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Il secolo d'oro del Rinascimento
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E-book1.266 pagine16 ore

Il secolo d'oro del Rinascimento

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Info su questo ebook

Un viaggio affascinante nell’epoca che rivoluzionò l’arte, la filosofia, la storia

Il Rinascimento fu un periodo di vera e propria “rifioritura” culturale e scientifica che coinvolse tutte le classi sociali e ogni settore della conoscenza e dell’esperienza umana. Non tralasciando di considerare quella fase di profondo rinnovamento, nota come Umanesimo, alla quale si deve la riscoperta della letteratura antica, della lingua latina e del mondo classico in genere, questo libro si concentra però sul “secolo d’oro” del Rinascimento, che si può collocare tra i decenni centrali del XV¬ secolo e la metà circa del XVI¬, quando l’uomo riesce a toccare vette sublimi in ogni ambito della cultura, dell’arte, del pensiero. È il secolo in cui si affermano l’arte di Raffaello, Michelangelo, Piero della Francesca e Vasari; l’architettura di Brunelleschi, Alberti e Francesco di Giorgio Martini; la letteratura di Biondo, Bembo, Ariosto; e la nuova scienza di Leonardo. Figura centrale in questo periodo sarà Lorenzo de’ Medici, vero e proprio “ago della bilancia” del mondo rinascimentale, in grado di sostenere un processo inarrestabile di “liberalizzazione” della cultura e delle arti. Un secolo fondamentale per la storia europea che, rivoluzionando l’idea di uomo e delle sue possibilità, ha condizionato il pensiero e il modus vivendi dell’Occidente.

Da Raffaello a Michelangelo, da Leonardo da Vinci a Lorenzo il Magnifico. Più che un saggio, un’opera d’arte.

Può un singolo secolo di storia racchiudere la massima espressione di cultura, arte e pensiero?

Tra i grandi momenti raccontati:

• il risveglio dell’antichità: l’Umanesimo o “primo Rinascimento”
• l’apogeo del Rinascimento
• la letteratura e la politica
• l’arte e l’architettura
• il ruolo della Chiesa
• la scoperta di nuovi mondi
• società ed economia
• la riforma protestante
• Carlo V e il declino del modello imperiale
Andrea Antonioli
archeologo, storico e museologo romagnolo, è esperto di etruscologia e civiltà protostoriche e ha condotto ricerche specifiche sul Medioevo e sul Rinascimento. Ha progettato e coordinato l’allestimento del Museo Renzi, del quale è direttore, e organizza e cura mostre, convegni ed eventi culturali. È membro fondatore e presidente del Centro Studi Ramberto Malatesta. Pensiero arte e storia nel Rinascimento, coordinatore del Centro Studi per la Valorizzazione Storica e Culturale delle valli dell’Uso e del Rubicone e presidente di Accademia Tages. Collabora con importanti istituzioni culturali ed è autore e curatore di articoli, guide e saggi, tra cui: Gli Etruschi in Romagna (2006); Il Museo Renzi di San Giovanni in Galilea. La collezione archeologica (2009); Alle origini della civiltà etrusca (2009); Guida al Museo Renzi di S. Giovanni in Galilea (2012); Vecchi combattenti, giovani ricordi. Piccole storie romagnole nella grande storia (2013); Ramberto Malatesta. Mente sublime & Anima oscura (2014); Il Museo e Biblioteca «Don Francesco Renzi». Storia personaggi avvenimenti (2015); Garibaldi nelle terre del Rubicone (2016); Borghi: tre Comunità, un unico destino (2016); Una rosa per Anita. Il tributo della Romagna ad Anita Garibaldi (2017).
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2017
ISBN9788822715203
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    Anteprima del libro

    Il secolo d'oro del Rinascimento - andrea antonioli

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Prefazione

    Introduzione. Per un approccio al mondo del Rinascimento

    Parte prima. Il crepuscolo del Medioevo

    1. La crisi del Trecento

    2. I principati italiani e lo Stato Pontificio

    3. L’ascesa delle monarchie nazionali e la crisi dell’istituzione... imperiale

    4. Il risveglio dell’antichità: l’Umanesimo o primo Rinascimento

    Parte seconda. Il secolo d’oro in Italia

    5. L’apogeo del Rinascimento

    6. La cultura e le lettere

    7. Arte e architettura

    8. Le altre arti

    9. L’Italia nell’occhio del ciclone. Il ruolo della Chiesa

    Parte terza. Il Rinascimento in Europa

    10. I nuovi mondi

    11. Il problema morale in europa

    12. La cultura del Rinascimento in Europa

    13. Le arti nell’europa rinascimentale

    14. Stato, società ed economia nell’Europa rinascimentale

    Epilogo. Il Rinascimento oltre il Rinascimento

    I centri della cultura nel Rinascimento

    Cronologia

    Bibliografia e testi di riferimento

    Illustrazioni

    Tavole fuori testo

    em

    516

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1520-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Referenze delle immagini

    Le immagini relative ai ritratti (incisioni o disegni) dei personaggi illustrati nel volume sono tratti dalle seguenti opere:

    p. giovio, Elogia virorum literis illustrium, Basilea 1577.

    b. platina, Vite dei pontefici, Venezia 1715.

    a. capriolo, Ritratti di cento Capitani Illustri con li lor fatti in guerra brevemente scritti, intagliati da Aliprando Capriolo, Roma 1596.

    g. vasari, Le vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, 2 voll.

    Laddove è stato possibile, in didascalia sono menzionate le fonti o la provenienza delle immagini.

    L’Editore è a disposizione degli aventi diritto per le eventuali fonti iconografiche che non è stato possibile identificare.

    Andrea Antonioli

    Il secolo d'oro del Rinascimento

    Un viaggio affascinante nell'epoca che rivoluzionò l'arte, la filosofia, la storia

    omino

    Newton Compton editori

    Prefazione

    In uno dei capolavori del cinema noir di ogni epoca, The Third Man di Carol Reed (1949), il personaggio di Harry Lime, interpretato da Orson Welles, fa questa celebre affermazione:

    Come dice quel tipo, in Italia per trenta anni sotto i Borgia hanno avuto guerre, terrore, assassinii, carneficine ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto l’amore fraterno, hanno avuto cinquecento anni di democrazia e pace, e che cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù.

    Con il suo tocco geniale Orson Welles coglie un punto essenziale: seppur debolissima dal punto di vista politico, frazionata in Stati e staterelli in continua lotta, invasa a nord dai francesi e a sud dagli spagnoli, in circa trent’anni l’Italia fu capace di creare e irradiare in tutta Europa e oltre quella cultura capace di toccare vette sublimi in letteratura, in pittura, in architettura, in breve in ogni campo di attività umana. Il Rinascimento è stato l’ultimo momento storico nel quale l’Italia è stata al centro del mondo ed è stata artefice di una rivoluzione culturale che ha segnato la storia dell’umanità intera. Una cultura che è inestricabilmente connessa con l’origine dell’età moderna, deliberatamente e enfaticamente segnata da una rottura con l’epoca precedente e caratterizzata da quell’individualità che è una delle cifre universalmente riconosciute del Rinascimento.

    Un movimento culturale capace di cambiare per sempre anche la politica europea: la centralità della nozione di unicità e singolarità dell’uomo dà origine alla concezione politica dell’individuo, un nuovo tipo di essere umano o, meglio, una nuova visione dell’essere umano, ora considerato come un’entità autonoma, staccata dalla famiglia, dalla comunità di appartenenza, dalla chiesa che frequenta, dalla gilda o arte a cui è iscritto. È il Rinascimento che pone le basi per quella visione che troviamo abbozzata in Machiavelli e poi compiutamente delineata in Thomas Hobbes dell’uomo concepito politicamente come individuo e costituente il mattoncino di base della costruzione politica; non la famiglia, non la comunità, come in Aristotele e ancora nel pensiero medievale e fino al Cinquecento. Il singolo individuo, posto al centro del mondo e della costruzione politica, non è necessariamente socievole e politico per natura; l’artifizio prende così il posto della natura e lo Stato viene dipinto come costruzione dell’ingegno umano per porre rimedio alla naturale malvagità dell’individuo. Anzi, un attento cultore della storia europea come il filosofo britannico Michael Oakeshott si è spinto a sostenere che il Rinascimento dette origine a due nozioni politiche contrapposte: l’individuo e l’individuo-manqué, ossia quel tipo antropologico che non sa cosa farsene di tutta la libertà di cui ora gode e preferiva la comoda situazione precedente nella quale le scelte erano determinate dal suo ruolo e dal suo status. Alla libertà dell’uomo divinizzato di Pico della Mirandola fa da contraltare il soldato Bates di Enrico v di Shakespeare: «Sappiamo abbastanza se sappiamo di essere sudditi del Re». Oakeshott scriveva negli anni Cinquanta del Novecento, dopo la catastrofe nazista e durante la Guerra Fredda, e la sua analisi mirava a individuare il tipo umano che era stato artefice, sebbene in posizione subalterna, naturalmente, dei totalitarismi novecenteschi.

