di aiutarle a proteggere le foche monache; e più ti avvicinavi all’università e più incontravi ragazzi spiritati pronti a denigrare i tuoi capelli sfibrati per convincerti a cambiare shampoo; e se quello non ti piaceva potevi sempre firmare una petizione contro l’aborto. Insomma la quiete dove la Signora viveva non era la New York che conoscevo. Anche in mezzo ai grattacieli di Midtown, agli uffici impeccabili di Wall Street, ai lussuosi negozi della Quinta Avenue, quella città era disordine, scompiglio, chiasso. Era un palco di inappuntabile imprecisione, di sporcizia; l’unico luogo d’America dove la gente attraversava la strada col semaforo rosso; e, se tu venivi dalla California o dall’Inghilterra, c’era sempre qualcuno pronto a insultarti o a trascinarti con sé, se solo provavi a rispettare i segnali. Insomma, quegli isolati dell’Upper East Side non avevano niente da spartire con l’anima della città che da diversi mesi respiravo, inghiottivo e digerivo.
Ero quasi in cima alla scala. Guardai la via un’ultima volta: asettica, ovattata, talmente silenziosa da sospettare che da un minuto all’altro un detonatore sarebbe esploso. La mia tensione cresceva, paralizzandomi.
Che fai? Non suoni?
Agnés scese dall’auto e mi raggiunse. Suonò lei il campanello.
La Signora aprì, salutò Agnés e non salutò me. Nell’ingresso, una ragazza con gli occhi spauriti stringeva una borsetta. Anche lei salutò Agnés, mentre la Signora scompariva dentro una porta. Dopo qualche minuto entrò un ragazzo dall’aria trasandata. Poi arrivarono altre due giovani eleganti e insignificanti.
Era stata Agnés a convocarci tutti. Quando la Signora cercava un assistente, ci spiegò, voleva vedere almeno quattro persone. Quel pomeriggio eravamo in cinque. Fece a tutti gli auguri di buona fortuna e si defilò.
Entrai per ultima.
Una finestra alta e sottile sulla sinistra, la Signora era seduta a una minuta scrivania adiacente al davanzale, pronta a catturare più luce possibile. Dietro di Lei si stagliavano mensole alte e pesanti, piene di volumi disordinati e oggetti difficili da decifrare, a colpo d’occhio: libri, quaderni, portapenne, calici d’argento, bottigliette, orologi, pezzi di macchine fotografiche.
Lei fissava qualcosa dalla finestra e disse che potevo accomodarmi.
Da quanto tempo sei qui?
finalmente mi guardò.
Da quattro mesi. Cioè, questa è la mia seconda volta a New York e in tutto sono sette mesi
risposi.
Lei riprese a guardare fuori.
La sua scrivania era così piccola da sembrare inadeguata. Poteva contenere solo la macchina da scrivere, una di quelle antiche col rullo, con la leva per andare a capo, l’inchiostro che odorava di alcol, e a malapena restava spazio per appoggiare i gomiti, ma sembrava costruita apposta per lei.
Ho visto il curriculum. L’università, i tuoi hobbies… cosa stai facendo a New York?
In questo momento sono disoccupata
Agnés si era raccomandata di non menzionare la televisione italiana sto perfezionando l’inglese e frequento corsi di altro tipo.
…di altro tipo… Sì, ma cos’è che ti piacerebbe fare?
Mi piace scrivere.
La Signora trasalì. La vidi impallidire poi arrossire, anche se le sue guance non cambiarono davvero colore. Scosse la testa, soffiò fuori dell’aria, provò a cominciare una frase, ma le parole le si bloccarono, sassi roventi, in gola. Io non riuscii a sostenere il suo sguardo, non capivo cosa avessi detto di tanto sbagliato, così l’abbassai sui tasti sbiaditi della macchina che mi sembrava pulsassero di storia.
È la peggior cosa che potessi dire. Togliti certi pensieri dalla testa
mi informò. In caso dovessi essere assunta, tu non farai altro che stare negli uffici, rispondere alle telefonate e riportarmi i messaggi. Punto.
Sì, me l’hanno spiegato. Lei mi ha chiesto cosa vorrei fare e le ho detto la verità, ma non mi aspetto altro da questo lavoro che di pagarmi l’affitto.
Lei guardò fuori e scosse di nuovo la testa. Si distanziò di qualche centimetro dalla scrivania, una ruga di ironia spuntò sotto i suoi occhi.
Sei fidanzata?
Sì
dissi.
Italiano?
Sì.
Anche lui è qui?
Annuii.
Brutta cosa, questa. No, non per te, per la situazione. Cosa fa?
Lui è…
Non importa, non sono fatti miei, ma parliamo di te. Tutte queste cose diverse che hai fatto… Sì, direi che sei un bell’uccel di bosco, non sono sicura che terrai duro.
Guardò il soffitto, inclinò leggermente la testa: Tesoro mio… Non si dice mi piacerebbe scrivere, è una cosa che non si dice. Si fa e basta. Oppure non si fa. E se non si fa, non si dice che ti piacerebbe farla.
2.
Era successo tutto per caso. Era la fine di settembre e gli alberi cominciavano