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L Ottocento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 67
L Ottocento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 67
L Ottocento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 67
E-book1.161 pagine10 ore

L Ottocento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 67

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Info su questo ebook

In tutto l’ambito europeo l’Ottocento letterario si struttura cronologicamente in altrettanti periodi che hanno inizio con il romanticismo e che poi divengono il realismo, il naturalismo, e da ultimo la cosiddette “fin de siècle”, divisa tra simbolismo, decadentismo ed estetismo. Decisivo nella sua varietà di espressione è anzitutto il movimento romantico degli anni postrivoluzionari e napoleonici, con la ricerca di una nuova letteratura e di una nuova antropologia, di una visione del mondo non più subordinata agli schemi del razionalismo settecentesco e della tradizione classicista. L’ascesa della borghesia investe anche il linguaggio e l’immaginazione, mentre la vecchia “repubblica delle lettere” lascia il posto a una realtà inquieta e informe, dove lo scrittore deve riscoprire il proprio ruolo intellettuale e fare i conti con le leggi economiche del mercato, mentre il romanzo diviene una dominante del sistema letterario in trasformazione. Schlegel, Novalis, Schelling, Scott, sono solo alcuni nomi che impreziosiscono la letteratura romantica d’oltralpe e che si contrappongono al romanticismo italiano che con Foscolo e soprattutto Manzoni assumerà toni ben diversi. In questo ebook sono presentati i principali filoni della letteratura ottocentesca, che va ben oltre il romanticismo, per diramarsi nel naturalismo francese di Zola da cui germoglia il verismo verghiano, nel realismo russo con Dostoevskij e Tolstoj, e nel simbolismo francese e pascoliano che si esaurirà nel decadentismo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2014
ISBN9788897514985
L Ottocento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 67

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    Anteprima del libro

    L Ottocento - Umberto Eco

    copertina

    L'Ottocento - Letteratura e teatro

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    L'Ottocento

    Letteratura e teatro

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla letteratura dell’Ottocento

    Ezio Raimondi

    In tutto l’ambito europeo l’Ottocento letterario si struttura cronologicamente in altrettanti periodi, che hanno inizio con il romanticismo e che poi divengono il realismo, il naturalismo e da ultimo la cosiddetta fin de siècle, divisa tra simbolismo, decadentismo ed estetismo. Ma ciò che è decisivo nella sua varietà di espressione è il movimento romantico degli anni postrivoluzionari e napoleonici, con la ricerca di una nuova letteratura e di una nuova antropologia, di una visione del mondo non più subordinata agli schemi del razionalismo settecentesco e della tradizione classicistica. Anche nell’universo letterario, come in quello politico e sociale, si afferma la coscienza di una svolta, di un mutamento irreversibile rispetto al passato, persino quando si cerca di continuarlo o di restaurarlo.

    È il tempo dell’industrializzazione e dell’ascesa della borghesia e questo processo investe anche il linguaggio e l’immaginazione, mentre la vecchia repubblica delle lettere lascia il posto a una realtà inquieta e informe, dove lo scrittore deve riscoprire il proprio ruolo intellettuale e ciò che egli produce deve fare i conti con le leggi economiche del mercato.

    Ideato nell’Inghilterra secentesca per indicare la materia tratta dai romances, narrazioni di contenuto cavalleresco e fantastico, solo nella seconda metà del Settecento il termine romantico circola nella cultura per designare il mistero della natura, le fantasmagorie del paesaggio, la ricchezza fluttuante del reale. In un primo tempo, soprattutto in Francia, si preferisce parlare di pittoresco, e bisogna attendere l’inizio del nuovo secolo per incontrare una vera e propria definizione del termine che diviene il punto di riferimento costante per coloro che intraprendono il difficile cammino verso la modernità. Ed è in Germania che la nuova poetica romantica trova la sua enunciazione più sicura e ardita.

    Per August Wilhelm von Schlegel, uno dei fondatori della rivista Athenäum, romantico è tutto ciò che anima il moderno, in opposizione allo spirito classico del mondo antico e precristiano: Questo nome gli conviene senza fallo, poiché deriva da quello di lingua romanza, sotto cui si comprendono l’idiomi vulgari che nacquero dalla mescolanza del latino con li antichi dialetti germanici, in quella guisa che la nuova civiltà europea s’andò formando dalla mescolanza, in prima eterogenea, ma poi co’l tempo divenuta intima, de’ popoli del Nord con le nazioni depositarie delle preziose reliquie dell’Antichità. La civiltà antica, per lo contrario, era semplice nel suo principio. La contrapposizione riesce qui illuminante più di qualsiasi ragionamento. Da una parte il mondo omogeneo del passato; dall’altra la stratificazione delle culture che fa del romanticismo un organismo mobile ed eterogeneo, una concomitanza di opposti, una conquista faticosa del presente. Novalis, l’amico dei fratelli Wilhelm e Friedrich Schlegel, dirà a sua volta che romantico è ciò che è lontano, l’infinito dentro e fuori di noi.

    Così Stendhal, più tardi, quando non è ancora il romanziere de La Certosa di Parma e di Il rosso e il nero, pensando alla solitudine che investe lo scrittore quando la sua forza non può più rifarsi a un costume letterario tradizionale, ma va oltre le convenzioni per lanciare una sfida a tutti i modelli del passato, un gioco tra il caso e l’azzardo, scrive a sua volta che il faut du courage pour être romantique, car il faut hasarder. Siamo intorno agli anni Venti dell’Ottocento, allorché tra Francia e Italia, con un ritardo di qualche anno rispetto al mondo tedesco, rimbalza il dibattito critico sul romanticismo, e l’invito stendhaliano all’azzardo, allo scatto in avanti che produce attrito con il passato coglie esattamente il senso dell’alterità che caratterizza la nuova poetica europea.

    Va d’altro canto ricordato che il primo Ottocento è pervaso dalla percezione della discontinuità, della frattura nel corso della storia che nel giro di pochi anni ha visto succedersi la Rivoluzione francese, Napoleone, la Restaurazione e il mutamento radicale del destino di popoli e nazioni.

    Invero, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento sembra cadere la fiducia che la conoscenza del passato costituisca una guida sicura per l’interpretazione del presente, ogni volta nuovo, sensazionale e lacerante. La storia si fa problema, realtà da ricostruire e da comprendere nel profondo degli individui e dei movimenti collettivi, come insegna un pensiero liberale che ha meditato sull’evento grandioso della Rivoluzione francese. Ma, proprio nella misura in cui l’uomo avverte l’elemento drammatico della storia, la letteratura trascrive i problemi generali dell’epoca per penetrare dietro le quinte della scena pubblica e sorprendere gli uomini nel loro abito più vero e quotidiano, nel linguaggio raccolto del cuore, ossia della soggettività sempre in rapporto con altri mondi individuali. Il mistero dell’uomo rimanda a quello della società, alla sua dialettica inesorabile del potere e della violenza, del disordine e della giustizia.