    Non solo: la nuova centralità attribuita all’individuo costituisce anche il fondamento intellettuale della Riforma protestante, da cui ha origine, sebbene mediatamente, la concezione moderna di libertà religiosa. Enfatizzando la nozione di interpretazione individuale dei testi sacri, in polemica con l’autorità dottrinale del vescovo di Roma, e difendendo l’autonomia della vita interiore dall’intrusione dello Stato, il protestantesimo contribuì a creare l’immagine dell’individuo che è alla base del moderno liberalismo.

    Andrea Antonioli prende per mano il lettore e, con il passo del conoscitore, lo conduce attraverso quella caleidoscopica civiltà che è stata il Rinascimento. Lo fa partendo dalle sue radici storiche nell’Umanesimo, discutendo il significato del termine, prendendo in considerazione i grandi interpreti che hanno contribuito a dare un significato a questa espressione. Lui ci ricorda così che fu il pittore e storico dell’arte Giorgio Vasari a coniare il termine Rinascimento nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori (1550). In seguito, autori come Michelet e Burckhardt ci hanno donato pagine memorabili sulla cultura e gli ideali del Rinascimento ma, come tutte le grandi interpretazioni, le loro visioni devono essere contestualizzate in una Wirkungsgeschichte della cultura rinascimentale. La loro netta demarcazione tra Medioevo e Rinascimento, la loro esaltazione dell’individualismo della nuova epoca e del suo ideale dell’uomo completo, hanno poi ceduto il posto a interpretazioni che hanno invece a tal punto evidenziato la contiguità tra le due epoche da rendere difficile coglierne le specificità. L’interpretazione di Antonioli, senza mirare a essere ecumenica, riesce a situarsi in una posizione mediana che evidenzia l’indubbia originalità del Rinascimento rispetto all’epoca precedente ma ne coglie il formarsi da elementi già preesistenti nell’Umanesimo. Questa corrente di pensiero, anch’essa di portata europea, aveva proposto una lettura filologica dei classici, greci e latini, che ne aveva enfatizzato la distanza con i valori e gli ideali dell’epoca; e aveva riproposto quell’immagine dell’uomo e quell’ideale di humanitas che gli umanisti ritrovavano in autori quali Cicerone, Virgilio e Seneca. Una humanitas che era in parte frutto della privilegiata condizione dell’uomo come creatura di Dio e in parte frutto dell’educazione e dei suoi sforzi per elevarsi al di sopra della propria parte animale, come apprendiamo magistralmente dal De hominis dignitate (1496) di Giovanni Pico della Mirandola. Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), poi, gli studiosi bizantini in fuga portarono con sé un tesoro di classici greci che, presentati in nuove accurate traduzioni in latino ciceroniano come quelle di Leonardo Bruni e Lorenzo Valla, immisero nuovamente nella cultura europea i grandi filosofi greci.

    Agli esaltatori dell’unicità e completezza dell’uomo rinascimentale Antonioli ricorda che la vera diversità tra Medioevo e Rinascimento si gioca sulla contrapposizione tra trascendenza medievale e immanenza rinascimentale, che concerne sia l’uomo sia la natura, ora posti al centro del mondo. Paradossalmente, tuttavia, accentuando il ruolo dell’uomo come indagatore e scopritore delle leggi della natura, il Rinascimento ha posto le basi per il superamento della posizione privilegiata dell’uomo nell’universo: le osservazioni di Galileo e Copernico hanno rimosso l’uomo dal suo posto di centro e culmine della creazione; e saranno altri due scienziati e umanisti come Charles Darwin e Sigmund Freud a continuare la loro opera di smantellamento del piedistallo su cui si ergeva l’umanità, mostrando, da un lato, che la razza umana non detiene alcuna posizione privilegiata e unica tra le specie, dall’altro, che esistono tanti fenomeni che sfuggono alla nostra conoscenza razionale e alla nostra coscienza.

    Il libro di Antonioli ci ricorda che il Rinascimento è stato anche un periodo di vera e propria rinascita, in ogni aspetto, per l’Europa dopo il Trecento, uno dei secoli più difficili, segnato dalla peste (che uccise un terzo della popolazione europea), dall’abbandono delle campagne, dalla carestia e dal crollo delle arti e mestieri. Dopo il secolo nero si assiste così a una rinascita politica e spirituale, con il rafforzamento del papato e la progressiva creazione degli Stati nazionali, unitamente a una ripresa economica e commerciale accompagnata da stabilità finanziaria. Antonioli ci conduce con garbo nelle città e nelle corti italiane, negli intrighi di diete e concili internazionali, esamina aspetti materiali e spirituali dell’epoca al tramonto e di quella che la sta per soppiantare; ci presenta vividamente autori complessi come Petrarca, il primo uomo moderno, o poliedrici come Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci; ci mostra la novità rivoluzionaria di Giotto che, dopo mille anni, riscopre l’arte di creare l’illusione della profondità su di una superficie piatta; ci fa quasi toccare con mano la grandiosa innovazione di Brunelleschi, fondata sulla conoscenza delle tecniche di costruzione romana, che sancisce il passaggio dall’architettura gotica a quella rinascimentale; ci trasmette il fervore nella ricerca di manoscritti da parte di umanisti come Poggio Bracciolini, sempre pronto a trasformare un impegno diplomatico in un’occasione per rovistare nelle biblioteche di qualche monastero: e con che frutti!

    Assistiamo così alla nascita del modello dell’università, che a partire da Bologna (1088) si trasmette in tutta Europa, caratterizzata dalla difficile coesistenza di autorità dei maestri, libertà di indagine degli studiosi e pretese dottrinali della Chiesa, nonché dalla doppia e conflittuale obbligazione degli studenti verso il comune e verso l’università. Assistiamo alla fondazione dell’Accademia platonica fiorentina (1462) che, sotto la guida di Marsilio Ficino, lasciò una traccia indelebile nella vita culturale e politica di Firenze e dell’Italia intera: la sua commistione di platonismo e cristianesimo, l’idealizzazione di un principe (in questo caso Lorenzo de’ Medici) che unisse sapere e potere alla maniera del filosofo platonico, contribuirono a rendere centrale l’ideale del principe perfettamente virtuoso e della docta religio. Incontriamo personaggi celebri come Leonardo o meno noti, ma non meno intriganti, come il suo coetaneo e collaboratore in molte imprese, il matematico Luca Pacioli, o Ramberto Malatesta, autore tra l’altro di un corposo oroscopo per Francesco Guicciardini che compendiava la sapienza astrologica dell’epoca. Osserviamo lo svilupparsi della scienza moderna e il suo lungo coesistere con l’astrologia, che proprio nel Rinascimento conobbe il suo momento di più grande fulgore. Tutto questo solo per citare una minima parte di questo ricchissimo volume che, inoltre, ha una visione europea, proprio come europea è stata la diffusione della cultura del Rinascimento e dei suoi ideali.

    Antonioli percepisce il tramontare del Rinascimento già verso la fine del Cinquecento, allorché, soprattutto in autori francesi come Le Roy, Pasquier e Montaigne, comincia a serpeggiare l’idea di una stanchezza dei tempi e una sensazione di declino rispetto all’età precedente. Poco tempo dopo, in ogni caso, nelle opere di Galileo e Cartesio troviamo una deliberata volontà di andare oltre gli antichi nella consapevolezza di essere loro successori, se non addirittura loro superiori; la ricerca delle leggi della natura, condotta con metodo quantitativo, sostituisce la ricerca qualitativa delle essenze delle cose. Con la fine del mito del primato degli antichi ha termine il Rinascimento e nasce una nuova epoca. Antonioli mostra, tuttavia, come l’influsso delle idee del Rinascimento e, in particolare, l’immagine dell’uomo e l’ideale di humanitas da esso trasmesso, vadano ben oltre la fine del xvi secolo e siano presenti nella cultura europea fino alla fine del Settecento, fino alla Rivoluzione francese e americana, i cui esponenti trovarono ideali di comportamento politico nelle virtù repubblicane dell’antica Sparta e Roma. Antonioli si spinge ad affermare, con ragione, che l’ideale umanistico e rinascimentale è presente anche in pensatori inglesi dell’età vittoriana come John Stuart Mill, Walter Pater e Matthew Arnold; e perfino nel Novecento in autori come il grande storico e filosofo della storia Arnold J. Toynbee: tutta rinascimentale è infatti l’impostazione della sua imponente opera, in dodici volumi, A Study of History (1934-1961).

