Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'Ascesa di Zenobia
L'Ascesa di Zenobia
L'Ascesa di Zenobia
E-book276 pagine3 ore

L'Ascesa di Zenobia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il mio nome è Zabdas: un tempo uno schiavo; oggi un guerriero, un nonno, un servitore. Chiamo la Siria casa. Vi racconterò la storia della mia Zenobia: Regina Guerriera di Palmira, Protettrice dell'Oriente, Conquistatrice di Deserti...

L'Impero Romano è vicino al collasso. Odenato di Palmira protegge il confine siriano e le sue vitali strade commerciali dall'invasione persiana. Re cliente in una terra dimenticata, a corto di rinforzi, Odenato chiede aiuto a un vecchio amico, Giulio, per affrontare un antico nemico: i Tanukh.

Giulio crede che la Siria debba separarsi da Roma e dichiararsi indipendente. Ma le convinzioni di sua figlia sono ancora più forti. Zenobia è determinata a realizzare i sogni di suo padre.

E tradisce Roma...

“La magnifica caratterizzazione di JD Smith e la meticolosa ricerca dipingono un quadro vivido e drammatico della Sira del III secolo d.C., in un'epoca in cui Roma si sta disintegrando sotto il peso della sua stessa corruzione. La gioventù di Zenobia, uno dei personaggi storici più enigmatici, viene narrata attraverso gli occhi del cugino Zabdas, uno schiavo che diventa generale. Zabdas è il narratore perfetto e la sua storia segue Zenobia da ragazza intelligente e precoce a imperiosa manipolatrice di re e imperatori, dal regno desertico di Palmira a Roma, e ritorno. Pieno di passione, intrigo e drammaticità, trascina il lettore fino all'ultimissima pagina.” 


Douglas Jackson, autore di Caligula 

"La Boadicea di Siria, una sedicente Cleopatra, e una Daenerys Targaryen in carne e ossa."

LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2015
ISBN9781507125908
L'Ascesa di Zenobia

Correlato a L'Ascesa di Zenobia

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'Ascesa di Zenobia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'Ascesa di Zenobia - JD Smith

    L'Ascesa di Zenobia

    JD Smith

    Traduzione di Piera Biffardi 

    L'Ascesa di Zenobia

    Autore JD Smith

    Copyright © 2015 JD Smith

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Piera Biffardi

    Progetto di copertina © 2015 JD Smith Design

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    Per William e Alexander,

    che hanno ostacolato la pubblicazione di questo libro ripetutamente, chiedendo

    ‘altra colazione’ e ‘pipì, vieni’.

    PROLOGO

    Zabdas - 290 d.C.(Oggi)

    Nugoli di polvere fluttuano sulla strada verso Palmira. Torno in città in groppa al mio cavallo; le macerie e il fango e il silenzio di tomba di un luogo che un tempo era sinonimo di vita. Mura che sfioravano il cielo, ora raggiungono appena l'altezza di due uomini e gettano su di noi la loro ombra: cinque uomini sconfitti dal tempo. Due di noi sfidano la morte, smaniosi di un ultimo clangore di ferro prima riappacificarci con i nostri dei.

    Dietro le mura, quasi cinquecento dei miei uomini reggono i resti della città spezzata. Insieme a loro, migliaia di cittadini che hanno trascorso anni a ricostruire con la polvere il tetto delle proprie case, spaventati dal nostro nemico comune. Avverto la loro paura, il panico che si fa strada nell'animo di coloro che non sono in grado di difendersi da soli, nello stato d'incertezza di ciò che sarà. E chi non sarebbe spaventato, da solo in un'oasi del deserto, con soltanto mura fatiscenti e due carri a bloccare la porta della città.

    Strofino il pomo della mia spada con il pollice, l'impugnatura consumata da una vita passata a uccidere. Uccidere, oppure difendere? Improvvisamente non sono più così certo della differenza. Chi sono io, un soldato o un assassino, un garante della pace o un guerriero con degli uomini al suo comando? Accecato dalla vendetta o uomo spezzato, oppure entrambi? Scaccio via i pensieri e scruto la strada con occhio vigile. La tribù dei Tanukh ha condotto il proprio esercito a Nord, stuprando e saccheggiando, devastando le città della Siria; abbattendosi come una calamità tra le sabbie. Gli esploratori mi riferiscono che sono vicini, e il mio respiro accelera mentre attendo il primo avvistamento.