    La dissoluzione del sistema classico

    Senza dubbio l’imporsi all’attenzione della storia contemporanea è uno dei fattori che armano la critica al classicismo, cioè a un sistema che ha elevato a norma la prassi letteraria e la mitologia legata a un tempo oramai trascorso, perché, scrive Friedrich Schlegel, nell’universo della poesia niente sta fermo, tutto diviene e si muta e si muove armonicamente. E in tale prospettiva l’epica, la lirica e il dramma moderni non coincidono più con i loro modelli greci, anche perché in contrasto con il postulato dei classicisti vengono ora investiti e trasformati dal romanzo, il genere moderno ove si intrecciano gli elementi più diversi, non più ordinati da una gerarchia prestabilita. Non è un caso che si stabilisca un nesso genetico tra romanzo e romantico, nel momento in cui il romanzo diviene una dominante del sistema letterario oramai in trasformazione. Si ha in tal modo una relativizzazione delle diversità tra i generi che vengono inclusi nell’irregolare e polimorfo novel, che proprio attraverso l’esplorazione dell’io, dell’eroe-personaggio, persegue una rappresentazione del mondo nella sua temporalità storico-drammatica; e questa complessità eterogenea sembra poi garantire al romanzo la possibilità di essere uno specchio di tutto il mondo circostante, una vera e propria immagine dell’epoca, una sorta di epopea borghese, come avrebbe affermato lo Hegel postromantico dell’ Estetica.

    Volendo risalire all’origine di tale processo di combinazione aggregativa che caratterizza la poesia postclassica, i romantici riscoprono Shakespeare come colui che ha per primo rappresentato la dinamica psicologica dell’uomo e le immagini interiori con cui l’individuo rivive e rielabora il mondo esterno. Non si tratta naturalmente di imitare Shakespeare, ma di apprendere la sua tecnica di drammatizzare un linguaggio lirico e di fonderlo con le cadenze della prosa, con gli scatti di un parlato quotidiano, di nuovo a contatto con la vita, con il movimento a un tempo imperioso e oscuro del reale. Appare chiaro che il romanticismo assume la letteratura come un sistema aperto che si rapporta sempre alla vita del proprio tempo e non ha altro modello che l’attualità di colui che scrive e la sua memoria, la sua capacità di ricreare la parola che gli viene dal passato e soprattutto dagli strati profondi della propria esistenza. Non per nulla si comincia a esplorare, dopo Rousseau, il luogo misterioso dell’infanzia e il mondo della fiaba, l’immaginario onirico dell’arte popolare e dell’oralità teatralizzata, come accade, sulle orme di Herder, a Brentano, Arnim e Grimm sul doppio versante del racconto fantastico e dell’interpretazione etnologica che poi diverrà lo studio del folklore. Ma la scoperta del popolare significa anche il recupero delle tradizioni e dei valori di un popolo, la ricerca o la conferma della sua identità nazionale, in parallelo con l’avvento dei nazionalismi insorgenti e con i moti liberali dell’età della Restaurazione, soprattutto nel centro Europa. La ragione e il mito possono allora unirsi in una nuova inquietudine, quella che esploderà, alla fine, nel 1848 e che continua, trasformata anche in dura lotta sociale, nei decenni successivi dell’imperialismo e dell’ultima illusione europea. Intanto, attraverso questo percorso di ritorno alle origini, il romanticismo, magari con le fantasmagorie romanzesche di Walter Scott, riscopre pure il Medioevo, il periodo barbaro e selvaggio in cui è venuto meno l’ordine unitario dell’impero romano e le chansons de geste e l’arte gotica diventano l’espressione corale di una collettività nazionale da cogliere nella sua singolarità e nella sua separatezza. Così nasce poi la storiografia moderna dell’Europa postromana nella doppia figura della filologia romanza e della filologia germanica. E sono proprio gli storici, del resto, a usare il passato come una possibile contrapposizione al presente, quando il suo carattere di civiltà borghese si scontra con la loro certezza o la loro nostalgia aristocratica.

    Hegel può allora costruire una geniale estetica della storia sull’ideale di un’armonia classica interna a ogni letteratura sino al tempo filosofico della fine dell’arte.

    A questo punto si comprende anche perché la sensibilità romantica si affermi prima là dove meno radicata e operante appare la tradizione del classicismo e agiscono fermenti già antichi, come la poesia elegiaca di Young e Gray, la fenomenologia del sublime di Burke, il novel sentimentale in Inghilterra o la battaglia di Lessing contro la drammaturgia francese, la rivolta dello Sturm und Drang prima di Goethe e Schiller, la scoperta della poesia popolare di Herder in Germania. In Italia e in Francia, a parte i gruppi conservatori, il prestigio di un alto linguaggio letterario condiziona, si direbbe, la sperimentazione del nuovo o la rende più eclettica, dal Foscolo di Jacopo Ortis all’ Atala o ai Martyrs di Chateaubriand. I promessi sposi sono tutt’altra impresa sulla strada europea che da Scott conduce a Balzac.

    Resta comunque vero che un sistema che predica l’originalità individuale e scende nel labirinto dell’io sino agli strati dell’inconscio non può muoversi in un’unica direzione: anche di fronte al reale lo scrittore può essere paragonato a una lampada che trae dall’intimo delle sue energie espressive e gnoseologiche le ragioni del proprio fare artistico, l’emozione che si fa meditazione pacata, come vuole Wordsworth. Il principio mimetico della poesia come pittura viene dissolto nell’idea di una autentica rivelazione verbale, di un’ontologia che nasce dalla forza stessa dell’immagine, dalla proiezione di un’esperienza interiore. Il poeta inventa perché riflette su se stesso e si sente diverso, alienato dalla natura, il suo canto è anche un parlare, un dialogo dell’io con i propri fantasmi e i propri conflitti. Che poi a tutto questo corrisponda anche la consapevolezza di una lacerazione, quella che Hegel condanna nell’ironia romantica, è il segno di una condizione drammatica dell’io lirico, da cui ha origine, allorché si oggettiva in azione rappresentata, un nuovo teatro drammatico fra fantasia e realismo, analisi introspettiva e melodramma.