    È ironico, sottolinea Antonioli, che nel campo delle arti la fine del Rinascimento giunga con quel movimento di avanguardia e rinnovamento in tutti i campi che è il Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti: un ideale di rinnovamento soppiantato da un altro, analogo, ideale, entrambi con una matrice tutta italiana. Antonioli conclude che in realtà il Rinascimento è vivo e vicino a noi oggi più che mai, grazie alla fotografia e, in generale, ai mezzi di comunicazione di massa e ai social media che ci consentono di vedere e apprezzare i monumenti del Rinascimento senza neppure muoverci da casa.

    Nell’Epilogo Antonioli definisce il Rinascimento «il mito costitutivo del mondo moderno, con tutte le sue luci e le sue ombre». È veramente una definizione che coglie tanti aspetti di quest’epoca e di questa civiltà che, come ci ricorda l’autore, è diventata una categoria metastorica con la quale noi, come tanti altri interpreti di epoche precedenti, ci misuriamo. E ora sta al lettore che ha in mano questo libro dare un giudizio e prendere posizione.

    Giovanni Giorgini*

    Princeton University e Università di Bologna

    Introduzione. Per un approccio al mondo del Rinascimento

    Che cos’è il Rinascimento?

    Qual è stata la vera svolta culturale e civile che l’ha determinato?

    Che cosa ha prodotto?

    In che cosa è consistito il cambiamento?

    Quanti si sono fatti domande come queste o simili a queste, nel momento in cui, presi da una legittima curiosità hanno cercato di saperne di più su Lorenzo de’ Medici, o su Leonardo, Michelangelo, o sull’Ariosto, sul Machiavelli? Ovvero hanno desiderato leggere qualcosa sulle corti italiane del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, sulle scoperte geografiche o sul periodo delle grandi riforme religiose, incontrando questa locuzione senza tuttavia poter disporre di un quadro d’insieme che illustri con chiarezza un fenomeno che da cinque secoli è oggetto di interpretazioni e di accese discussioni da parte di studiosi ed esperti di tutto il mondo? E quante volte sentiamo menzionare il termine Rinascimento nel momento in cui stiamo guardando un programma televisivo o quando visitiamo una delle splendide chiese o ammiriamo l’architettura di un palazzo passeggiando per città come Firenze, Urbino, Mantova, Roma…?

    Alcuni studiosi che se ne sono occupati a partire dalla metà dell’Ottocento hanno cominciato a capire che Rinascimento è una parola potente e ambigua. Qual è, allora, l’etimologia di questo termine così diffuso quanto discusso?

    Le sue origini vanno ricercate nel latino renascentia, usato assai di frequente dagli autori umanistici del Quattrocento, donde poi il francese Reinassance, passato anche alle altre principali lingue europee. Tale termine e l’immagine ideale del periodo che esso definisce è frutto della storiografia ottocentesca: in particolare la paternità della definizione può essere attribuita allo storico francese Jules Michelet (Histoire de France, voll. ix, 1855) che ne fece uso per definire la «scoperta del mondo e dell’uomo» che ebbe luogo nel xv secolo, lui che ebbe ad affermare che «l’histoire est une résurrection», mentre anche Georg Voigt ne fu un artefice (Die Wiederbelebung des klassischen Altertums, 1859). Furono le loro opere a consacrarlo sostituendolo definitivamente al termine Risorgimento che era stato spesso adoperato dai navigati storici italiani.

    Il concetto di rinascita era stato tuttavia coniato per la prima volta da Giorgio Vasari (Vite de più eccellenti pittori scultori ed architettori, 1550), per indicare un ciclo, da lui individuato, che partendo da Giotto e affermandosi con Masaccio, Donatello e Brunelleschi si liberava dalle forme greco-bizantine per tornare a quelle romano-latine e culminava nella figura di Michelangelo, capace di superare gli antichi stessi. Ancor prima, erano stati alcuni stessi umanisti a orientarsi verso questo concetto, con forza e persino con una certa vena polemica. Basta leggere le pagine di Leonardo Bruni e di Vespasiano da Bisticci, di Leon Battista Alberti e di Enea Silvio Piccolomini per trovarsi già di fronte alcuni essenziali incunaboli del mito. Ma pochi documenti raggiungono, su questi temi, l’efficacia di una, tra le divine lettere, scritta da Marsilio Ficino a Paolo da Middelburg nel 1484:

    Se dunque c’è un’età che dobbiamo chiamare d’oro, essa è senza dubbio quella che produce dovunque ingegni d’oro. E che tale sia questo nostro secolo non metterà in dubbio chi vorrà prendere in considerazione i mirabili suoi ritrovati. Questo secolo, infatti, come aureo, ha riportato alla luce le arti liberali già quasi scomparse, la grammatica, la poesia, l’oratoria, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica e l’antico suono della lira Irfica. E ciò a Firenze. E, cosa che presso gli antichi era celebrata, ma era ormai quasi scomparsa, ha congiunto la sapienza con l’eloquenza, la prudenza con l’arte della guerra. E questo ha mostrato, quasi in Pallade, in Federigo Duca di Urbino, della cui virtù fece eredi il figlio e il fratello. In te, o mio Paolo, sembra aver portato a perfezione l’astronomia; in Firenze ha richiamato alla luce la sapienza platonica; in Germania, al tempo nostro, sono stati trovati gli strumenti per stampare i libri.

    In queste righe sembra davvero esserci proprio tutto ciò che Rinascimento, come ricettacolo, può contenere.

    Fu tuttavia lo storico svizzero Jacob Burckhardt, dopo il Michelet, ad ampliare il concetto con l’espressione «cultura del Rinascimento», entrata nell’uso per descrivere l’epoca in cui sarebbero venute alla luce l’umanità e la coscienza moderne dopo un lungo periodo di decadimento (Die Kultur der Renaissance in Italien, 1860). Nell’atteggiamento di Burckhardt si nota senz’altro l’eco dei giudizi dispregiativi espressi dai rinascimentali nei confronti del Medioevo, termine quest’ultimo coniato proprio in età umanistica dal forlivese Flavio Biondo per indicare un periodo buio e oscuro che lui pensò di contrapporre, enfaticamente, al suo contemporaneo che sarebbe stato caratterizzato invece dalla ripresa degli studi sulla letteratura e la cultura della Grecia e di Roma antica. Allo stesso modo Burckhardt sosteneva la tesi della discontinuità rispetto al Medioevo, sottolineando come l’uomo medievale non avesse nessun valore se non come membro di una collettività o di un ordine, mentre solo nel Rinascimento avrebbe preso avvio, in Italia, un atteggiamento segnato dalla nascita delle signorie e dei principati, più libero e individualistico da parte dell’uomo nei confronti della politica e della vita in generale.

    Lo studioso svizzero fu quindi propenso a definire i due periodi rispettivamente con tre aggettivi, per cui il Medioevo sarebbe stato trascendentista, teocentrico, universalista, e il Rinascimento, invece, immanentista, antropocentrico, particolarista. Per lui il Rinascimento rappresenta davvero l’inizio della storia moderna, contrassegnata dall’individualismo, dalla scoperta dell’uomo e della natura, dalla liberazione della religione e della morale da vincoli dogmatici e chiesastici, dalla creazione di un nuovo senso della bellezza ispirata all’arte classica, e costituisce altresì un’epoca coerente e armoniosa in tutte le sue manifestazioni. Lo si evince da quello che lui stesso scrisse nel suo trattato, che ancor oggi raccoglie un largo seguito:

    L’Italia è la prima a squarciar questo velo [intessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni] e a trattare lo Stato e, in genere tutte le cose terrene, da un punto di vista oggettivo; ma al tempo stesso si risveglia potente nell’italiano il sentimento del soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo spirituale, e come tale si afferma.

    Secondo Burckhardt, la nuova percezione dell’uomo e del mondo che gli sta intorno sarebbe stata molto diversa da quella dei secoli precedenti. Il singolo individuo era ormai visto come un soggetto unico in tutto il Creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali poter vincere la fortuna (nel senso latino di sorte) e dominare la natura modificandola. Celebre in questo senso è l’affermazione attinta dal mondo classico «Homo faber ipsius fortunae» («L’uomo è artefice della propria sorte»), che venne ripresa anche nell’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola, una sorta di manifesto del pensiero dell’epoca dove l’uomo è presentato come «libero e sovrano artefice di se stesso», con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo. L’uomo tipico del Rinascimento doveva apparire a Burckhardt come un individuo sfrenato e orgoglioso, irreligioso e amorale e, per tali esemplari di strapotente individualità, di umanità superiore nel bene e nel male, non sapeva nascondere una sua estetica ammirazione. Come ha scritto Ágnes Heller: «A un momento statico era succeduto un momento dinamico. L’uomo nuovo, l’uomo moderno era così un uomo che si veniva facendo, che si costruiva e che era cosciente di questo suo farsi: era, appunto, l’uomo del Rinascimento» (L’uomo del Rinascimento, 1977).

