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A chi appartieni
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E-book129 pagine1 ora

A chi appartieni

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Info su questo ebook

Ci può essere la pace interiore nel viaggio tra il nord e il sud, tra la giovinezza e l’età adulta, tra l’essere accuditi e l’accudire?
Questa è la domanda che si snoda nelle pagine di questa opera prima di Stefania Greco.
Il sud, la Sicilia, la brutalità del paesaggio secco e le mani della mafia. Il nord, accogliente e algido allo stesso modo: Messina, Brescia, il lago di Garda, Rimini, insieme a Francesco, Lorenzo, Carlo, e Mattia. La vita, la morte, la sofferenza e la redenzione.
La redenzione che arriva facendo la pace, con sé e con il mondo. Senza smettere di guardare avanti, con la serenità di poter, finalmente, riguardare indietro.

“Le voci e i discorsi si mischiano e mi raccontano cose che devo ancora scoprire; mentre mi chiedo quali saranno, osservo quella gente come fosse la prima volta che mi guardo intorno, ascolto le conversazioni per indovinare i dialetti, d’un tratto dal finestrino non riconosco più il paesaggio: già da qualche fermata, non si vede più il mare.
Mancano ancora diverse ore all’arrivo, ma mi sento già in un posto nuovo.”
LinguaItaliano
EditoreBlonk
Data di uscita26 gen 2021
ISBN9791220252492
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    Anteprima del libro

    A chi appartieni - Stefania Greco

    me

    1. GENNAIO

    «Mio fratello Mattia è morto. Si è impiccato. Sto raccogliendo due cose in casa che stasera andiamo tutti giù».

    «Oddio no!»

    È la prima cosa che ho pensato di fare appena arrivata a casa, scrivere a Francesco. Dirlo a Francesco.

    Ci piango sopra una manciata di secondi ma non aggiungo altro.

    Ho altro da fare e poco tempo per farlo.

    Con un fazzoletto mi asciugo la faccia, con quello stesso asciugo il telefono.

    Il mio zainetto da viaggio sta da qualche parte nell’armadio, lo cerco, lo trovo a memoria, ci infilo dentro un paio di mutande, un paio di calzini. I vestiti li ho addosso, Francesco l’ho messo al corrente. Ho già in mano le chiavi della macchina per tornare indietro, a casa dei miei.

    Che altro? Il gatto. Qualcuno deve pensare al gatto per almeno una settimana: il mio ragazzo.

    Chiamo la mamma di Lorenzo per lasciarle le mie chiavi di casa.

    «Ciao Anna, ti disturbo?»

    «No tesoro... Che succede?»

    «È morto mio fratello, parto con la mia famiglia per Messina tra qualche ora»

    «Oddio tesoro mi dispiace! Ma era così giovane! Com’è successo?»

    «Si è suicidato»

    «Ma come? Ma perché?»

    «Anna senti, avrei bisogno di un favore: posso passare a lasciarti le chiavi di casa? Sai, per il gatto, ho avvisato Lorenzo ma è al lavoro, pensavo potessi dargliele tu quando torna»

    «Ma certo tesoro, vieni pure, sono con la mia amica al bar sotto i portici»

    «Grazie Anna, arrivo subito».

    Il sole mi punge gli occhi sebbene sia gennaio in pianura padana, scarto i passanti orientandomi con lo sguardo a terra: mi scanso ovunque incontri dei piedi, a testa bassa arrivo da Anna.

    Mi abbraccia. Mi ripete che le dispiace. Le bagno il collo della giacca mentre continuo a tirar su col naso.

    Mi lascio abbracciare ma ho fretta di andare, sono già le undici, inoltre è domenica e il centro di Brescia è pieno di persone della domenica, troppo domenica per i miei gusti, e troppe persone; sento i loro occhi addosso, decine di occhi estranei che mi violentano. Mi stacco dall’abbraccio.

    «Anna io devo andare; mi raccomando, di’ tu a Lorenzo di non dimenticarsi»

    «Certo tesoro, vedrai, ci penserà lui».

    Lorenzo non è certo l’incarnazione dell’affidabilità. Dopo il lavoro spesso si ferma al bar per una birra prima di rincasare, spesso le birre diventano due, poi tre, spesso non rincasa se non a notte fonda e Anna chiama me per avere sue notizie.

    Più di una volta Lorenzo mi ha raccontato di quando si è dimenticato il suo cane al pub e gli hanno telefonato che era già a letto perché andasse a riprenderlo. Si era completamente dimenticato del cane. Certo, è successo molto tempo fa. Adesso col cane non esce più.

    Ci penserà lui al mio gatto penso.

    Mi dirigo alla macchina a passo svelto, sto per farla partire quando suona la notifica di un messaggio sul telefono, è ancora Francesco.