    L’istanza realistica implicita nell’avventura romantica, intanto, emerge e si sviluppa con la seconda generazione dell’Ottocento. Se nella poesia nasce un linguaggio di sensazioni e di simboli moderni, che tentano di ricreare una natura perduta e desacralizzata, nella prosa, cioè nel romanzo, ciò che s’impone è la logica descrittiva del realismo e del naturalismo sul modello non più della filosofia idealistica ma della scienza positiva e della sua religione laica del fatto. Anche il pubblico, che è in primo luogo quello della città e della metropoli, si allarga e chiede alla letteratura di farsi intrattenimento, spettacolo, emozionalità avventurosa, documento melodrammaticamente reale. E c’è insieme una nuova enciclopedia di generi quotidiani, quella del giornalismo e della sua scrittura effimera, a cui si accompagna una nuova costruzione dello spazio grafico e delle sue modalità percettive. L’impressionismo della modernità pittorica si insinua anche nei processi della lettura e vi introduce il bisogno della sensazione inedita, lo stimolo nervoso dello choc oramai connaturato alla vita urbana e alla presenza brulicante di una folla, di una prima confusa civiltà di massa. Mentre l’estetica del bello si storicizza, non solo in funzione del tempo ma anche della moda, la sensibilità accoglie sotto la nuova insegna dell’interessante il brutto e il banale, la mescolanza della bellezza e della volgarità, definita di lì a poco kitsch. Si forma un gusto di massa, quello celebrato dai fulgori chiassosi delle Esposizioni universali.

    Verso il realismo e oltre

    Dopo la Rivoluzione francese l’artista non può che rimettersi in discussione: egli si trova nell’alternativa di puntare direttamente all’azione politica o di tentare di darsi un rinnovato statuto ideologico di sacerdote laico, di profeta senza Dio, con il rischio di restare alla fine un bohémien, un vagabondo, un flâneur ai margini dell’ordine sociale e delle sue convenzioni, di tutto ciò che i romantici tedeschi avevano chiamato filisteo. Il rapporto tra l’arte e la vita muta radicalmente e la letteratura prende coscienza del proprio squilibrio, del destino della parola come opposizione e critica al reale. Si compie così la rivoluzione che era iniziata con l’Illuminismo e che fa dello scrittore un intellettuale, un osservatore che scruta e giudica il presente nel momento in cui la sua indipendenza dipende, a sua volta, dalla possibilità di un lavoro retribuito. Ed ecco la strada complementare del giornalismo. Ciò che conta è un romanzo, come quello di Balzac o di Dickens, che è insieme invenzione, testimonianza, esplorazione, conoscenza della società e del suo inesorabile tessuto umano. Il narratore sta già costruendo, prima che venga lo scienziato, una sociologia, una descrizione critica del presente.

    Honoré de Balzac

    Sull’uomo onesto

    Papà Goriot

    È faticoso desiderare continuamente senza potersi mai soddisfare. Se foste uno senza sangue, una sorta di mollusco, non avreste nulla da temere. Ma abbiamo un sangue bollente da leone e un appetito da farci commettere venti sciocchezze al giorno. Soccomberete quindi a questo supplizio, il più orribile tra quelli che abbiamo scorti nell’inferno del buon Dio. Ammettiamo che siate saggio, che beviate latte e componiate elegie. Generoso come siete, bisognerà, dopo noie e privazioni da far diventare rabbioso un cane, che cominciate come sostituto di qualche disgraziato in un buco di città dove il governo vi getterà mille franchi di stipendio come si getta il pasto al cane di un macellaio. Abbaia ai ladri, difendi il ricco, manda alla ghigliottina gente di fegato. Grazie tante! Se non avrete protezioni, marcirete nel vostro tribunale di provincia. Verso i trent’anni, se ancora non avrete gettato la toga alle ortiche, sarete giudice a milleduecento franchi all’anno. Verso la quarantina sposerete la figlia di qualche mugnaio che vi porterà seimila franchi di rendita. Bella roba! Se avrete protettori, a trent’anni sarete procuratore con mille scudi di stipendio e sposerete la figlia del sindaco. Se commetterete qualcuna di quelle bassezze politiche come leggere sulle schede elettorali Villèle invece di Manuel (fa rima, questo tranquillizza la coscienza) a quarant’anni sarete procuratore generale e potrete diventare deputato. Notate, figliolo, che avremo fatto qualche strappo alla coscienza, avremo sofferto vent’anni di noie e di intime miserie, e che le nostre sorelle avranno passato i venticinque anni e saranno ancora zitelle. Ho l’onore, per giunta, di farvi notare che in Francia ci sono dieci procure generali e che ad aspirare alla carica siete ventimila, fra cui alcuni tipi ameni che per salire un gradino venderebbero la famiglia. Il mestiere vi disgusta? Vediamone un altro. Il barone di Rastignac vuol fare l’avvocato? Splendido. Bisogna patire per dieci anni, spendere mille franchi al mese, avere una biblioteca, uno studio, andare in società, baciare la toga di un collega perché ci passi qualche causa, pulire con la lingua il pavimento del Palazzo. Se fosse un mestiere vantaggioso, non farei obiezioni. Ma trovatemi a Parigi cinque avvocati che a cinquant’anni guadagnino più di cinquantamila franchi l’anno. Bah! Piuttosto che avvilirmi così, preferirei fare il corsaro. D’altra parte, come fare soldi? C’è poco da stare allegri. Sposarvi? Sarebbe legarvi una pietra al collo. E poi, se vi sposaste per denaro, che fine farebbero i vostri sentimenti d’onore, la vostra nobiltà? Tanto vale cominciare subito a ribellarvi contro le convenzioni umane. Strisciare come un serpente ai piedi di una donna, leccare i piedi a sua madre, commettere bassezze da disgustare una troia, puah!, sarebbe ancora nulla se trovaste almeno la felicità. Ma con una moglie sposata in questa maniera sareste infelice come le pietre di una fogna. Tutto sommato è meglio fare la guerra agli uomini che lottare con la propria moglie. Questo è il bivio della vita: scegliete, giovanotto. Ma avete già scelto. Siete andato dalla cugina di Beauséant e avete annusato il lusso. Siete andato da madame de Restaud, la figlia di papà Goriot, e avete fiutato la parigina. Quel giorno siete rincasato con sulla fronte scritta una parola d’ordine ch’io ho letto benissimo: Arrivare! Arrivare a qualsiasi costo. Bravo! mi sono detto. Ecco un tipo in gamba, che mi va a genio. Vi servivano soldi. Dove trovarli? E avete salassato le vostre sorelle. Tutti gli uomini, chi più chi meno, profittano delle sorelle. I vostri millecinquecento franchi, strappati Dio sa come, in un paese dove ci sono più castagne che monete da cento soldi, marceranno come soldati al saccheggio. E dopo, cosa farete? Lavorerete? Il lavoro, come lo intendete voi oggi, procura nella vecchiaia una camera da madame Vauquer a dei tipi come Poiret. Arricchire in fretta: questo è l’obiettivo che in questo momento si pongono cinquantamila giovani nella vostra condizione. Voi siete uno in mezzo a questa folla. Pensate agli sforzi che dovrete compiere e all’asprezza della competizione. Dovrete divorarvi tra voi come ragni prigionieri in un vaso, visto che non esistono cinquantamila buoni posti. Sapete come ci si fa strada qui? Con la forza del genio o con la corruzione. Si deve entrare in questa massa d’uomini come una palla di cannone o insinuarvicisi come una peste. L’onestà non serve. Ci si piega sotto il potere del genio, odiandolo, cercando di calunniarlo, perché prende senza dividere con gli altri. Però ci si piega, se non cede. In una parola, lo si adora in ginocchio se non si è riusciti a seppellirlo nel fango. Ma la corruzione trionfa, il talento è raro. Sicché la corruzione è l’arma della mediocrità che abbonda, e dappertutto ne sentirete la punta. Vedrete donne che hanno mariti con seimila franchi di stipendio in tutto, che ne spendono più di diecimila in vestiti. Vedrete impiegati pagati milleduecento franchi comprare terreni. Vedrete donne prostituirsi per salire sulla carrozza del figlio di un pari di Francia, che può percorrere a Longchamp la carreggiata centrale. Avete visto il povero papà Goriot costretto a pagare la cambiale di sua figlia, il cui marito ha cinquantamila franchi di rendita. Vi sfido a fare due passi a Parigi senza imbattervi in intrighi infernali. Scommetterei la testa contro un cespo di quell’insalata che in casa della prima donna che vi piacerà, per quanto ricca, bella e giovane, finirete in un vespaio. Tutte sono tenute alla briglia dalle leggi, in lite su tutto con i mariti. Non finirei più se dovessi spiegarvi i traffici che si fanno per gli amanti, i vestiti, i figli, la famiglia, la vanità, raramente per la virtù, statene certe. L’uomo onesto è dunque per tutti il nemico. Ma chi credete sia l’uomo onesto? A Parigi è quello che sta zitto e rifiuta di dividere con altri.