    E in effetti uno dei caratteri salienti del Rinascimento fu senza dubbio la frequenza di personalità non comuni che cercavano di realizzare in se medesime l’immagine di questo uomo universale già teorizzato dai filosofi. L’uomo che sa tutto, che fa tutto, che può tutto, che è tutto – che è un microcosmo in cui si riassume il macrocosmo – incarnato da personaggi d’eccezione: Leon Battista Alberti, matematico, scrittore, architetto; Leonardo da Vinci, tecnico e artista, filosofo, scienziato, scrittore; Lorenzo de’ Medici, signore geniale e abile politico, poeta non comune; Michelangelo, scultore, pittore, architetto eccezionale, scrittore di versi indimenticabili.

    Lo stesso Burckhardt, la cui concezione del termine oggi è ancora estremamente influente, sosteneva che la riscoperta dell’antichità non sarebbe stata di per sé sufficiente a dar vita al Rinascimento senza l’incontro con quello che amava definire lo spirito italiano, e che «gli Italiani furono i primi tra i moderni Europei», individuando gli incipienti segni della modernità nell’idea di Stato come opera d’arte, nel «senso moderno della gloria», nella «scoperta del mondo e dell’uomo» e soprattutto in quello che chiamava «lo svolgimento dell’individualità». Ma indubbiamente Burckhardt sottostimava la distanza culturale tra il suo tempo e il Rinascimento, perché da allora la differenza tra la cultura rinascimentale e la cultura contemporanea era diventata sempre più visibile, nonostante un costante interesse per autori come Leonardo, Michelangelo, Raffaello e Machiavelli. Così, la sua opera, pur conservando ancora oggi il merito di mostrare una civiltà con intensità e forza di suggestione, ha un valore chiaramente periodizzante nella storiografia rinascimentale: chiude cioè un periodo e ne apre un altro. Ecco dunque come è venuta diffondendosi l’idea di un periodo della Storia, non solo italiana ma europea, non ben precisato nei suoi limiti cronologici, ma caratterizzato nei suoi contenuti. Cosa poteva significare questa esortazione se non il senso compiuto di una spinta verso una compiuta rinascita, vuoi che fosse la Reinassance di Michelet o il Rinascimento di Burckhardt? Questo non significa forse che la rinascita sia stata, originariamente, programma d’azione, convinzione e lotta per l’affermazione di un’ideologia variamente articolata?

    Occorre giungere agli inizi del Novecento per registrare una forte reazione alle idee di Burckhardt, impersonata soprattutto da Konrad Burdach, il massimo sostenitore della continuità tra Medioevo e Rinascimento: «Umanesimo e Rinascimento, non c’è alcun dubbio sono concetti correlativi […] Così si potrebbe inclinare a ritenere Umanesimo e Rinascimento nomi differenti dello stesso movimento» (Dal Medioevo alla Riforma, 1913). Dunque Burdach era dell’avviso che non vi fu alcuna svolta e, se proprio si vuole parlare di rinascita, bisogna addirittura risalire all’anno Mille; i temi della Riforma luterana erano già contenuti nelle eresie medievali, tanto più che Medioevo e Rinascimento hanno una stessa fonte in comune: il mondo classico. Sostenere che il Rinascimento abbia un carattere pagano dovuto esclusivamente a una restaurazione dell’antichità, secondo l’opinione di Burdach, è un grossolano errore. Lui sosteneva persino che il Rinascimento potesse essere un’invenzione religiosa italiana e quindi da rivalutare; dunque non sarebbe esistito alcun Medioevo oscurantista, mentre l’idea di Rinascimento sarebbe da retrodatare. Questa tesi venne riconsiderata nella generazione successiva da alcuni studiosi francesi della scuola degli Annales, e divulgata in Italia dalle opere di Étienne Gilson (Filosofia medievale ed umanesimo, 1932). In ogni caso, allo studioso tedesco deve essere assegnato il merito di aver avviato quel processo di ripensamento critico che approderà alla definizione di Rinascimento come categoria pseudo-storica.

    Burdach rese altresì una delle più squisite immagini quando volle postulare:

    Il Rinascimento è piuttosto una rivoluzione spirituale derivata da motivi psichici generali ed ha di conseguenza la sua prima, più completa, più duratura e più ampia espressione nella parola artisticamente formulata, nella lingua artistica letterario-oratoria, in un simbolismo dell’intuizione spirituale e sensibile che trasformò la tradizione medievale, ma la propria fonte della sua forza sta in una fede religiosa nella bellezza divina del mondo e della vita, in una spinta alla personalità, che sente come proprio fine supremo un nuovo ordinamento nazionale, etico, sociale (Riforma, Rinascimento, Umanesimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderna, 1935).

    Diverse furono, successivamente, le interpretazioni fornite del Rinascimento e sempre particolarmente dibattuta è rimasta la questione se esso sia da considerare come un momento di rottura o, viceversa, come una fase di proseguimento rispetto al Medioevo. Naturalmente i cambiamenti non dovettero avvenire di punto in bianco e il retaggio medievale in generale non venne abbandonato. Che la fortuna del concetto di Rinascimento sia sempre stata legata ai diversi momenti della storia della cultura contemporanea e ne abbia, anzi, registrato alcuni tornanti essenziali, è convinzione ben confermata da vaste ricerche che hanno ricostruito la storia di un’idea così intrinseca al mondo intellettuale da cui è scaturita. Dagli studi pionieristici di Henri Goetz, Cesare Brandi ed Ernst Borinski, alle notissime pagine di Ernst Troeltsch e Johan Huizinga, dalle indagini di Federico Chabod, Delio Cantimori ed Eugenio Garin, sino ai lavori d’insieme di Wallace Klippert Ferguson, Henk Schulte Nordholt ed Herman Baeyens e, poi, a contributi più recenti come quelli di Michele Ciliberto, questa ricostruzione ha anzi rappresentato un capitolo particolarmente importante della storia della stessa cultura umanistica e, poi, dell’Illuminismo e delle correnti storiografiche e filosofiche, tra l’età romantica e i nostri giorni.

    Quando si parla di Rinascimento non è pertanto facile stabilirne una precisa data di inizio e nemmeno una data conclusiva, che in verità sono soggette a varianti e aggiustamenti a seconda delle discipline che lo interessano: per alcuni storici rappresenta un evento, per altri un periodo, per altri ancora un gruppo o un movimento. Un notevole rinnovamento culturale e scientifico si era manifestato già negli ultimi decenni del xiv secolo e potenziato nei primi del xv, principalmente a Firenze.

    Da qui, tramite gli spostamenti degli intellettuali e degli artisti, il linguaggio conobbe un fenomeno di esportazione nel resto d’Italia, soprattutto a Venezia e Roma, ma anche a Ferrara, Urbino, Siena, Padova, Perugia, Vicenza, Verona, Mantova, Milano e Napoli; da quest’ultima città, poi, attorno alla metà del Quattrocento, le forme rinascimentali peculiari vennero esportate nella penisola iberica, quindi, nel corso del xvi secolo, nel resto d’Europa. Ovviamente una tale diffusione registrò ampie differenze da disciplina a disciplina e da zona a zona e fu percepita e vissuta dalla maggior parte dei suoi stessi protagonisti come un’età di cambiamento, nella quale stava maturando un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi, sviluppando le idee dell’Umanesimo, nato in ambito letterario nel xiv secolo per il rinnovato interesse degli studi classici ad opera soprattutto di Francesco Petrarca: cosa che finì con l’influenzare per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità dell’uomo occidentale.

    Il Rinascimento fiorentino ebbe la sua prima crisi dopo la morte di Lorenzo il Magnifico avvenuta nel 1492 – punto di riferimento cronologico nodale adottato da molti studiosi per sottolineare un momento, peraltro evidente, di rottura, non soltanto culturale: con la presa di potere da parte di Girolamo Savonarola, se da un lato si istituì una repubblica teocratica mirante a colpire gli aspetti più paganeggianti e lussuriosi sul Rinascimento, dall’altra venne innescato un processo di ripensamento e rinnovamento della tradizione religiosa, destinata a durare ben oltre l’esecuzione del frate sul rogo nel 1498. Non è un caso, dunque, che il 1492 sia ritenuto da alcuni come anno di origine dello stesso Rinascimento, non soltanto per la morte di Lorenzo, ma anche perché coincide con la scoperta dell’America. Secondo altri, come il filosofo gallese Bertrand Russell, la sua conclusione va posta il 6 maggio 1527, quando le truppe spagnole e tedesche saccheggiarono Roma. Tuttavia, per la maggior parte degli storici dell’arte e della letteratura, il passaggio dal Rinascimento al successivo periodo del Manierismo è avvenuto dopo i primi decenni del xvi secolo.