    ‘I Tanukh conducono duemila uomini lungo questa strada’, dice Vaballato. Cavalca alla mia destra, e sento l'uomo accanto a lui, un sacerdote di Palmira, prendere improvvisamente fiato e iniziare a salmodiare.

    ‘Mille, duemila, centomila’, dico, ‘non ha importanza.’

    ‘Mi avevi detto che erano mille’.

    Vaballato parla per infastidire il sacerdote, uno scherzo che non condivido. Sa quali sono i numeri che ho comunicato ai leader della città: il comandante e il sacerdote che ora sono con noi.

    ‘Ho detto alla gente che sono mille. Una bugia per evitare il panico. Cosa sarebbe successo? Le strade sarebbero state invase da cittadini che cercano di andar via, soltanto per trovarsi ancora più in pericolo?’

    ‘Avresti potuto dirlo a me’, replica lui più sommessamente.

    Respiro a fondo, chiudo gli occhi e li riapro, con lo sguardo fisso su Vaballato. È alto quanto lo era suo padre, di una testa rispetto a un uomo normale. Sostiene il mio sguardo per un momento, poi distoglie lo sguardo. Sono presenti sensi di colpa, rimpianti e promesse in gran quantità nella nostra presa di posizione nell'affrontare l'esercito dei Tanukh. Soprattutto da parte mia, non sua.

    ‘Non pensavo che saresti venuto’, afferma il comandante con la sua onesta voce e un tono forzatamente calmo. Nominato dal popolo di Palmira, ha il suo rispetto e il mio.

    ‘Ho giurato di proteggere gli abitanti di questa città e di dare il mio sostegno qualora fosse stato necessario’, rispondo.

    ‘Ed è davvero ben accetto. Ma tu sei al comando delle forze armate più consistenti della Siria. Perché non stanziarle qui, a Palmira? La gente è spaventata. Sarebbe felice di godere della tua protezione costante’.

    Scuoto la testa. Non capisce.

    ‘I Romani non hanno dimenticato la minaccia rappresentata dalla Siria con il suo grande esercito. I miei uomini restano in agguato nell'ombra di ciò che questo paese è stato. Dobbiamo restare così.’

    ‘I Romani non verrebbero a saperlo’, obietta il comandante, lanciando un'occhiata a Vaballato.

    ‘Se i Romani sapessero che i miei soldati pattugliano queste mura, che siamo ancora vivi, smantellerebbero la città per ritrovarci. Non si darebbero pace. Non sei abbastanza anziano da ricordare’.

    Il comandante si scherma gli occhi dal sole. Avrà vissuto forse trentacinque anni. Io ora ne ho cinquanta. Non può comprendere l'odio dei Romani e il potere detenuto un tempo da Palmira, la minaccia che rappresentavamo.

    ‘Allora, che così sia, Generale Zabdas’.

    Forse sfrutta il grado che un tempo era mio per adularmi, per ricordarmi dei giuramenti che mi legavano a questo paese, che mi ci legano ancora, ma non posso esserne certo.

    ‘Non sono più un generale’, sussurro. ‘Sono soltanto un condottiero.’

    ‘E comunque il paese continua a vedere in te un leader, in grado di mantenere la pace e difenderci.’

    ‘Vivo per servire.’

    ‘E io vivo per portarmi a letto le puttane’, afferma Bamdad, il mio più vecchio amico e un comandante dei nostri uomini. ‘E per bere e mangiare’.

    Rido. ‘E per il gioco d'azzardo.’

    ‘Anche. C'è nient'altro che possa fare per risultare inadeguato?’ dice, con un orgoglioso e giocoso sogghigno.

    ‘Penserò a qualcosa entro la fine di questa giornata’.

    Sposto il peso da un piede all'altro, con le articolazioni rigide nonostante il caldo. Ho trascorso una vita a cavalcare nella sabbia, dando la caccia a coloro che volevano depredare la Siria, mantenendo l'ordine dove potevo e portando una pace sicura in un paese che ha conosciuto troppe guerre. Siamo invisibili per tutti tranne che per la gente protetta dei miei guerrieri silenziosi. Non si tratta del sogno che avevo e non posso definirlo potere, poiché è a stento libertà. Ma è ciò che io ho scelto per queste terre.

