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Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia)
Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia)
Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia)
E-book253 pagine3 ore

Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia)

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Info su questo ebook

Un complotto preordinato o la solita inefficienza della burocrazia? Quali sono le ragioni che hanno portato la politica a dimenticarsi dei testimoni di giustizia? Il segreto si svela da sé, nelle parole dei quasi settanta eroi, oggi tutelati da programmi di protezione disastrosi. Una fuga ininterrotta, che porta quasi sempre alla morte. Del corpo e dello spirito. Un’analisi approfondita e spietata, a metà tra il romanzo e il reportage, che vi calerà nelle viscere di un problema sociale a tutti sconosciuto.
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2012
ISBN9788881019304
Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia)

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    Tra l'incudine e il martello. La denuncia di chi ha denunciato (inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia) - Angelo Greco

    dell’8.11.2010)

    Introduzione

    C’è una storia che comincia dove le altre spengono i riflettori; dove i giornali girano le spalle per qualcosa di nuovo da titolare; dove, in definitiva, la gente non sa più.

    Questa storia inizia sulle ceneri di Troia, quando Ulisse prende la strada per casa. I vati narravano di allori e città spalancate ai guerrieri vittoriosi, servitori della Patria. Invece, per lui, sul sentiero del ritorno, solo asperità e mostri.

    Un’avventura che oggi drammaticamente si ripete: ma senza alcun Omero a narrarla. Al contrario, solo le spesse tende della vergogna e dell’ignoranza, di cui spesso si arreda il comune sentire.

    Questo non è il tempo degli eroi. Gli immortali sono morti. Le leggende non si tramandano più. Al loro posto, nuovi vocaboli albergano nei miti del popolo. La democrazia, la giustizia. Quella stessa giustizia che, mantide pagana senza più religiosità, uccide proprio coloro che la sposano.

    Chi chiede giustizia scopre che ormai esiste solo la legge.

    Proprio da una legge inizia questo viaggio. La legge che doveva essere solida imbarcazione per il re di Itaca e che invece lo abbandona alla deriva, tra Scilla e Cariddi.

    La normativa in questione ha visto l’alba il 13 febbraio 2001 ed è stata battezzata con un nome che è un numero, proprio come quello sui camici dei detenuti, dai quali invece voleva distinguersi. La numero 45.

    È la legge che istituisce lo stato di testimone di giustizia, lo disciplina e lo distingue da quello già esistente del collaboratore o, spesso detto, ‘pentito’.

    Per quanto inverosimile possa apparire, prima di tale intervento non vi era alcuna differenza, sia sul piano terminologico che su quello della tutela, tra il passivo spettatore di un crimine e chi invece vi aveva partecipato. In buona sostanza, la legge accomunava in un’unica categoria i cittadini modello ai delinquenti. E per entrambi disponeva lo stesso trattamento.

    Ma il diritto è un mondo virtuale, che difficilmente cambia la realtà senza l’ausilio e la ragionevolezza dei suoi interpreti. Cosicché, pur modificata la disciplina, i problemi sono rimasti gli stessi...

    Parte prima - Un punto da cui partire

    1. La lettera di Alfio

    1. «Io sono Cariati Alfio Elmiro, di professione imprenditore.

    Io, insieme a mia moglie, gestivamo due attività commerciali, un bar sito a Rende (Cosenza) e una concessionaria di auto nel Comune di Torano Castello, di dove io sono originario».

    Anticipata da queste battute, giunge la lettera alla Casa Editrice, buttata sul tavolo da un postino frettoloso, insieme alle pubblicità, ai conti delle utenze, ai bollettini di versamento per qualche Onlus. È una di quelle mattine che ti chiedi se qualcosa cambierà la tua vita, mentre ignori quanto sia terribilmente cambiata, solo qualche giorno prima, quella di altri.

    "Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia da raccontare". Una delle battute più significative di ‘Novecento’, capolavoro di Alessandro Baricco, sembra invece studiata per essere il motto di ogni buon editore. Ma ogni storia ha due volti per chi fa pubblicazioni di spessore. C’è la notizia, l’affare. E la vicenda umana.

    Di Cariati Alfio Elmiro nessuno ha mai parlato, nessuno lo conosce, nessuno sa cosa ha fatto e quante persone vivono nella sua stessa condizione. Google mi indica risultati zero. Insomma, Cariati Alfio Elmiro dovrebbe essere una persona invisibile. Per tutti. Ma non per lo Stato.