    Un’altra linea di interpretazione – in verità generica ma sostanzialmente efficace – indica come il Rinascimento si sia formato nelle città-Stato italiane nel Quattrocento e si sia sviluppato in Europa tra la fine del xv e per tutto o quasi il xvi secolo; dunque sarebbe da intendersi – come è già stato detto – più come movimento globale che come periodo storico.

    Gli eventi sono infatti da interpretarsi più come fenomeni culturali per la pubblicazione di testi letterari e filosofici e la realizzazione di opere d’arte, mentre gli avvenimenti politici e militari costituiscono semplicemente uno sfondo orientativo rispetto agli straordinari movimenti culturali che permettono di leggere l’epoca rinascimentale come una direzione intrapresa dal punto di vista della mentalità. Ecco perché i limiti cronologici appaiono sfumati, da cogliere cioè tra le righe delle vicende di scrittori e artisti; almeno dai decenni centrali del Trecento, quando la nuova cultura muove i primi passi coesistendo con la tradizione medievale, per poi inoltrarsi fino al xvi secolo, senza soluzione di continuità, con strascichi anche nel xvii. D’altronde si è già visto col Ficino come l’idea che una nuova età e nuovi tempi fossero ormai nati circolasse già con una certa insistenza nel xv secolo.

    Difficile, quindi, il tentativo di descrivere una tendenza così durevole nel tempo come se fosse un tutt’uno, ma usare il termine per definire una fase storica, come fece Burckhardt nel caso dell’Italia, diventa virtualmente impossibile quando l’analisi si allarga sino a prendere in esame la situazione europea nel suo complesso. In alternativa, l’esempio portato da Ernst Gombrich conferisce alla definizione di Rinascimento i termini di «un movimento che ha coscienza di sé e delle proprie potenzialità». Più generica e prudente l’affermazione del romagnolo Delio Cantimori, per cui la questione del Rinascimento s’incrocia fin dal principio con quella dell’«origine dell’età moderna, cioè dell’inizio storico della società, o delle fondamenta della società alla quale noi apparteniamo nel nostro presente, o alla quale abbiamo appartenuto nel nostro immediato passato» (Studi di storia, Torino 1959, pp. 344-345). Si tratta certamente di una formulazione che rende il tema della rinascita strettamente connesso alla consapevolezza della genesi di un’età nuova, radicalmente antitetica al Medioevo.

    Alcuni decenni più tardi, la filosofa ungherese Ágnes Heller ha voluto inserire in questo aspetto le concezioni sociali marxiste indicando il Rinascimento come:

    prima tappa del lungo processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo […] l’alba del capitalismo […]» nel momento in cui proprio gli inizi di quest’ultimo disgregano il rapporto naturale fra l’individuo e la comunità, sciolgono i vincoli naturali dell’uomo con la sua famiglia, con il suo ceto, con il suo posto ottenuto già pronto nella società, sconvolgono la gerarchia e la stabilità, rendono fluidi i rapporti sociali: la disposizione delle classi e degli strati da un lato, la dislocazione degli uomini all’interno delle classi e degli strati dall’altro (L’uomo del Rinascimento, 1977).

    Più accomodante è l’interpretazione di Eugenio Garin, il quale, dopo essere stato sostenitore della tesi della discontinuità, ha rivisto il suo giudizio evidenziando anche gli aspetti di continuità rispetto al Medioevo, attestandosi su posizioni che hanno decisamente smorzato il carattere di contrapposizione tra le due epoche (La cultura del Rinascimento, 1967). Effettivamente la ripresa dei modi dell’età classica greca e romana e la rinnovata consapevolezza di discendenza e legame col mondo antico non erano una novità esclusiva del xiv secolo; anzi, nel corso del Medioevo si erano avute varie rinascite e rinascenze, come quella longobarda, quella carolingia, quella ottoniana, per non parlare poi della rinascita dell’anno Mille e del rinascimento del xii secolo. Oltretutto lo stesso Garin ha voluto precisare con estrema sottigliezza come:

    il mito rinascimentale dell’antico, proprio nell’atto in cui lo definisce nei suoi caratteri, segna la morte dell’antico. Per questo fra antichità e Medioevo non v’è rottura, o ve n’è assai meno che non fra Medioevo e Rinascimento; perché solo il Rinascimento, o meglio la filologia umanistica si è resa cosciente di una rottura che il Medioevo aveva pur maturato portandola all’esasperazione (Medioevo e Rinascimento, 1961).

    Tra gli studiosi è poi sorta una vera e propria fobia nel ritenere quanto sia pericoloso dar luogo a una periodizzazione storica, talvolta poco fedele alla realtà. Il fatto è che generando nuove periodizzazioni e, quindi, nuove posizioni storiografiche, il Rinascimento da fatto è diventato problema e, infine, si è configurato come limite da superare e oltrepassare. Come ha affermato Michele Ciliberto, la nuova relazione in cui l’età nuova si è venuta situando ha partorito un doppio effetto: da un lato ha riattualizzato il Rinascimento al di là delle tradizionali opposizioni; dall’altro ha finito con l’avviarlo a un tramonto radicale, distaccandolo dal terreno che era stato sempre e strutturalmente suo, quello della modernità (Il Rinascimento: storia di un dibattito, 1975, p. xi). Ciò significa che poco a poco – ma inesorabilmente – il Rinascimento è retrocesso sullo sfondo del moderno, nel premoderno; o è stato visto come fase propedeutica di un periodo storico in sé autonomo e autosufficiente, o è stato considerato come aspetto regressivo di un processo incentrato nella determinazione della ragione critica moderna.

    Paradossalmente, proprio nel momento più acuto del tramonto, il tema del Rinascimento è tornato a reimporsi all’attenzione in modi nuovi e originali, situandosi al centro della discussione sul moderno, senza ripiegare nella riaffermazione di vecchie opposizioni, nell’apologia dell’ideologia umanistica o in una critica distruttiva della scienza. Sporgendosi oltre l’Umanesimo – e confrontandosi dialetticamente con i principi, le strutture, le finalità della rivoluzione scientifica – ha realizzato prospettive di senso che nel tradizionale quadro critico apparivano impossibili o strutturalmente limitate. Oltre le barriere dell’erudizione e della filologia è diventato punto essenziale del dibattito teorico e storiografico contemporaneo. Nel punto massimo di crisi delle strutture moderne, il Rinascimento è riaffiorato come archetipo originario di un’idea più larga e complessa di modernità. Spezzando antichi confini esso ha ambito a orizzonti più vasti, sul piano filosofico come su quello religioso, civile, artistico, scientifico, linguistico.

    Ma è proprio questo il punto della questione: l’accezione che il Rinascimento assume considerandolo nel suo evolversi ed entro cui devono ricercarsi i veri, anzi, i reali presupposti di fatto. Quando Michelet, o Burckhardt, o gli antichi scrittori, andavano a chiarire quel mirabile rinascere o risorgere, si rivolgevano tutti, concordemente, a campi ben determinati: la positività del Rinascimento intrinseca alla sua stessa denominazione, i suoi aspetti tipici, i suoi valori, i suoi significati nel corso della civiltà moderna, vengono indicati sempre nell’ambito delle arti, delle lettere, del pensiero, dell’educazione, del costume, delle scienze, ossia in fatti di cultura. Anzi, proprio in Italia, dove prima che negli altri paesi, e in modo assai evidente, si ebbe lo sviluppo del Rinascimento, non può dirsi che al rigoglio culturale corrispondesse un momento ugualmente felice nella sfera economica o politica come era accaduto nei secoli precedenti. Mentre fiorivano pittura, architettura e scultura, mentre le produzioni letterarie si facevano sempre più raffinate, mentre si esprimevano ideali educativi di singolare altezza, tutta l’economia delle città italiane veniva scossa – anche se andrebbe valutato caso per caso nelle varie realtà territoriali. Le industrie andavano deteriorandosi e sembravano dar luogo a un ritorno all’agricoltura di carattere quasi feudale, le autonomie cittadine vacillavano, le libertà comunali scomparivano, la Chiesa conosceva una sempre più insipiente intima corruzione.

    La positività della cultura del Rinascimento non è allora – come a volte si dà per assodato – la presa di coscienza di un’età felice della vicenda umana; nato sul terreno della cultura, e soprattutto su quello dell’arte, solo su quel piano il moto rinascimentale mantiene il suo valore positivo, di conquista e di affermazione di certi valori umani, di certi progressi teorici e morali, contro una realtà che li negava, in un mondo in travaglio agitato da crisi profonde.