    ‘L'ultimo degli esploratori non è ancora tornato’. Osserva Bamdad. Si sposta sulla sella, facendo scricchiolare l'armatura di pelle, mentre il suo cavallo sbuffa per il fastidio sotto il peso di un uomo pesante. Pelle sottile e lassa su muscoli invecchiati; il sudore si accumula sotto una bandana rossa.

    ‘Vado io’, si offre Vaballato.

    ‘No’, rispondo io. ‘Aspettiamo.’

    ‘Per quanto tempo?’

    ‘Finché non vengono’, afferma Bamdad.

    ‘Sei vecchio e prudente’, replica bruscamente Vaballato.

    Bamdad fa un gran sorriso.

    ‘Sono vivo.’

    ‘Per un pelo’, rispondo io, ricambiando il sorriso.

    ‘È vero, ma ho dieci anni più di te e la metà delle cicatrici’, replica Bamdad.

    Abbasso lo sguardo sulle mie braccia, ricoperte da una trama di segni. Sono le mie mostrine da soldato, prova dell'uomo che sono stato e della vita che ho condotto.

    ‘Ho più cicatrici perché ho partecipato a più battaglie’.

    Bamdad sbuffa. Il suo cavallo scalpita.

    ‘Stanno arrivando’, dice il comandante.

    Sentendo il rumore degli uomini lungo la strada, sprono il mio cavallo ad avanzare. Un vago brusio. Lancio un'occhiata a Bamdad e Vaballato e annuisco.

    Attendiamo in silenzio. Odio le attese. Dietro di noi i miei arcieri si allineano sulle mura a un segnale di Bamdad, mentre la cavalleria pesante fiancheggia il perimetro esterno della città, celata alla vista.

    I Tanukh emergono dalla foschia dei mulinelli di polvere e sabbia. Duecento uomini in tutto. Non superano i miei. Si fermano a poche centinaia di passi, abbastanza vicini da consentirmi di vedere che si tratta di uno sbrindellato gruppo di uomini, senza vessilli e con pochi cavalli. Dietro, una massa grigia diviene più scura, un'immagine più definita, aumentando costantemente di dimensioni mentre si formano le fila dell'esercito.

    Faccio girare il mio cavallo e mi rivolgo al comandante: ‘Invita il Re dei Tanukh a unirsi a te in città stasera, e proponi di inviare bevande, cibo e rifornimenti al di là delle mura per i suoi uomini.’

    ‘Sei sicuro, Generale?’

    ‘Lo sono’.

    Annuisce mentre il sacerdote dietro lui inizia a salmodiare a voce ancora più alta.

    Segnalo agli arcieri di ritirarsi e di liberare l'ingresso. Vaballato entra in città facendoci strada. Bamdad fa un cenno impercettibile. Do un'occhiata alla strada: l'esercito dei Tanukh continua a crescere e mi si serra lo stomaco. Poi sprono il cavallo a seguire Vaballato all'interno delle mura.

    Stasera ceniamo con un nemico di lunga data.

    Il palazzo è stato da tempo spogliato dei marmi, delle statue e della pietra. Prima dall'Impero e poi da abitanti della città e mercanti, che li hanno venduti o usati per costruire nuove case e riparare le fortificazioni fatiscenti.

    Invece di ricevere il re dei Tanukh nelle camere reali, mi fermo nell'abitazione del comandante, bevendo il suo vino e aspettando.

    ‘Entrerà in città?’ Chiede Vaballato.

    ‘Vedremo’, rispondo.

    ‘Verrà. Non può resistere all'opportunità di saccheggiare un'altra città ed è da tempo che mira a Palmira. Pensa che siano privi di difese’, aggiunge Bamdad, ridendo. ‘È un avido sciocco.’

    ‘Approfitta del dissesto in Persia. Non è stupido come credi, Bamdad’.

    Entra il comandante, si siede su un divano basso di fronte a me, con un'espressione preoccupata. È ansioso, spaventato per le sorti della città e di ciò di cui è capace il re dei Tanukh.