    E invece avviene l’esatto contrario!

    L’antefatto è uguale a quello di tante altre storie.

    Alfio subisce le vessazioni da parte di una ’ndrina di Cassano allo Jonio. Lì, nella zona di Sibari, aveva deciso, alcuni anni prima, di impiantare la sua attività con l’amico Franco. Quest’ultimo, racconta Alfio, aveva intrattenuto segreti contatti con il clan dei Forastefano «perché da noi in Calabria la ’ndrangheta è vista come un mito da raggiungere ed imitare, non come un cancro che distrugge l’economia regionale». Franco, nel ricordo di Alfio, era uno di quelli che sperano di godere dei privilegi solo per la vicinanza a determinate persone. Invece chi gli aveva promesso soldi e successo gli ha poi offerto l’inferno. Franco è costretto a fuggire in Canada, dove era nato nel marzo del 1978, e lì, il 22 maggio 2007, raggiunto dai demoni del passato, la polizia lo trova morto, presunto suicida.

    Il calvario di Alfio inizia in quel momento, per causa delle persecuzioni che la trascorsa vicinanza a Franco gli procura. La cosca locale comincia a chiedergli ingenti somme di denaro. Sinché, stanco, si arma del sano coraggio di chi sa di non potersi lamentare se accetta il sistema. È il mese di maggio del 2007. Alfio denuncia tutto alla D.D.A.[1] di Catanzaro e promette di testimoniare al processo ‘Omnia’ in cambio della protezione delle forze dell’ordine. Le sue dichiarazioni saranno determinanti per la pubblica accusa.

    «Sette anni di verbali. Ho raccontato tutto quello che conoscevo e che avevo subito» continua l’amara lettera.

    Da quel giorno, la vita di Alfio cambia. Cambia per due ragioni. La prima, prevedibile: socialmente viene marchiato come una spia, uno ‘sbirro’, secondo l’infame significato attribuitogli dall’uomo d’onore – quello invidioso, ignorante e codardo. Nello stesso tempo, Alfio diventa un testimone di giustizia, una persona che ha deciso di aiutare lo Stato nelle indagini. Ed il suo status di cittadino comune si trasforma. Profondamente.

    2. «Così, sabato 4 agosto del 2007, alle sei di mattina, si presenta sotto casa mia una macchina blindata, con due carabinieri di scorta, per portarci in una località che chiamano ‘protetta’, ma che ancora non conoscevamo neanche noi». La cronaca di Cariati prosegue con il racconto delle prime difficoltà. Alfio porta con sé, come una lumaca senza il guscio, ciò che più ama: sua moglie ed il piccolo. Due bagagli a mano – perché non c’è stato neanche il tempo di fare valigie – contengono solo l’essenziale.

    Sembra di rivedere le scene di fuga, durante la notte, di quei pochi ebrei scampati alle persecuzioni naziste.

    È una giornata torrida. Alle due del pomeriggio anche il sole sembra impietoso con la famiglia di Alfio. L’auto dei Carabinieri costeggia le spiagge affollate di bagnanti. Il litorale tirrenico è un formicaio in cerca di una direzione non definita. Neanche gli agenti della scorta si accorgono del contrasto tra chi si sveste degli abiti e dei pensieri e chi, invece, sta andando incontro all’inverno.

    Si consuma in questo modo, nell’indifferenza, un atto d’amore verso quanti, in quel momento, si fanno spalmare la crema abbronzante.

    Ci sono circa nove ore di strada sino al nord Italia. Un viaggio della speranza che porta la famiglia Cariati al casello autostradale di Bologna. Lì, la blindata si ferma. C’è una lunga pausa in attesa che giunga a prelevarli un altro veicolo, perché nemmeno la scorta sa dove siano diretti.

    Il bambino chiede al padre un panino per quietare i mugugni della pancia. Non c’è stato il tempo per preparare neanche quello.

    La piana emiliana, che Alfio già conosce, in quel frangente sembra una terra sconosciuta, senza orizzonte. La sua vacanza intelligente prosegue nell’incertezza.

    Dopo qualche minuto sopraggiunge l’ennesimo cambio. Questa volta si tratta di un mezzo non blindato, con due persone a bordo, col compito di portarli a destinazione. Sono agenti del N.O.P.[2] di Padova, che assumono in consegna il pacco segreto.