    Come ha voluto sottolineare ancora Garin, il Rinascimento non è il riflesso sul piano ideale di un rinascere di tutta la società, in tutti i suoi aspetti; è, al contrario, un fatto culturale di vastissima portata, i cui effetti avrebbero operato sempre più in profondità, con ripercussioni sempre più vaste, ma gradualmente, col passare del tempo. Gli ideali di vita che l’Umanesimo italiano del xv secolo affermava con tanta passione, contro un mondo che li ignorava o li respingeva, solo dopo lunghissime lotte sarebbero riusciti a determinare risultati concreti nella società. L’esperienza umanistica ebbe come caratteristica fondamentale la formazione spirituale, morale e civile dell’uomo, ottenuta con la scoperta dei classici. La filologia umanistica costituiva un esercizio atto a formare lo spirito critico, a dare il senso della dimensione storica, proprio perché gli umanisti ebbero per primi la consapevolezza del distacco dal mondo antico, inesistente nel Medioevo, a rinnovare il gusto estetico e a fondare nell’uomo il senso della vita come dimensione civile e la coscienza del possesso di tutte le facoltà poste in lui dalla natura. Per questo motivo Giovanni Gentile (Il pensiero italiano del Rinascimento, 1968) pensava di tracciare una netta cesura puntualizzando che:

    con l’Umanesimo, si comincia in Italia a staccare l’uomo dalla vita, e a trattare la vita, con tutto il suo contenuto (religione, morale, politica), con quella indifferenza che è propria dello spirito estetico. Le grandi passioni, che avevano legato gli uomini medievali alla loro fede temprandone la fibra nelle lotte religiose e sociali o civili, decadono.

    In questo senso la valorizzazione di tutte le potenzialità umane adesso si pone alla base della dignità dell’individuo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo: la ricerca del piacere e della felicità mondana non si sarebbero più sentite marchiate di colpevolezza e disonestà, ma anzi elogiate in tutte le loro forme (Lorenzo Valla, De voluptate). La dialettica assume allora un nuovo valore, così come lo scambio di opinioni e informazioni, il confronto. Non a caso la maggior parte della letteratura umanistica prende la forma di un dialogo, esplicito (come nel Secretum di Petrarca) o implicito (come nelle epistole), dove è al centro la fiducia nella parola e nella collaborazione civile, sebbene la vita associata fosse una caratteristica già presente in epoca comunale. Dunque si vede chiaramente che furono proprio gli interessi puramente umani e lo spirito civile ad animare la prima grande stagione dell’Umanesimo, soprattutto dell’Umanesimo fiorentino, e questi interessi furono il fondamento di una nuova concezione dell’uomo e della natura che da Firenze si sarebbero diffusi in Italia e, quindi, in Europa seppur con modalità ed esiti diversi.

    Detto ciò, una delle principali conseguenze della scelta di considerare il Rinascimento a livello paneuropeo sta in quell’azione che gli studiosi definiscono ricezione, intesa come processo attivo di assimilazione e trasformazione delle idee classiche o italiane e non di semplice diffusione. Alcuni, come Peter Burke (Il Rinascimento europeo. Centri e periferie, 1999), hanno prestato particolare attenzione a questo tema che li ha portati a considerare e affrontare con spirito critico altri fenomeni collaterali: i contesti, le connessioni, le reti e le situazioni locali in cui le nuove forme furono discusse e adattate; quindi le periferie dell’Europa, il tardo Rinascimento (a partire dal 1530 circa) e, infine, quella dinamica definita quotidianizzazione o addomesticamento del Rinascimento, termini complicati che vogliono mettere in luce la sua capacità di permeare progressivamente diversi aspetti della vita quotidiana.

    Infine, per quanto numerosi siano i testi editi su un argomento tanto vasto quanto complesso, non risulta certo facile comprendere ogni volta le peculiarità culturali e artistiche, come quelle civili e sociali di un periodo che copre un arco cronologico che spesso varia da testo a testo e persino da autore ad autore. Per una strana ironia, infatti, un’autentica proliferazione di studi parziali, che affolla le riviste del settore, ha reso sempre più difficile una sintesi generale. E poi quando si parla dell’importanza dell’uomo del Rinascimento molti specialisti evitano le generalizzazioni come se si trattasse della peste, in quanto questa espressione, usata e abusata, è abbastanza ambigua di per sé tanto nella letteratura che nella storiografia, come ha osservato a ragione Eugenio Garin (L’uomo del Rinascimento, 1988).

    Certamente i metodi adottati dagli studiosi che vi si sono dedicati in questi ultimi due secoli, anche se importanti dal punto di vista scientifico e intellettuale, comportano il rischio di spostare l’obiettivo e così di allontanare l’appassionato o il semplice neofita dal quadro sostanziale di interpretazione. Ma in ogni caso va sempre tenuta in considerazione questa preziosissima opera di giudizio poiché tanti instancabili studiosi si sono occupati del complesso discorso con approcci metodologici, filologici e critici, elementi che costituiscono il sale della vita intellettuale e la sostanza del pensiero che permettono all’uomo di assicurarsi una garanzia per il progresso nella comprensione e nello studio del suo io: quindi, per comprendere noi stessi.

    A prescindere dalle differenti linee di indirizzo, a questo punto è d’obbligo semplificare e ridimensionare la natura dell’approccio al problema, per ridurlo a un fenomeno che alle sue origini si affermò come un piccolo movimento, espressione delle posizioni di un ristretto gruppo di italiani, ma che si trasformò proprio in virtù della sua vasta diffusione in altri paesi e presso altri gruppi sociali. Ciò che una volta era stato un consapevole processo di innovazione divenne gradualmente parte integrante delle pratiche sociali e delle abitudini quotidiane, influenzando profondamente la mentalità, la cultura materiale e, come è stato affermato da alcune parti, la stessa percezione fisica.

    Detto ciò la semplificazione convenzionale del Rinascimento sta nella sua articolazione in due momenti non sempre chiari, ma comunque ben palesemente percepibili e pertanto distinguibili. Innanzitutto l’Umanesimo, termine di origine abbastanza recente derivante da humanista, cioè da chi professava le humanae litterae, o da studia humanitatis, ovvero da studi letterari rivolti precipuamente al perfezionamento umano e morale. Tale termine indica il profondo processo di trasformazione della cultura e dei metodi e criteri di formazione intellettuale che si sviluppò in Italia tra il tardo Trecento e il pressoché intero xv secolo, caratterizzato da studi letterari, filosofici, filologici e in particolare dall’interesse per la cultura classica greco-romana, considerata il fondamento di ogni progresso civile e spirituale dell’uomo. È questa la fase in cui si registrò la riscoperta degli scrittori classici, come Cicerone e Virgilio e degli antichi codici, intesa a promuovere un nuovo senso della vita spirituale e la dignità della condizione umana.

    Quindi, il Rinascimento vero e proprio (o cultura del Rinascimento), termine coniato, come si è visto, verso la metà del xix secolo e assegnato tradizionalmente al xvi, durante il quale il rinnovamento culturale avviato dall’Umanesimo raggiunge la sua massima espressione in Italia e in Europa. Questa fase si distingue per un più vasto respiro dei concetti umanistici e per un allargamento e approfondimento dei temi intellettuali e culturali che lo stesso Umanesimo aveva proposto. Si sviluppò così un nuovo ideale morale e una nuova filosofia (affermazione dell’individualismo; concezione naturalistica della realtà; spirito critico; discussione del principio di autorità; scienza sperimentale, ecc.); decaddero gli studi di teologia e passarono in primo piano gli interessi della vita terrena e, in genere, le attività umane; si formò una nuova idea della Storia; si rinnovarono la tecnica e le scienze; si diffuse una religiosità nuova, non propriamente in contrasto col cristianesimo, ma vissuta con una più libera e sicura fiducia nelle capacità conoscitive dello spirito e dell’intelligenza umana. Al centro del nuovo mondo c’era l’uomo inteso come microcosmo, ossia come l’essere che compendia e rispecchia in sé il tutto.

    Offerto un quadro d’insieme riguardo le interpretazioni del concetto di Rinascimento così come si è evoluto, con tutti i problemi che ne derivano, ne rimane un ultimo non meno importante e non meno difficile da affrontare che riguarda direttamente lo scopo essenziale che questo saggio si propone, quello di divulgare in maniera accessibile ed efficace gli aspetti più tipici che caratterizzarono un’epoca. Si tenterà dunque di fornire l’ampiezza temporale, nonché gli eventi, i personaggi, il pensiero e la cultura, cercando di focalizzare l’obiettivo da angolazioni dinamiche e immediate, per rivivere i momenti e le esperienze più tipiche ma anche taluni di essi inusuali, senza però tralasciare le criticità che altri aspetti implicano. D’altro canto devono essere ammessi e valutati tutti i limiti di questo lavoro che in primo luogo trovano la loro ragion d’essere nel non porsi l’ambizione di gettare nuove basi di studio o di ricerca, né la presunzione di fornire nuove metodologie di approccio all’argomento.