    ‘Arriva?’ Chiede Vaballato.

    ‘Non … non sono sicuro’. Il comandante alza le spalle prima rivolto a se stesso, poi ci guarda tutti, uno alla volta, e alza nuovamente le spalle. ‘Non lo so.’

    ‘Hai inviato un messaggero?’ Domando.

    ‘Sì, l'ho inviato. Certo…’

    ‘Il re ha risposto?’

    ‘Mi dispiace… no, non ha risposto. Non abbiamo saputo niente. Le scorte sono pronte per essere mandate al suo esercito fuori dalle mura. Non appena sapremo qualcosa…’

    Vaballato si sfila gli stivali e si sdraia su un altro divano, con le mani dietro la testa e le labbra increspate in un sorriso.

    ‘Cos'è che ti diverte?’ Chiede Bamdad con tono brusco.

    ‘Questo’, risponde Vaballato, indicando il nostro gruppo con un gesto del braccio.

    ‘Non capisco’, dice il comandante.

    Lancio un'occhiata a Vaballato. È mio genero e io sono per lui tutore, istruttore, condottiero e padre. In lui c'è una fiera giovinezza che un tempo mi era nota. È dotato di una passione per il domani che io non conosco più e di una sete di vendetta che in me si è affievolita dopo ogni giuramento. E in Bamdad vedo l'amico, il camerata, l'uomo che mi ha guardato le spalle. Ma è vecchio, stanco ed esausto, e in lui vedo me stesso. Non siamo andati avanti. Restiamo avvinghiati al nostro passato. È questo a provocare il divertimento di Vaballato.

    Entra una schiava a testa bassa e io avverto il bruciore del mio marchio di schiavo sull'avambraccio. Un promemoria della mia infanzia.

    ‘Cosa c'è?’ chiede il comandante.

    Mi accorgo che la ragazza sta tremando. La sua bocca si muove ma non emette alcun suono.

    ‘Il re dei Tanukh è in città?’ Domando.

    Annuisce rapidamente.

    ‘Allora che il banchetto abbia inizio!’ Esulta Bamdad.

    ‘Lui dov'è?’ Chiedo.

    ‘Si avvicina alla casa, Generale.’

    ‘Vai in cucina.’ Poi, rivolgendomi al comandante. ‘Farai meglio a trovare altre schiave per accogliere i nostri ospiti. Questa qui mostra troppa paura.’

    ‘Le mie scuse.’

    ‘Non sono necessarie, si tratta soltanto del consiglio di un vecchio’.

    Attraversiamo la casa fino all'atrio, dove altre schiave si aggrappano alle pareti nell'ombra. Ci tratteniamo anche noi, fuori dalla vista, una sosta per guadagnare l'elemento sorpresa e per placare l'afflusso di sangue dalle mie vene.

    ‘Dovresti essere tu ad accoglierlo’, osservo.

    Il comandante annuisce, ma ha un colorito grigiastro e i suoi occhi ne tradiscono il nervosismo.

    ‘Farà capire che siamo qui’, dice Vaballato.

    ‘Non importa. Sarà troppo tardi quando accadrà’, risponde Bamdad.

    Il cielo è di un azzurro fumoso e l'aria è così stagnante che potrei spostarla con un gesto della mano. Posso sentire il respiro delle schiave, rapido e impaurito. Il re dei Tanukh viene accolto mentre oltrepassa il cancello ed entra in cortile. Vedo i piedi del comandante mentre scende i gradini per dare il benvenuto all'uomo che saccheggerebbe la sua città.

    La sua città.

    Ora è la città del comandante? Non volevo dire questo. La loro città, mi correggo. La città degli abitanti, o di ciò che ne resta. Un luogo non governato da Roma né, lo garantisco, depredato da tribù dei dintorni o dai Persiani.

    Il re dei Tanukh entra nel mio campo visivo, in compagnia di venti uomini. Non è invecchiato. Le vecchie cicatrici continuano a solcargli il viso e uno sporco mantello gli pende dalle spalle. L'armatura è allacciata stretta a petto e stinchi e la spada è pronta accanto alla gamba.

    I cancelli si richiudono dietro di lui. Una sbarra fa un tonfo tornando al suo posto.