    H. de Balzac, La commedia umana, scelta e cura di M. Bongiovanni Bertini, Milano, Mondadori, 1994

    E questo è il realismo, sorto dal romanticismo ma antiromantico, che s’impone dopo la delusione del ’48, allorché si istituzionalizza il conflitto tra l’artista e la società borghese messa a nudo dal socialismo critico di Karl Marx. In Francia la poetica inaugurata dal disegno iperbolico della Comédie humaine trova in Flaubert il suo portavoce pessimistico e giunge sino a Zola e al naturalismo come lo stile della rappresentazione oggettiva, dell’artificio che finge di negare l’artificio di un io nascosto che guarda, racconta. Non per niente si può parlare persino di romanzo sperimentale. In Russia, per passare all’altro estremo dell’Europa, a conferma della latitudine e della varietà del fenomeno, il realismo assume un’intensità etico-esistenziale, sia che con Dostoevskij penetri nel profondo dell’uomo e delle sue angosce tra crimine e mistero, sia che con Tolstoj porti uno sguardo epico ma implacabile sulla storia dell’uomo tra natura, innocenza, corruzione e libertà. Ogni lingua, si capisce, dà un’intonazione diversa all’impulso della verità rappresentata.

    E lo stesso si deve ripetere per il teatro del naturalismo, a cominciare da quello analitico di Ibsen e dai suoi drammi familiari. Come il romanzo, anche il teatro non può rinunciare alla propria origine nazionale, sia pure in un circuito rapidamente europeo.

    Il rapporto tra scrittore e lettori, anche per effetto dell’ascesa di una classe media borghese, si modella sempre di più sulle leggi economiche del mercato e della chose littéraire, come la designa l’acutezza critica di Sainte-Beuve. Se alla metà del secolo è oramai inserita in questo processo di industrializzazione, si apre anche per la letteratura un nuovo capitolo di mediazione commerciale, che deve costruire il consenso e il successo di un’opera, anche a costo di una denuncia giudiziaria (basti pensare a Madame Bovary). I codici interpretativi non vengono più soltanto dalla critica alta d’élite, ma anche dalla pubblicistica, dalla notizia di giornale, dalla discussione che si rivolge all’uomo comune e al suo mondo di desideri e di attese. Reduce dal suo viaggio negli Stati Uniti, Tocqueville ha intuito presto i caratteri fondanti della società di massa: dove si legge per appagare il bisogno dell’emozione sensazionale, per sostituire al grigiore della consuetudine quotidiana l’incanto dell’immaginario, il fascino dell’ignoto, con la stessa tecnica di un manifesto pubblicitario, di uno spettacolo che si consuma nell’istante. E per la verità la prima industria culturale conosce già la produzione seriale del feuilleton, del romanzo a puntate che dialoga con i lettori e plasma via via i propri personaggi secondo le loro reazioni o le loro richieste, combinando i generi più diversi, dal racconto d’avventura al quadro di costume, dall’intrigo al mistero poliziesco. E persino Dostoevskij ne tiene conto nelle sue lucide e labirintiche reinvenzioni romanzesche. Questo vuol dire che i livelli narrativi si moltiplicano e interagiscono tra loro, contano alla fine i meccanismi, le possibilità combinatorie, le geometrie conflittuali.

    Di più, a partire dalla metà del secolo, ecco il positivismo, strettamente legato al processo della organizzazione industriale, che esalta la scienza come strumento di conoscenza e dominio del reale, predicando una fede neoilluministica nel sicuro progresso della società. Di qui i paradigmi della biologia, della fisiologia, della meccanica, che passano alla letteratura e che si traducono, sul piano della riflessione critica, nella teoria dell’ambiente di un Taine o nella botanica spirituale di un Sainte-Beuve. E la stessa fortuna tocca al darwinismo, non importa se anche attraverso il rifiuto che suscita nello spiritualismo antievoluzionistico di tradizione religiosa. Ma è un fatto innegabile che la parola romanzesca, anche quando sottoscrive il vero della scienza, lo trasfigura in un quadro di immagini e di situazioni nuove, in una intuizione originaria del vivere, come accade in Verga, allo stesso modo in cui l’impressionismo, tenendosi stretto alle cose e alle loro vibrazioni, esprime le ragioni profonde, gli stupori e i brividi dell’anima moderna allorché si specchia nello spettro mobilissimo del colore.