    La scelta di articolare il trattato in tre parti distinte ma collegate è finalizzata a orientare ciascuna nella direzione di un percorso tendenzialmente cronologico, inteso a far luce in maniera quanto più organica e lineare sugli avvenimenti che si svilupparono nell’arco di circa due secoli, con particolare riguardo alla sua fase centrale e cioè cruciale. Nella prima parte vengono affrontate le problematiche politiche, economiche e sociali degli Stati europei e italiani a partire dagli ultimi decenni del xiv secolo e nella prima metà del successivo. È da questi presupposti che prende il via il cosiddetto primo Rinascimento – con la scoperta dell’antichità (o, più precisamente, la riscoperta di alcuni frammenti dell’antichità) – il cui obiettivo si focalizza sulla letteratura umanistica e sulle novità nell’arte e nell’architettura. La parte centrale del volume si concentra sul periodo compreso tra la seconda metà del xv e la prima metà del xvi secolo: il secolo d’oro in cui si assiste a una vera e propria esplosione, un rigoglio culturale impetuoso e luminoso; un fenomeno tutto italiano, inserito per contrasto in un contesto storico e politico che vedrà, pur con rare eccezioni, gli Stati della penisola perdere la propria autonomia alla fine del xv secolo. La terza parte si pone l’obiettivo di valutare il movimento culturale e artistico del Rinascimento negli altri Stati europei – anche se in questo caso risulterà difficile mantenere un filo conduttore omogeneo e coerente – valutando il quadro storico sia alla luce delle grandi scoperte geografiche sia analizzando altri eventi non meno determinanti, quali la diffusione della Riforma protestante.

    Nell’ambito di ciascuno di questi tre nuclei di riferimento, ho creduto di poter rendere più semplice la possibilità di spaziare liberamente ma senza distaccarsi dal concetto principale del Rinascimento; l’interesse sostanziale è la centralità della storia intellettuale e culturale, dell’arte, dello sforzo di valutare l’effetto come la causa, non però come fenomeni isolati, bensì come elementi di vasta portata civile di cui furono espressione eloquente attraverso l’attuazione pratica delle idee, il mecenatismo artistico, l’interpretazione della storia, la sfida sociale lanciata dalla scienza, la rilevanza sociale della religione, della morale e delle nuove conquiste.

    Il fine, in altri termini, è quello di poter fornire uno strumento che possa guidare il lettore nel suggestivo mondo del Rinascimento, cercando di destare un interesse individuale ma cercando altresì di spingerlo verso ulteriori ambiti di approfondimento. Il volume può dunque essere consultato come un manuale, inducendo all’occorrenza il neofita a scoprire un aspetto peculiare finora ignorato addentrandovisi. L’importante sarà la consapevolezza di aver colto lo spirito di un movimento complesso e multiforme che non può essere spiegato in sé, se non attraverso la paziente divaricazione di aspetti intrinseci e di eventi di vasta e complessa portata, con l’assimilazione di processi, apporti, spunti, percezioni, finezze, estraneazioni, ma anche con l’invadenza di contaminazioni e – aspetto di grande fascino – la decodificazione di simboli facenti parte di un mondo perduto, irripetibile e tuttavia percepibile nel suo essere parte della sfera e della vita dell’uomo contemporaneo più di quel che si possa immaginare.

    Vorrei infine porgere delle scuse al paziente lettore, se in certi momenti per così dire topici, avrà l’impressione di cogliere un eccesso di zelo sia nell’ambito della trattazione che dell’esposizione. Oltretutto chi scrive non si è voluto sottrarre dal voler fornire il proprio contributo a partire da alcuni studi condotti in tempi relativamente recenti su documenti e materiali inediti relativi a personaggi e tematiche legati al pensiero rinascimentale. La conseguenza diretta è stata quella di riflessioni che hanno condotto ad alcune personali impressioni che in ogni caso si riducono a una parte assai minoritaria rispetto alla vastità del problema, pur tenendo in debita considerazione la validità delle fonti dalle quali hanno preso consistenza. Cionondimeno sono fermamente convinto che ogni contributo, benché piccolo, sia importante, così come lo è ogni profonda digressione e altresì ogni punto di vista disinteressato che può consentire di gettare lumi e tracciare persino inediti orizzonti di quel movimento irripetibile e unico che fu il Rinascimento.

    Parte prima. Il crepuscolo del Medioevo

    1. La crisi del Trecento

    1.1. La crisi agricola e le sollevazioni rurali

    Prima di affrontare il discorso della rinascita della cultura e dell’arte avvenuta in Italia tra la fine del xiv secolo e la prima metà del Quattrocento, è necessario soffermarsi sullo scenario europeo che andò delineandosi nel corso del Trecento, con non poche situazioni di criticità dovute al verificarsi della crisi socio-economica che investì le realtà cittadine degli Stati – compresi quelli italiani – e spiegare le dinamiche che portarono alla formazione di strutture statuali sia di maggiore (monarchie) che minore entità (signorie e principati). Inoltre, per comprendere meglio le dinamiche che furono alla base dell’Umanesimo prima, e della fase più matura del Rinascimento pieno poi, è sostanziale capire i processi culturali e i vari ambiti in cui essi germogliarono o si manifestarono, ovvero mettere in luce i caratteri distintivi del variegato mondo italiano caratterizzato da entità regionali che costituirono il terreno fertile di un nuovo corso, di una nuova mentalità che attecchì e prese vigore prima di diffondersi decisamente, dalla fine del xv e soprattutto dagli inizi del xvi secolo, nel vasto e distante panorama europeo.

    Il Trecento, si sa, fu un secolo di profonda crisi e depressione in tutta Europa, dovuta a molteplici fattori, mentre l’espansione economica e sociale iniziata nel secolo xi veniva messa a dura prova da diversi elementi concomitanti. Assai ricorrenti le carestie, provocate dallo squilibrio fra la popolazione e la produttività agricola, aggravate anche dall’inasprimento del clima. Molto grave fu la crisi che investì la produzione cerealicola – in particolare quella del 1315-1320 – di fronte all’avanzata di betulle, faggi, carpini, noccioli, sterpaglie, che portò a un crollo demografico, mentre la scarsità di manodopera nelle campagne ne causò l’inasprimento. In ogni modo è assodato il verificarsi di un fenomeno diffuso di abbandono di suoli coltivati che si manifestò ovunque in Europa a partire dal xiv secolo e si protrasse anche nel secolo successivo. Così, per esempio, durante il Trecento in Germania furono censite 170.000 località che alla fine dello stesso secolo si sarebbero ridotte a 130.000; quindi, oltre al verificarsi di gravi conseguenze dal punto di vista demografico, vi furono ripercussioni rilevanti anche sul piano della produzione. La marca del Brandeburgo, nel 1375, fu definita «una terra incolta e deserta». Le terre di taluni villaggi abbandonati furono trasformate in pascolo, ma anch’essi, malgrado le poche cure che richiedevano, si trasformarono rapidamente in foreste. Emblematica la vicenda delle terre di Ludolfhausen che, trasformate in pascolo durante il secolo xiv, avrebbero abbandonato anche questa funzione nel secolo successivo a causa dei lupi e dei cinghiali installatisi nel fitto delle boscaglie che le copriva ormai quasi completamente.

    L’offensiva delle foreste si registrò, seppur con minore intensità, anche in Provenza dove predominavano rovereti, querceti, ma ancor più grave era la situazione nelle campagne francesi. Un cronista contemporaneo, Thomas Basin (1412-1491), descrisse un quadro impressionante riguardo la situazione dalla Loira alla Senna e dalla Senna alla Somma, dove i contadini morivano o fuggivano e i campi venivano abbandonati nella Champagne, nella Brie, nella Beauce, nel territorio di Chartres e di Dreux e nel territorio di Caux, dalla Senna fino ad Amiens; inoltre tante altre contrade si fecero deserte, incolte, spopolate, coperte di rovi e di sterpaglia. Lo storico spagnolo Jaume Vicens i Vives era di un’esattezza perentoria quando affermava che l’agricoltura si era praticamente immobilizzata (1945).

    In Italia segni evidenti del crollo cerealicolo si verificarono dalla Lunigiana alla Maremma pontificia e in diversi luoghi della Sicilia dove i campi venivano adibiti a pascolo, mentre in Spagna la situazione non era altrettanto grave. Tuttavia qui si registrò il trionfo della grande Meseta che raggruppava le precedenti piccole mesetas. Dalla fine del xiii secolo, alcuni mercanti genovesi stabilitisi in Andalusia, convinsero i nobili grandi proprietari terrieri a importare ovini dall’Africa del Nord per acclimatarli in Spagna. L’operazione ebbe successo e il commercio della lana diventò rapidamente la colonna vertebrale dell’economia castigliana: le statistiche disponibili evidenziano un numero di pecore che quasi triplicò tra il xiv secolo e il 1467.