    L’auto riprende a percorrere l’asfalto incandescente, mentre Alfio rivive tutte le fasi dei precedenti contatti con la magistratura: i primi incontri con il Procuratore della Repubblica, le vaghe spiegazioni sulla protezione e su quella che sarebbe stata la sua sorte. Nel frattempo lui s’era documentato e aveva imparato la legge del 2001 a memoria. Il P.M. aveva chiesto ed ottenuto dalla Commissione centrale l’approvazione di un piano provvisorio di protezione. Nei centottanta giorni successivi, la Commissione avrebbe dovuto acquisire il parere dell’autorità proponente e del Procuratore nazionale antimafia; quindi avrebbe deliberato il programma di protezione definitivo. Se ciò non fosse avvenuto, le misure provvisorie avrebbero perso effetto. Era tutto scritto nella legge. Ed Alfio lo sapeva bene. Un lungo iter di autorizzazioni, carte, bolli, permessi.

    La famiglia arriva nel luogo protetto: un albergo di una ridente località veneta, a pochi chilometri dal mare, dove viene alloggiata in una camera confortevole. Nello stesso hotel si nascondono altri testimoni. Ma ciò non impedisce all’uomo del bureau di lanciare uno sguardo di diffidenza verso il nuovo arrivato: forse lo ha già assimilato ad un collaboratore di giustizia, uno di quelli di cui parlano i giornali, ex malviventi che trattano, ritrattano, si pentono e poi si pentono del pentimento.

    Intanto, gli agenti spiegano ad Alfio alcune regole da rispettare alla perfezione per la sua sicurezza. Quindi, gli danno appuntamento al lunedì successivo. E lo lasciano. Solo.

    Alfio entra in bagno. Chiude la porta a chiave, fa scrosciare l’acqua della doccia e nasconde il pianto. Lacrime di rimorso per aver obbligato la propria famiglia alla precarietà; lacrime di amarezza, perché si accorge di non aver avuto altra scelta; lacrime di chi sa che, anche tornando indietro, il suo orgoglio civico lo avrebbe portato alla stessa scelta, con la medesima fierezza ed intransigenza. E tutto questo gli cade addosso, in un solo istante, come schegge di un vetro in frantumi.

    Quella notte, dopo aver spento la luce del comodino, per la prima volta Alfio si accorge dell’esistenza del buio: un fermo immagine che nulla sa, nulla sente e nulla vede.

    3. Trascorre il primo fine settimana e Alfio ritrova il coraggio. Prima della deposizione in udienza dovranno ancora trascorrere diciotto mesi. Ma lui sa che il programma di protezione è la cosa migliore per sé e la sua famiglia. Gli hanno promesso riservatezza e l’anonimato. Gli hanno garantito protezione fino alla cessazione del rischio, indipendentemente dalle sorti del processo. Neanche i soldi dovranno essere un problema: lo Stato gli offrirà il mantenimento dello stesso tenore di vita, le spese sanitarie e l’assistenza legale. Che altro può volere? Si sente rinfrancato e accetta anche l’idea che di lì a poco lo verranno a prelevare per portarlo in un altro luogo protetto.

    Con la famiglia accanto, Alfio trascorre qualche settimana in Liguria, per poi tornare in Veneto. Gli viene affidata una casa di modeste pretese, senza elettrodomestici. Dopo quattro mesi viene trasferito. Ancora.

    Le lungaggini burocratiche diventano il nuovo nemico di Alfio.

    Come quella volta in cui perde la patente e la carta di identità. Prima di avere i documenti nuovi passano otto mesi. Otto! In condizioni normali, sarebbero bastati sette giorni.

    La sua fermezza comincia a vacillare. Non lo assiste nessuna scorta. Le forze dell’ordine si vedono solo in occasione delle udienze. Dopo di ciò c’è solo un’immensa solitudine.

    Intanto la Commissione centrale, ancora in attesa di ricevere gli incartamenti dalla D.D.A. di Catanzaro ed i pareri per l’adozione del programma di protezione definitivo, è costretta a prorogare quello provvisorio. I centottanta giorni previsti dalla legge diventano quasi diciotto mesi.