    Auguste Comte

    Progresso sociale e rapporto con il pensiero antico

    Corso di filosofia positiva, Lezione XLVII

    Ogni idea di progresso sociale era necessariamente interdetta ai filosofi dell’antichità, per mancanza di osservazioni politiche abbastanza complete ed estese. Nessuno di essi, anche tra i più eminenti e saggi, si è potuto sottrarre alla tendenza, allora tanto universale quanto spontanea, a considerare direttamente lo stato sociale contemporaneo come assolutamente inferiore a quello dei tempi precedenti.

    Questa inevitabile disposizione era tanto più naturale e legittima in quanto l’epoca di questi lavori filosofici coincideva essenzialmente, come spiegherò in seguito, con quella della necessaria decadenza del regime greco o romano. Ora, questa decadenza che, considerando l’insieme del passato sociale, costituisce certamente un vero progresso, in quanto preparazione indispensabile al regime più progredito dei tempi posteriori, non poteva essere in alcun modo giudicata in questa maniera dagli antichi, che non potevano immaginare una simile successione. Ho già indicato, nella precedente lezione, il primo schema generale del concetto, o piuttosto del sentimento, di progresso dell’umanità, come all’inizio necessariamente dovuto al cristianesimo il quale, proclamando direttamente la superiorità fondamentale della legge di Gesù su quella di Mosè, aveva naturalmente formulato quest’idea, fino a quel momento sconosciuta, d’uno stato più perfetto che sostituisce definitivamente uno stato meno perfetto, preliminarmente indispensabile fino ad una determinata epoca. Sebbene il cattolicesimo così non abbia fatto, senza dubbio, che servire da organo generale allo sviluppo naturale della ragione umana, questo prezioso compito costituirà egualmente sempre, agli occhi imparziali dei veri filosofi, uno dei più bei titoli per la nostra imperitura riconoscenza. Ma, indipendentemente dai gravi inconvenienti del misticismo e della vaga oscurità, che sono inerenti ad ogni impiego qualsiasi del metodo teologico, tale schema sarebbe certamente insufficiente a costituire una qualche valutazione scientifica del progresso sociale. Infatti questo progresso così si trova necessariamente chiuso dalla formula stessa che lo proclama, poiché esso è assolutamente limitato, nella maniera più assoluta, al solo avvento del cristianesimo, al di là del quale l’umanità non potrebbe fare un passo. Ora, poiché l’efficacia sociale di ogni qualsiasi filosofia teologica è oggi e per sempre essenzialmente esaurita, è evidente che questo concetto presenta ormai, in realtà, un carattere eminentemente reazionario, come ho già dimostrato, a conferma di una incontestabile esperienza, che non cessa d’essere compiuta sotto i nostri occhi. Da un punto di vista puramente scientifico, si comprende facilmente che la condizione di continuità costituisce un elemento indispensabile della nozione definitiva del progresso dell’umanità, nozione che rimarrebbe necessariamente impotente a dirigere l’insieme razionale delle speculazioni sociali, se rappresentasse il progresso come limitato, per sua natura, ad uno stato determinato, da lungo tempo raggiunto.

    Per questi diversi motivi, si può, da questo momento, capire a prima vista, che la vera idea di progresso, sia parziale, sia totale, appartiene in modo esclusivo e necessariamente, alla filosofia positiva, che nessun’altra, a questo riguardo, potrebbe supplire. Solo questa filosofia potrà rivelare la vera natura del progresso sociale, cioè caratterizzare il termine finale, mai completamente realizzabile, verso il quale essa tende a dirigere l’umanità, e a far conoscere nel contempo il cammino generale di questo sviluppo graduale.

    Auguste Comte, Corso di filosofia positiva, Torino, UTET, 1967

    Se poi nel romanzo si trasferisce una sorta di ricerca musicale, quanto più diviene forte la lezione di Wagner e di Schopenhauer, quasi in contrappunto con Darwin o Huxley, il fenomeno risulta determinante nella poesia e nella sua sintassi metaforica, che non è più quella della stagione romantica, anche se ne continua l’impulso originario, perché vuole fondare una realtà dell’immaginario simbolico attraverso la forza evocativa della musicalità verbale come se la trama dei versi fosse uno spartito di suoni suggestivi, di fluttuanti corrispondenze misteriose. Sia pure con qualche approssimazione, e non dimenticando la poetica parnassiana del poema come gioiello, manufatto splendidamente conchiuso in se stesso, si può affermare che il simbolismo è l’atmosfera comune dell’Ottocento postromantico e che Baudelaire ne rappresenta l’archetipo più alto e inquietante, quasi l’angelo decaduto nell’inferno quotidiano della metropoli moderna. Apparentato per più tramiti alla limpida indagine impressionistica, il simbolismo riconosce la propria abdicazione alla totalità della vita e tenta di recuperare l’autonomia di una parola che sia rivelazione e memoria di essenze, segno originario di un cosmo fuori del tempo, ma percepibile solo attraverso la temporalità di un’analogia musicale. La sua variante pittoresca è il decadentismo, così come l’estetismo ne prolunga il principio dell’arte nell’arte nel mito dell’esperienza, dell’epifania che può illuminare, sulla traccia di una parola sottile e vibrante, la materia informe dell’esistenza, il romanzo nascosto in ogni essere umano, nell’abisso tranquillo del suo silenzio. In gioco è poi la nozione stessa dell’io e come si sarebbe detto più tardi, la perdita del centro.