    E una pioggia di uomini e acciaio si riversa dalle gallerie.

    Allungando un braccio, esorto Vaballato a restare indietro, per restare nell'ombra come abbiamo sempre fatto, ma lui emette un grido di battaglia, lo strillo più forte che abbia mai sentito, e si fa strada verso la luce fioca del cortile. Bamdad estrae la spada e gli va dietro. Vado anche io, sguainando la spada e saltando dalla cima delle scale della villa nella mischia.

    La mia spada colpisce ancora prima che i miei piedi atterrino sul suolo asciutto. Ci sono già una dozzina di morti e ne continuano a cadere mentre fendo e grido e la mia lama attraversa carne e ossa. I dolori si attenuano e le membra si riempiono di rinnovata energia, fluendo con la freschezza del passato.

    Un uomo dopo l'altro cadono sotto la mia spada e ancora di più sotto quella di Bamdad, ed è questione di momenti prima che mi trovi a fronteggiare il nemico che non incontravo da trent'anni.

    ‘Sei un vecchio, Jadhima’, sibilo, rivolgendomi al re dei Tanukh.

    Per un attimo sembra non riconoscermi, con la fronte solcata dalle rughe e gli occhi sfuggenti. Quando mi riconosce, rilassa i lineamenti.

    ‘E tu sarai sempre un ragazzo. Ti ricordo sulle rive dell'Eufrate nascosto tra le gonnelle di una donna. Tu non sei un uomo. Guarda la tua amata città! Guarda cos'è diventata. Piena di logore puttane e uomini che pregano di non dover impugnare una spada. Testardi idioti’.

    Le parole di Jadhima non hanno effetto su di me. La sua lingua ne ha formulate di peggiori. Dietro di lui, Vaballato è inginocchiato nella polvere, con la testa china e i capelli lucidi di sudore, mentre sanguina sulla sabbia.

    ‘Legatelo’, ordino, riferendomi a Jadhima.

    Lo supero dirigendomi da Vaballato. Rinfodero la spada, ancora insanguinata, e mi inginocchio. Conosco questo suolo polveroso, queste mura, come casa. Li riconosco ancora.

    Vaballato geme.

    ‘Avresti dovuto ascoltarmi’, dico. Non credo che la sua ferita sia troppo grave finché non gli sposto la mano che tiene sul ventre e vedo, tra le pieghe dell'armatura in pelle, le budella che si fanno strada per uscire, mentre il sangue sta già guizzando.

    Mugugna e cade all'indietro. Premo la mano sulla sua ferita tentando di arrestare il flusso.

    ‘Bamdad! BAMDAD!’

    Si trova già al mio fianco.

    ‘Maledetto’, dico. ‘Per gli dei, che hai combinato, Vaballato?’

    Gli roteano gli occhi, le palpebre tremolano e le labbra sono pallide.

    ‘Non posso già morire’, bisbiglia.

    ‘Comandante, dov'è il tuo medico?’ Grida Bamdad.

    ‘Sta arrivando’.

    Il corpo di Vaballato si fa debole sotto i miei palmi, immobile e più quieto che durante il sonno.

    ‘Non andare. Non ancora’, dico. Gli ho voluto bene da quando era un ragazzino, vincolato dalla promessa di tenerlo al sicuro, ma la verità è che ho paura della sua morte. Del mio fallimento.

    Dietro di me, con i polsi legati dietro la schiena e fissati a un pilastro, Jadhima ride, barbaro e malvagio.

    ‘Non c'è mai fine. Tu ed io, Zabdas, avremo sempre una vendetta da riscuotere. La ruota della Fortuna. Ci sarà sempre una vita in debito tra di noi; gli dei stanno ridendo’.

    Le sue parole non hanno effetto su di me. Sono perso, i ricordi che corrono tra gli anni, sfiorando la storia, rivivendo i momenti che ho conosciuto. Non posso sopportare quel momento, ma lo vivo comunque.

    ‘Se n'è andato’, bisbiglio.

    Bamdad mi afferra per la spalla, si china in avanti e chiude gli occhi aperti a metà di Vaballato.

    ‘E un grande guerriero si unisce a molti altri nell'aldilà’.