    "Scusa. Io non so che dire. Sono devastato e sconvolto. Dirlo a te tra l’altro fa ridere, dirti che io sia sconvolto. Io ho paura di tutta questa enormità di dolore che ti sta continuamente addosso, vorrei dirti di essere forte, di stare vicina ai tuoi genitori, e altre cazzate del genere che vengono fuori per qualche automatismo idiota del cervello e del maledetto stare-al-mondo. Non c’è da essere forti, io non sarei forte, non c’è da stare vicini a nessuno, io scapperei fino a consumarmi la gola dall’affanno, in qualche modo lo sto già facendo. Io vorrei chiamare tutti, le persone, il mondo, i giornali, la storia, i cristi e le madonne, vorrei metterli tutti intorno a un tavolo, con la loro spocchiosa indolenza, e costringerli, costringerci, a trovare le parole per chiederti scusa, per vergognarsi, per vergognarci, di tutto questo tuo smisurato dolore.

    Io ti voglio bene."

    Anche io ti voglio bene Francesco, non gli rispondo.

    Avvio il motore, e mi dirigo verso casa dei miei.

    2. IL RICONOSCIMENTO

    Le ore successive sono convulse, confuse, dobbiamo andare a Parma e da lì ripartire per raggiungere Villa san Giovanni , e dobbiamo andare, due volte, in treno. Viaggeremo di notte e non chiuderemo occhio. Nel silenzio della cuccetta sentiamo solo i nostri singhiozzi soffocati dallo sforzo di non farci sentire l’un l’altro, tutti e quattro: il nuovo numero di persone che compone la mia famiglia. L’aria viziata, le rotaie maledette del treno che viaggia, i pensieri che pesano e riempiono ogni spazio della nostra cabina. È un’apnea.

    Uno alla volta, in prossimità dell’arrivo e dell’alba, iniziamo a tirar su la schiena. I successivi trenta minuti di traghetto fino a Messina Marittima sembrano interminabili.

    È qui che è successo.

    Non dovremmo e invece ci guardiamo intorno, senza parlare, cercando chissà cosa, non guardate vorrei dire ma lo faccio anche io e l’unica cosa che non riesco a guardare sono gli occhi della mia famiglia, non riesco a non chiedermi in quale punto, a che altezza, in che momento, perché, come, Mattia si sia impiccato.

    Neanche una settimana fa era a Brescia con noi, nel salotto dei miei a raccontarci di Roma, a parlarci delle persone che vivono per strada, a ricordare a mamma di prendere le medicine.

    E poi quell’abbraccio non corrisposto:

    «Io vado, che domani lavoro» gli avevo detto.

    «Allora non ci vediamo più?» mi aveva risposto lui.

    «Ma sì che ci vediamo, devi tornare presto a Brescia».

    Lo avevo abbracciato e lui - rigido - si era tenuto le mani in tasca, mi aveva guardato con quei suoi occhi celesti da far invidia al paradiso ed era rimasto immobile.

    È l’ultimo ricordo che ho di mio fratello. E adesso, dentro questa stazione, non posso fare a meno di chiedermi se non avesse già pianificato tutto.

    Prendiamo posto, Il treno parte. Stacco la faccia dal vetro per controllare i visi dei miei. Adesso, devo pensare a loro.

    Alla stazione successiva, siamo arrivati a Messina Centrale dove ci aspettano più parenti di quanti ora ricordo di avere. Mattia non c’è, non è potuto venire sembrano dire tutte le loro facce. Scendiamo, un cartello nella mia testa dice benvenuti all’inferno mentre quello davanti ai mie occhi recita da anni la stessa nomenclatura bianca su sfondo blu delle ferrovie Messina Centrale.

    Al posto di polizia aspettano mamma, dovrà essere lei a identificare il corpo, è la prassi; dovrà parlare lei col funzionario incaricato, è la prassi. La prassi dice che nessuno può entrare in obitorio prima di lei, la prassi dice che il corpo è sotto tutela del procuratore, all’obitorio, finché mamma e solo mamma non l’avrà identificato.

    Attorniati dai parenti ci avviciniamo, in branco, all’ingresso del posto di Polizia Ferroviaria: Daniele accompagna mamma dentro, io resto vicino a papà con gli zii, fuori.

    Dall’auto dove sono seduta insieme a papà si vede la piazza antistante la stazione centrale, piena di auto parcheggiate in doppia fila. Da Piazza della Repubblica partono autobus per tutte le direzioni del centro e dei paesi più vicini, intorno il traffico scorre disordinato; lo smog satura l’aria e la rende irrespirabile. Dopo mezz’ora di attesa, nonostante i discorsi che gli zii cercano di tenere accesi per distrarci, papà mi dice «Vai a vedere» ed è esattamente quello che pensavo anche io.

    Entro in questo stabile cui sono passata davanti mille volte ai tempi del liceo senza mai entrarci, è disordinato, con scaffali e fotocopiatrici posizionati in modo discutibile, raggiungo mamma e Daniele nell’ufficio dove stanno ancora aspettando la firma del questore. Al mio arrivo un uomo in divisa evidentemente già informato mi fa entrare, ripete a me quello che sta dicendo a mamma e Daniele. Sulla scrivania riconosco la

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