    È chiaro, ancora una volta, che l’artista non si riconosce più nella macchina sociale della borghesia, e questo dissenso lo conduce a una scelta, a un’avventura che mette in forse il suo stesso destino. Sulla strada impervia di Baudelaire, che conduce la poesia alla decifrazione visionaria dell’irrazionale e della dissonanza o del peccato dell’essere, Rimbaud diviene veggente, Verlaine insegue il fascino di un dolce, struggente parlato musicale, e Mallarmé suggerisce la magia dei simboli assoluti, il potere di una parola di nuovo pura. E dal fondo della provincia italiana Pascoli, a tratti, non è da meno. Ma, in ogni caso, nel rigore consapevole della propria alienazione, lo scrittore dell’ultimo Ottocento sperimenta i nodi irrisolti della modernità: l’esteta che non vuole contaminarsi con la volgarità del commercio quotidiano e nega ogni senso sociale dell’arte, l’attivista aggressivo che invoca Nietzsche, Bergson e Darwin per imporre l’eccezionalità dell’individuo superiore, del protagonista spettacolare, magari alla D’Annunzio, lo sradicato (o il buffone) che gestisce la propria inettitudine di comunicare come una condanna e un oscuro sentore di morte, testimoniano la crisi di una civiltà che muove verso l’esperienza traumatica e cruenta del primo conflitto mondiale. Così, anche per gli storici della letteratura, il XIX secolo ha forse termine nell’agosto del 1915, quando il mito della razionalità della storia e della certezza del progresso si frantuma nell’assurdo della guerra e di una cieca distruzione dissipatrice. Dagli ultimi contrafforti dell’Ottocento Tolstoj e Nietzsche, con il vigile radicalismo dei profeti disarmati, avevano visto lontano.

    Stéphane Mallarmé

    Brise marine

    La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres.

    Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres

    D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!

    Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux

    Ne retiendra ce coeur qui dans la mer se trempe

    O nuits! ni la clarté déserte de ma lampe

    Sur le vide papier que la blancheur défend

    Et ni la jeune femme allaitant son enfant.

    Je partirai! Steamer balançant ta mâture,

    Lève l’ancre pour une exotique nature!

    Un Ennui, désolé par les cruels espoirs,

    Croit encore à l’adieu suprême des mouchoirs!

    Et, peut-être, les mâts, invitant les orages

    Sont-ils de ceux qu’un vent penche sur les naufrages

    Perdus, sans mâts, sans mâts, ni fertiles îlots...

    Mais, ô mon coeur, entends le chant des matelots!

    Come è triste la carne... E ho letto tutti i libri

    Fuggire! laggiù fuggire! Ho udito il canto di uccelli

    Ebbri tra l’ignota schiuma e i cieli. Nulla,

    Neppure gli antichi giardini riflessi negli occhi,

    Potrà trattenere il mio cuore che s’immerge nel mare.

    O notti! neppure il deserto chiarore della mia lampada

    Sul foglio ancora intatto, difeso dal suo candore

    E neppure la giovane donna che nutre il suo bambino.

    Partirò! Nave che culli le tue vele

    Leva l’ancora verso un’esotica natura!

    Una Noia, crede ancora, desolata da speranze crudeli,

    Ai fazzoletti agitati nell’ultimo addio. E forse

    Gli alberi che attirano la tempesta

    Il vento farà inclinare sui naufragi

    Perduti, senz’alberi, lontani da fertili isole...

    Ma ascolta, mio cuore, il canto dei marinai!

    Stéphane Mallarmé, Poesia e prosa, a cura di C. Ortesta, Parma, Guanda, 1982

    Rimandi

    Volume 48: Introduzione alla letteratura del Cinquecento

    Volume 54: Introduzione alla letteratura del Seicento

    Volume 60: Introduzione alla letteratura del Settecento

    Classicismo o Romanticismo: la celebre querelle letteraria

    Classico e romantico

    Silvia Contarini

    L’antitesi classico-romantico, introdotta da Goethe e da Schiller come opposizione tra la calma serenità degli antichi e la coscienza inquieta dei moderni, prende forme e significati diversi a seconda delle realtà geografiche, storiche e letterarie in cui si trova a operare. Se in Germania il romanticismo si sviluppa dalle radici stesse del classicismo, altrove questa polemica riassume il conflitto ideologico tra vecchia e nuova cultura, ponendo il problema dell’eredità dell’Illuminismo e del significato della tradizione.

    Le origini teoriche del romanticismo tedesco

    La parola romantic appare per la prima volta in lingua inglese a metà Seicento, per definire alcune caratteristiche negative dei romanzi cavallereschi e pastorali, come la falsità, l’irrealtà e l’eccesso di fantastico. Tutto ciò che sembra prodotto di sregolata fantasia viene definito come romantic; ma già agli inizi del Settecento questo termine assume il significato di attraente e insolito, denotando ciò che colpisce l’immaginazione.

    Alla fine del secolo, romantic non si riferisce più solamente agli aspetti della realtà esteriore, ma implica l’intensa emozione suscitata nell’animo umano da spettacoli insoliti o grandiosi. Rousseau se ne serve per definire la sensazione indistinta provocata da un luogo magico, soprannaturale, infinito, nel quale perdersi in contemplazione. Romantico si associa così a una serie di concetti che si riferiscono a una situazione psicologica complessa e indefinibile, come nostalgico, pittoresco, sublime. Ereditando il concetto in questa accezione psicologica, i teorici del movimento romantico vi aggiungono il riferimento storico all’epopea cavalleresca medievale e al cristianesimo, da cui prende origine la poesia moderna.

    Le origini teoriche del romanticismo

    Alla generazione tedesca venuta dopo Goethe e Schiller spetta il compito di enunciare la poetica del romanticismo dalle pagine della rivista Athenäum, fondata nel 1798 da August Wilhelm Schlegel e dal fratello Friedrich. Come dimostra il saggio di Friedrich Schlegel, intitolato significativamente Sullo studio della poesia greca, il romanticismo tedesco si sviluppa direttamente dal confronto dialettico con il classicismo di Winckelmann. Riprendendo le ipotesi di Schiller e di Winckelmann, Friedrich Schlegel distingue tra la poesia naturale dei classici, fondata sull’ideale, e la poesia artificiale dei moderni, fondata sull’interessante. E tuttavia l’interessante non è che un criterio intermedio, una fase di transizione nella scoperta di un’estetica del bello supremo, raggiungibile però sempre solo in maniera approssimativa e frammentaria. In altre parole, mentre il bello classico è dato naturalmente agli antichi all’alba della storia, il bello dei moderni deve essere costruito artificialmente, partendo dalla consapevolezza che imitare l’antico nelle sue forme e nei suoi stili non serve; occorre invece appropriarsi dello spirito della grecità attraverso la comprensione storica, filologica e filosofica dei suoi testi.

    Nei frammenti di Athenäum Friedrich Schlegel definisce i caratteri del nuovo movimento, precisando che il fine della poesia universale e progressiva dei romantici è quello di riunire tutti i generi poetici fino ad allora separati, in una mescolanza di prosa e poesia, retorica e filosofia.