    Questo quadro spiega anche la caduta dei redditi con il conseguente inasprimento dei rapporti di lavoro fino all’insorgere di rivolte contadine come accadde nella Fiandra Marittima tra il 1323 e il 1328. Conseguenze molto più gravi ebbe quella della Jacquerie francese nel 1358 che, momentaneamente sostenuta dal potente prevosto Étienne Marcel (1315-1358), vide la ribellione di massa di alcune regioni della Francia settentrionale a partire dall’Île-de-France e dal Beauvais che lamentavano le devastazioni provocate dalla guerra contro l’Inghilterra. La Jacquerie nacque in un momento in cui appariva evidente a tutti che la nobiltà non era stata all’altezza del suo compito, che cioè non aveva saputo difendere la società contro i nemici stranieri e che non aveva esitato a moltiplicare a proprio vantaggio esazioni e gravami.

    Venendo all’Inghilterra, si ha notizia della ribellione dei contadini nel 1381, aggravata dall’eloquente predicatore John Ball (1338-1381), le ripercussioni della quale divamparono in due contee inglesi, l’Essex e il Kent, allargandosi poi alla città di Londra. Questi disordini si spiegano innanzitutto con le circostanze politiche: un re di quindici anni che non aveva sotto controllo il potere effettivo, una minaccia di invasione francese, l’esazione nel 1380 di un’imposta personale particolarmente oppressiva.

    In Italia, alla lunga lotta tra i tintori e i lanaioli che riesplose in alcune città del centro del paese attorno al 1370, seguì un periodo particolarmente turbolento per Firenze, dove nell’estate 1378 ci fu la rivolta dei ciompi, gli scardassatori sottoposti all’Arte della lana, finalizzata al raggiungimento di miglioramenti salariali. Si trattava di una decina di migliaia di lavoratori impiegati dalle duecentosettantanove imprese tessili della città, avaramente retribuiti per giornate lavorative da sedici a diciotto ore e per di più in preda alla sottoccupazione, oppure vittime dei centoventidue giorni festivi annuali. In seguito alla sommossa del 21 luglio, guidata da un capo operaio dell’Arte della lana, Michele di Lando (1343-1401), i ciompi s’impadronirono del palazzo del podestà ma, dopo alcune concessioni, la lotta si concluse con un insuccesso e in numerose condanne emanate dalla magistratura degli Otto di Guardia: in tutto quasi trecento, un decimo delle quali alla pena capitale.

    Nonostante la diversa situazione, anche nella penisola iberica non mancarono atti di insurrezione: in Catalogna, per esempio, a cavallo tra Tre e Quattrocento, anziché un moto breve, violento e potente, ci furono delle azioni intermittenti dei contadini servi, i remensas, in lotta contro i malos usos. L’effetto del contagio registrato da questo generale malcontento è visibile a più riprese e soprattutto negli anni 1378-82, quando né le frontiere politiche né gli ostacoli geografici bastarono ad arrestare questa sorta di vento di fronda che soffiò allora su buona parte dell’Occidente.

    È un fatto notevole che le parole d’ordine dei contadini dell’Essex e del Kent mostrassero qualche affinità con l’ideologia adottata da una parte dei cechi una generazione più tardi. Un mercante fiorentino che a Parigi fu testimone delle rivolte, fece immediatamente un raffronto con la sollevazione dei ciompi a Firenze. L’idea che tutti gli uomini, figli di Adamo riscattati dal sangue di Gesù Cristo, fossero parte comune della medesima libertà e potessero rivendicare – malgrado e oltre l’esistenza degli ordini o degli Stati – un’eguaglianza fondamentale era a quanto pare largamente diffusa in tutta la cristianità.

    Spesso le effervescenze popolari si producevano in regioni economicamente e forse anche intellettualmente sviluppate, in seno alle grandi città o nei loro immediati dintorni. Naturalmente, le difficoltà e gli squilibri economici costituirono una causa decisiva delle sollevazioni, le quali opposero i poveri e la popolazione minuta non soltanto alla classe signorile (nobiltà e alto clero insieme), ma alla totalità dei ricchi, dei galantuomini, dei notabili. Tuttavia i miserabili, i marginali, i popolani, la gente comune ebbero spesso l’appoggio di certi membri dei ceti intermedi e persino di patrizi o di nobili mossi dall’ambizione o dalla demagogia, e da questi furono inquadrati con loro beneficio. Si trattò dunque di una coalizione complessa e fragile di interessi paralleli o divergenti, ciascuno dei quali approfittava della situazione generale per far avanzare le proprie rivendicazioni. Nessuno di questi movimenti si potrebbe dire senz’altro che ebbe successo. Talvolta si ottenne, anzi, un risultato opposto a quello voluto come accadde per la Jacquerie e per la sollevazione parigina. Le azioni di Étienne Marcel, per esempio, ebbero l’effetto di consolidare la presa della nobiltà e di rafforzare i legami tra questo ceto dominante e la monarchia dei Valois all’epoca di Carlo v. Cionondimeno, non è sicuro che i signori e gli Stati siano rimasti totalmente insensibili alla sorda opposizione dei loro sudditi e dipendenti; che lo volessero o no, era per loro conveniente tenerne conto per prevenire una nuova sollevazione aperta che un atteggiamento ispirato a una totale intransigenza avrebbe rischiato di provocare.

    1.2. I flagelli della peste e della guerra: il trionfo della morte

    A questi gravi conflitti sociali si aggiunsero anche le ricorrenti epidemie di peste che sconvolsero l’Europa fin nelle sue fibre più profonde, portate nel continente dai marinai delle navi mercantili che commerciavano con i paesi orientali. Furono favorite, oltretutto, dalle precarie condizioni ambientali e igienico-sanitarie, origine di altre malattie che a quei tempi non si potevano curare con alcun rimedio medico, anche in considerazione delle scarse conoscenze scientifiche. Gravissima l’epidemia di peste nera che scoppiò nel 1348 e si diffuse con una rapidità e una forza mai viste, nonostante i provvedimenti restrittivi di isolamento adottati dalle autorità nei vari Stati. In tre-quattro anni morirono in Europa quasi trenta milioni di persone, oltre un terzo dell’intera popolazione europea di allora; in Italia la mortalità ebbe effetti inferiori e la popolazione da circa undici milioni passò a circa otto. In seguito la peste tornò alla carica in tre successive riprese e si sarebbe accanita su quelli che non aveva raggiunto al primo assalto; così, se da un lato l’ampiezza delle brecce diminuiva (perché le file delle vittime si facevano sempre meno folte), dall’altro gli intervalli che separavano i suoi passaggi si accorciavano. Tra l’epidemia del 1369 e la successiva (e ultima) non trascorsero che sei anni anche se gli effetti di questo flagello si fecero sentire durante tutta la seconda metà del Trecento. Lo spettacolo che la grande peste aveva imposto ogni volta era troppo atroce, perché il ricordo potesse svanire rapidamente. Come scrisse lo storico francese Pierre Chaunu: «Quando la morte colpisce ad un ritmo superiore all’uno per cento al giorno, diviene impossibile seppellire […] I superstiti degli anni 1348-75 hanno necessariamente visto con i propri occhi lo spettacolo della putrefazione della carne umana rappresentato dappertutto ed a sazietà».

    Di quest’orribile visione gli europei non riuscirono più a liberarsi. Lo spettacolo della morte che falcia bambini e giovani madri, che rende vani i progetti e spezza i focolari, strappava grida di rivolta ai più sensibili, come quello che si legge nello Ackermann aus Böhmen (1400) dell’umanista boemo Giovanni di Tepl (1350-1415 ca.). Altri erano tentati di compiacersi di una sorta di fosca allegrezza dinanzi allo spettacolo della morte che calpestava i privilegi e, senza far conto alcuno della gerarchia, si portava nella tomba sia l’accattone che il sovrano. Fu forse proprio perché illustrava questa finale eguaglianza, che il tema della danza macabra divenne tanto popolare. In questo modo la morte s’impadroniva della società tutta intera. Alcuni studiosi erano convinti che il tema iconografico della danza macabra avesse avuto le sue origini in Francia, ma poi certi studiosi tedeschi ne hanno rivendicato la priorità nel loro paese. Quale che sia stata la sua patria d’origine, è comunque un fatto che questa sinistra farandola fu accolta nella maggior parte dei paesi europei, Italia eccettuata (anche se neppure il Nord della penisola poté sfuggire al fenomeno). D’altro canto,

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