    Tutto è imbrigliato nei lacci e laccioli della macchina. La burocratizzazione – o, per dirla con le parole di Javier Pascual, l’arte di rendere impossibile il possibile – diviene spaventosa. Alfio deve inoltrare ogni richiesta, anche la più banale, al N.O.P. di competenza, che a sua volta la gira a Roma. Ma, in questa condizione non consolidata, ogni domanda gli viene respinta. È la giostra perpetua.

    Il testimone cerca di accelerare da sé il farraginoso ingranaggio, facendosi ricevere da politici e funzionari. Finché la svolta. L’8 ottobre 2008, la Commissione gli revoca inspiegabilmente lo stato di testimone e lo commuta in quello di collaboratore. Il provvedimento non viene mai notificato né a lui, né al suo avvocato.

    Ed Alfio, per tutta risposta, rifiuta il programma. Abbandona la località protetta e ritorna al proprio paese. Meglio i proiettili che l’incerta scure dello Stato.

    Ciò nonostante, nel marzo del 2009, egli depone al processo ‘Omnia’, tenendo fede alle promesse.

    Il 20 maggio 2010, Alfio è minacciato di morte al telefono da uno sconosciuto. E la sua storia, ad oggi, non è ancora finita…

    [1] Direzione distrettuale antimafia.

    [2] Nuclei operativi di protezione.

    2. Testimoni d’ingiustizia

    1. In Italia, attualmente, sono circa 71 i testimoni di giustizia[1]. 71 i Cariati Alfio Elmiro, 71 gli Ulisse che devono ancora far ritorno ad Itaca. Ognuna delle loro storie si può riassumere in tre momenti: deposizione, accesso al programma di protezione, abbandono.

    Ma chi sono questi testimoni? Eroi senza patria e senza volto. Il loro nome è stato estratto a sorte – una casuale combinazione dal catalogo dell’onomastica. La loro vita è inventata, pianificata, studiata a tavolino da un funzionario del ministero dell’Interno.

    Sono persone in carne e ossa, con le loro paure, i sacrifici, le esistenze dilaniate, talvolta le famiglie distrutte. Rinnegati dai parenti, incompresi dai figli, a volte abbandonati dalla moglie o dal marito. Persone, in certi casi, sopraffatte dalla disperazione.

    Alcuni di loro hanno una personalità borderline perché hanno deciso di aiutare la giustizia solo dopo un’iniziale accondiscendenza alle richieste mafiose. E, per questo, ancora più travagliati dal processo di recupero della loro coscienza e dignità. Un cammino di purificazione attraverso il dolore.

    Intervistarli non è stato facile. Hanno le loro perplessità, sono pieni di diffidenza e soprattutto di un insostenibile carico di sfiducia.

    Beffati anche dalla stessa lingua italiana. Che per lungo tempo, sino all’intervento della legge n. 45/2001, li ha chiamati ‘collaboratori di giustizia’, generando confusione tra due figure che, invece, hanno linee di distinzione nette. Tutt’ora, gli stessi giornalisti usano le due espressioni in modo indistinto. Talvolta capita anche ai magistrati.

    Invece, i Testimoni di Giustizia sono coloro che, in gergo volgare – tutt’altro che impropriamente – vengono detti ‘testimoni oculari’, quelli cioè che, senza far parte di organizzazioni criminali, sono a conoscenza di un fatto criminoso e intendono informarne le autorità. Tra loro, c’è chi ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e di assistere involontariamente ad un reato consumato ai danni di un terzo (un omicidio, una violenza, ecc.). C’è chi, invece, è egli stesso la vittima (si pensi all’usura, al cosiddetto pizzo, alle estorsioni, alle concussioni, ecc.).

    In ogni caso, il Testimone – e per questa ragione, pur compiendo un’improprietà grammaticale, lo indicherò d’ora innanzi con la lettera maiuscola – non proviene mai da ambienti malavitosi[2] (circostanza che lo distingue dal collaboratore), ma occupa una posizione normale all’interno del tessuto economico e sociale. Egli è spesso impegnato in attività imprenditoriali. Anzi, proprio a causa di tale occupazione, viene perseguitato dalle organizzazioni criminali.

    Il dovere di testimoniare, a volte, può sorgere da un grido disperato di aiuto, altre volte da una sensibilità istituzionale, da un semplice atto di amore nei confronti della giustizia e del popolo. Il Testimone decide così di intraprendere una strada che espone se stesso e i propri cari alle rappresaglie degli accusati. Le istituzioni, quale contropartita, gli offrono tutela, lo sottopongono a un programma di protezione, lo costringono ad allontanarsi dalla sua terra, ad abbandonare i ricordi, le sue radici e a vivere sotto scorta.