    Il compito della cultura romantica è creare nuove forme senza tenere conto della separazione dei generi e degli stili propria della tradizione classica. Il genere composito del romanzo è il risultato primario di quest’arte combinatoria, condotta attraverso la tecnica dell’ironia che impedisce la completa identificazione dell’autore con la materia poetica. Nel romanzo la verità non è data una volta per tutte, ma si costruisce nel confronto tra le diverse prospettive dei personaggi. Per questo il romanzo si presta a esprimere la perdita di unità e l’inquietudine che caratterizza l’epoca romantica, a differenza della calma grandezza dell’antichità classica.

    Le Lezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica tenute da August Wilhelm Schlegel a Vienna nel 1808, subito tradotte in italiano, francese e inglese, completano la teoria romantica attraverso il rapporto con la tradizione classica. La tesi fondamentale delle Lezioni viennesi è la distinzione tra due generi di teatro radicalmente diversi: classico e romantico. Il primo è formato dalle opere dei Greci e dei loro imitatori latini, francesi e italiani, fedeli ai principi di ordine e simmetria della tradizione classicistica. Il secondo trae origine dalle opere degli Spagnoli, degli Inglesi e dei Tedeschi che ricercano l’interessante, l’energico e il sublime senza lasciarsi condizionare dalle regole della rappresentazione ideale. Le due forme di arte drammatica sono dunque il prodotto di due civiltà storiche e culturali, animate da uno spirito profondamente diverso. Il teatro ideale degli antichi è basato sulla religione dei greci come divinizzazione delle forze naturali e della vita terrestre, ed esprime la poetica della consonanza perfetta con la natura. Invece il cristianesimo, su cui si fondano l’arte e la civiltà dei moderni, esprime la coscienza del limite di tutte le cose e l’aspirazione a un infinito irraggiungibile.

    August Wilhelm Schlegel

    Conseguenze delle mescolanze tra il carattere nordico ed il Cristianesimo

    Corso di letteratura drammatica, lezione I

    Appresso il Cristianesimo, l’energico carattere de’ conquistatori del Nord è quello che soprattutto determinò il corso della civiltà européa; perocchè queste bellicose schiatte furono le prime che arrecarono nuovi principj di vita alle nazioni degenerate. La severa natura del Nord costringe l’uomo a concentrarsi in sè stesso; ma quello ch’egli perde dal canto de’ luminosi sviluppamenti d’una imaginazione sensuale, torna a profitto delle disposizioni più nobili e più serie della sua anima. Il che viene provato dalla leale franchezza con cui li antichi popoli germanici abbracciarono il Cristianesimo. In nessun luogo esso guardò così lungamente la sua forza e la sua attività; in nessun luogo penetrò così addentro nel cuore umano, nè si combinò così intimamente co’ diversi affetti che lo riempiono.

    La mescolanza dell’eroismo rozzo, ma fedele, de’ conquistatori del Nord, co’ sentimenti del Cristianesimo fe’ nascere la Cavallería. Questa bella istituzione avéa per iscopo di frenare, con sacri voti, guerrieri ancor feroci, e di preservar per tal guisa lo spirito militare dal barbaro abuso della forza in cui non è che pur troppo suggetto a cadere. Sotto la salvaguardia della virtù cavalleresca, l’amore prese un carattere più puro e più sacro; divenne un omaggio esaltato verso li enti che nell’umana natura sembrano dover maggiormente accostarsi alla natura degli angeli; parve che la religione medesima consecrasse questo culto, presentando, sotto forma divina, alla venerazione de’ mortali ciò che è su la terra di più puro e di più commovente: l’innocenza d’una vergine e l’amor d’una madre.

    Siccome il Cristianesimo, al pari che il culto de’ falsi Iddii, non si contentava di cerimonie esteriori, ma si rivolgeva al cuore dell’uomo e a’ suoi più nascosti affetti, e se ne voleva insignorire, così l’energico sentimento della interna libertà, e quella nobile indipendenza d’animo che repugna a piegarsi sotto il giogo delle leggi positive, si ripararono nel dominio dell’onore. Questa morale mondana si colloca a fianco della morale religiosa, e par talvolta che si trovi con essa in contradizioni. Pure una gran corrispondenza di simiglianza raccosta l’una all’altra. La religione, altresì come l’onore, non calcola mai le conseguenze delle azioni; e quella e questo hanno consecrato de’ principj assoluti, e li hanno posti fuor della possanza d’una ragione scrutatrice.

    La Cavallería, l’amore e l’onore furono li oggetti della poesia naturale che verso il principio del medio evo difuse le sue produzioni con una incomprensibile abondanza, e precedette al grado sovrano di cultura che in processo di tempo andò acquistanto lo spirito romantico. Quest’epoca ha pure la sua mitologia, fondata su le leggende e le favole della Cavallería; ma l’eroismo e il maraviglioso che vi regnano, sono d’un genere interamente opposto a quello della mitología antica.

    Alcuni filosofi, i queli per altro s’accordano con noi nella maniera di riguardare il genio particolare dei moderni, hanno creduto che il carattere distintivo della poesía del Nord fosse la melancolía; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda, non s’allontana dalla nostra. Appo i Greci, la natura umana bastava a sè stessa, non presentiva alcun vôto, e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma, quanto a noi, una più alta dottrina c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo il posto che gli era stato originariamente destinato, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavía non può giungere, s’egli resta abbandonato a sè stesso. La religione sensuale de’ Greci non prometteva che beni esteriori e temporali: l’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida imagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposito: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale. Una siffatta religione risveglia tutti i presentimenti che riposano nel fondo dell’anime sensitive, e li mette in palese; ella conferma quella voce secreta la qual ne dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può conseguire in questo mondo, - che nessun oggetto caduco può mai riempire il vôto del nostro cuore, - ch’ogni piacere non è quaggiù che una fugace illusione. Allorchè dunque, simile agli schiavi ebréi i quali prostesi sotto i salci di Babilonia faceano risonare de’ loro lamentevoli canti le rive straniere, la nostr’anima esigliata su la terra sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti, se non quelli della melancolía? E però la poesía degli antichi era quella del godimento; la nostra è quella del desiderio: l’una si ristringeva al presente, l’altra si libra fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire.

    Nondimeno non bisogna credere che la melancolía si vada al continuo esalando in monótone querimonie, nè ch’ella si manifesti sempre distintamente. Nella stessa maniera che la tragedia fu sovente appresso de’ Greci energica e terribile, non ostante l’aspetto sereno sotto cui essi riguardavano la vita, anche la poesía romantica, come l’abbiamo pur anzi dipinta, può passare per tutti i toni, da quello della tristezza infino a quello della gioja; ma sempre trovasi in essa un certo che d’indefinibile che dinota l’origine sua; il sentimento è in essa più intimo, l’imaginazione meno sensuale, il pensiero più contemplativo. Contuttociò in realtà i limiti si confundono alcuna volta, e li oggetti non si mostrano mai interamente distaccati li uni dagli altri, e quali siamo costretti di rappresentarceli per averne una idéa distinta.