    Annuisco. Bamdad ha ragione. Raggiunge suo padre, mia figlia e molte altre anime che lo riconosceranno.

    Mi alzo. Oltre le mura odo le grida e le strilla, il ruggito del mio esercito che massacra gli uomini di Jadhima, ubriachi di vino e idromele di Palmira. Per un attimo ascolto quel suono, gustandomi la consapevolezza del fatto che la città non verrà saccheggiata; che Palmira resisterà, sebbene sia l'ombra di ciò che è stata un tempo. Ma resiste comunque, proteggendo la gente all'interno, tenendo al sicuro il cuore della Siria.

    ‘Gli dei hanno riso a lungo’, dico, rivolgendomi a Jadhima. ‘Ma ora ridono con me. Oggi sei tu a divertirli.’

    ‘Non credo in nessun dio’, ribatte lui.

    La sua sudicia barba arruffata gli pende sul petto. Un rivolo di sangue gli scende sulla fronte, misto a sudore, sudiciume ed espressioni di sfida.

    ‘Hai perseguitato a lungo questa città’, dico. ‘Basta. È ora di farla finita’.

    Sfodero la spada. Jadhima snuda i denti gialli ed emette un sibilo di disprezzo. E con un deciso colpo della mia spada, gli taglio la gola e il sangue scorre sulla barba e a terra. Il sibilo si trasforma in un gorgoglio strozzato.

    Il mio ultimo nemico è morto.

    CAPITOLO 1

    Samira - 290 d.C.(Oggi)

    Ho trascorso due giorni a Palmira. Il trambusto della città è molto più rumoroso e frenetico di quello di casa mia, a Tripoli. La città è in rovina, com'ero stata portata a credere, con le mura prive di pietre e le difese allo sfacelo; le abitazioni in alcuni punti sono state frettolosamente ricostruite, in altri sono poco più che impronte di ciò che devono essere state.

    Ho viaggiato in cammello con Bamdad, un uomo di mio nonno, attraverso il deserto, arrancando per tutto il tempo nell'entroterra. Ora mi trovo in casa del comandante, aspettando di parlare con mio nonno. Guardo la moglie del comandante, con un'alta acconciatura, gli occhi neri di kohl e i gioielli pendenti da polsi, collo, capelli e orecchie. E penso a quanto io debba apparire spoglia. Senza gioielli di alcuni tipo, gli abiti di viaggio luridi, i capelli flosci e scarmigliati, che mi pendono sulle spalle come quelli di qualsiasi altra ragazza a Tripoli. Ma qui non è così. Qui le donne ostentano un'impetuosa dignità, il mento sollevato e un occhio imperturbabile, a causa di una storia che non riesco a ricordare. O forse segretamente pensano di essere ancora superiori rispetto a coloro che si trovano al di fuori delle mura cadenti della città...

    Bamdad siede insieme a me, con espressione austera. È vecchio, molto vecchio, e credo che i tratti del suo viso lo rendano ancora più austero, sempre scontroso, ma lo conosco da sempre e l'ho visto sorridere.

    Do un colpetto a Bamdad con il piede.

    ‘Per quanto dobbiamo aspettare?’ Bisbiglio.

    ‘Tre lune piene’, risponde.

    ‘Molto divertente’, dico, alzando gli occhi al cielo.

    Potrei andarti a prendere un rompicapo. O una bambola?’ Il suo tono di voce è pungente. Non sorride, ma i suoi occhi sono luminosi e pieni di spirito.

    ‘Ho sentito dire che hai una bambola tutta tua, che porti a letto con te ogni sera’, continuo, sporgendomi verso di lui dal mio divano, con le sopracciglia sollevate. ‘È vero?’

    ‘Chi ha spifferato il segreto?’

    ‘Ti ho visto mentre le pettinavi i capelli’, lo prendo in giro.

    ‘Taglierò i tuoi se apri ancora bocca.’

    ‘Non credo’, rido.

    ‘Dei capelli così lunghi varranno un bel gruzzolo’, sogghigna.

    Ah, ed eccolo qui, il familiare sogghigno del guerriero più amato da mio nonno.

    ‘Dov'è mio padre?’ Domando.

    Il sorriso scompare dal

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1