    Al contrario, il Collaboratore di Giustizia ha avuto un ruolo anche marginale all’interno del fatto delittuoso, ma si è ravveduto, ha deciso di cambiare atteggiamento e di collaborare con lo Stato. Per il solo fatto di informare le autorità di quanto a sua conoscenza, egli usufruisce, oltre ad un programma di protezione personale ed economico, di una lunga serie di vantaggi e di sconti sulla pena.

    Lascio poi alla cronaca quotidiana i numerosi casi di falso pentitismo e di strumentalizzazione di tali dichiarazioni per ulteriori fini criminali o solo per sfuggire al carcere duro. Dichiarazioni che spesso sono ontologicamente mendaci proprio perché provenienti da soggetti che, solo qualche giorno prima, avevano disprezzato le istituzioni, la legge, la morale.

    Il collaboratore, difatti, resta generalmente segnato dai propri trascorsi e dalla buia realtà del clan. Egli non sempre realizza un autentico pentimento che valga a riorientare la sua cultura e a pervenire ad una convinta e decisa adesione ai valori della legalità[3].

    Ecco perché, a rigore, il termine ‘pentito’ nasconde in sé una profonda improprietà. Le motivazioni che portano il delinquente a cooperare, senza che il suo animo, nello stesso tempo, riconosca l’empietà della propria condotta, e quindi senza un’effettiva conversione, impone di parlare più correttamente di ‘collaboratore’. Quest’ultimo termine, invero, fa riferimento ad una mera condizione di fatto – la collaborazione, appunto – e non anche ad una trasformazione morale.

    2. C’è una profonda differenza etica ed ideologica tra chi sente il dovere civico della denuncia e chi, invece, si converte all’onestà.

    Il collaboratore si muove secondo una finalità egoistica ed utilitaria, sia pure, nella migliore delle ipotesi, accompagnata dal ravvedimento. Il Testimone, al contrario, agisce per altruismo e coraggio, non dovendosi pentire di alcunché.

    Il collaboratore riceve benefici per effetto del suo contributo alle indagini. Il Testimone non ottiene alcuna contropartita; egli è una persona integerrima che, per aiutare lo Stato nella ricerca dei colpevoli, ha deciso di sacrificare non solo una mattina in questura, ma l’intera vita.

    Eppure, non poche volte le istituzioni hanno dimostrato di essere più severe e distratte nei confronti dei Testimoni ed invece flessibili e benevole con i collaboratori: forse per via del ruolo ricoperto da questi ultimi, dell’importanza delle loro conoscenze e, quindi, delle dichiarazioni che forniscono. Essi conoscono le organizzazioni criminali dall’interno, sono al corrente dei loro obiettivi; sanno quali strategie perseguono le cosche, quali delitti hanno compiuto e quali intendono compiere; hanno notizia dei luoghi ove sono nascosti i patrimoni illeciti e ne consentono la confisca. Insomma, si crede che chi proviene da dentro l’organizzazione sia di maggior aiuto nelle indagini rispetto a chi invece ha assistito, dall’esterno, ad un singolo crimine. «Noi valiamo poco perché abbiamo poco da offrire: sappiamo solo quello che abbiamo visto» ha denunciato un Testimone dalle pagine di un giornale online[4].

    Il collaboratore, inoltre, fa più notizia del Testimone. I media ne riempiono la cronaca perché colpisce di più la storia di un pentimento che quella di un uomo integerrimo. Non c’è bisogno di leggere i giornali per conoscere nomi come Ciancimino, Mutolo, Buscetta, Brusca. Qualcuno addirittura parla di super-pentiti, come se vi fosse una gerarchia di importanza nel pentimento.

    Quanti Testimoni invece sono noti all’opinione pubblica? Eppure, fuori dalle headlines dei quotidiani, lontano dalle foto dei pubblici ministeri aggressivi ed armati di codice, il vero eroe del processo è il Testimone. Dietro il successo di un magistrato tutelato dalla scorta, dagli scatti di carriera e dalle prerogative della categoria c’è l’immolazione di un uomo della strada.

    Anche le statistiche giocano contro i Testimoni. Secondo le stime, essi producono un volume di contenzioso contro la pubblica amministrazione maggiore rispetto

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