    I Greci vedeano l’ideale della natura umana nella felice proporzione delle facultà e nel loro armonico accordo. I moderni all’incontro hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell’uomo che rende questo ideale impossibile a effettuarsi: la loro poesía aspira di continuo a conciliare, a unire intimamente i due mondi fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sensi e quello dell’anima; ella si compiace tanto di santificare le impressioni sensuali che l’idéa del misterioso vincolo che le congiunge a sentimenti più elevati, quanto di manifestare a’ sensi i movimenti più inesplicabili del nostro cuore e le sue più vaghe percezioni. In breve, essa dà anima alle sensazioni, corpo al pensiero.

    Non è dunque maraviglia che i Greci ne abbiano lasciato, in tutti i generi, de’ modelli più finiti. Essi miravano ad una perfezione determinata, e trovarono la soluzione del problema che s’aveano proposto: i moderni a rincontro, il cui pensiero si slancia verso l’infinito, non possono mai compiutamente satisfare sè stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imprefetto che le espone al pericolo d’esser male apprezzate.

    A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, trad. e note a cura di G. Gherardini, Genova, Il Melangolo, 1980

    Se l’arte degli antichi è plastica, luminosa e ariosa, quella dei moderni è pittorica, ovvero si esprime per chiaroscuri, in un insieme composito dove le ombre non hanno meno significato della luce. Mentre la poesia degli antichi afferma il possesso dell’universo da parte dell’uomo che in esso si riconosce, quella dei moderni esprime lo struggimento e la malinconia per un mondo perduto. La poesia moderna nasce dunque sotto il segno della nostalgia e dell’irrequietezza eterna, dal sogno di una felicità lontana e irraggiungibile.

    Lo specchio e la lampada: il romanticismo inglese

    Le Lyrical Ballads di William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge, pubblicate nel 1798, rappresentano l’atto di nascita della stagione romantica inglese. Nella Prefazione alla seconda edizione del 1800, Wordsworth delinea la poetica del nuovo movimento, affermando che la poesia emerge da un processo fantastico della mente, in cui i sentimenti hanno un ruolo preponderante.

    Il potere creativo dell’immaginazione non consiste più nel riprodurre la realtà, abbellendola e trasformandola, ma nell’accenderla dall’interno attraverso una rete di simboli e di metafore. Al principio classicista dell’arte come specchio della natura, il poeta romantico sostituisce la funzione illuminante della poesia che come una lampada rivela il senso profondo delle cose. Rifiutando di lasciarsi plasmare dalle impressioni esterne, come predicavano le poetiche settecentesche legate al sensismo, l’artista rivendica il ruolo attivo di chi infonde vita, fisionomia e passione alla realtà circostante. La metafora culminante di questo processo di interazione è il matrimonio fra la mente e la natura che ricorre nella poesia di Wordsworth e di Blake.

    Tale mutamento di prospettiva si riverbera anche sulla storia letteraria e sul modo di concepire il rapporto con la tradizione.

    Al canone del gusto, afferma Coleridge, occorre ormai sostituire l’impulso del cuore. D’altro canto cuore e intelletto del poeta devono essere intimamente fusi e unificati con le grandi immagini della natura. A differenza di quanto affermato nelle poetiche dell’ideale, la nuova letteratura non piange le lacrime degli angeli, ma lacrime umane, dunque le parole del poeta devono essere adeguate a esprimere gli stati psicologico-affettivi della passione. La poesia stessa non è contemplazione del bello, ma spontaneo traboccare di forti sentimenti che nasce dall’emozione rivissuta in tranquillità.

    L’immaginazione creatrice dell’uomo, opposta al primato settecentesco della ragione analitica, diventa il parametro per giudicare le opere letterarie. E tuttavia l’universo romantico appare fin dall’inizio segnato dall’impossibilità di far coincidere le passioni con una realtà delimitata dal freddo cerchio della ragione filosofica e scientifica.

    Nella visione di Wordsworth, poesia e natura appaiono irrimediabilmente divise, così come l’universo mitico e completo degli antichi è diviso da quello consapevole ma limitato dei moderni.

    Tra due culture: il gruppo di Coppet

    Il cenacolo letterario di Coppet, dal nome del castello nei pressi di Ginevra dove Madame de Staël riunisce nei primi anni dell’Ottocento un gruppo di letterati e filosofi avversi alla politica imperialistica di Napoleone, costituisce un importante momento di transizione tra la cultura classicistica e razionalistica dell’Illuminismo e il nascente movimento romantico. Ammiratrice fervente dei philosophes francesi, ma allieva di August Wilhelm Schlegel, il teorico del romanticismo tedesco, Madame de Staël contesta i risultati più radicali della cultura illuministica, come il materialismo ateo e l’utilitarismo, impegnandosi nello stesso tempo a diffonderne gli ideali di progresso e di fiducia nella ragione umana. Attraverso l’unione di ragione e sentimento, infatti, il compito dell’intellettuale diviene quello di accordare la sensibilità alla religione e all’impegno civile, per recuperare la moralità, la dignità e la libertà delle lettere, compromesse dagli eccessi del Terrore e dalla tirannide napoleonica.

    Tra il 1805 e il 1810 il gruppo composto in origine da Charles Victor de Bonstetten, Benjamin Constant, Simonde de Sismondi e Prosper de Barante è fortemente influenzato dalla presenza a Coppet di August Wilhelm Schlegel e del fratello Friedrich, che all’osservazione dei precetti e delle regole di tradizione aristotelica oppongono la dottrina del genio creatore.

    Contestando l’imperialismo politico e culturale francese, il gruppo rivendica la legittimità di un gusto nazionale prodotto dello spirito di un popolo, aprendo la via al riconoscimento delle letterature nazionali. Quest’idea pervade alcune delle opere più significative del cosmopolitismo letterario di Coppet, come il De la littérature du midi de l’Europe (1813) di Sismondi e L’homme du midi et l’homme du nord (1824) di Bonstetten, dove le ipotesi settecentesche sull’influenza del clima vengono utilizzate per delineare una nuova geografia letteraria su base antropologica. L’indole appassionata dei popoli meridionali, la loro tendenza spontanea alla poesia e all’effusione drammatica si contrappongono allo spirito speculativo dei popoli del Nord, il cui ripiegamento interiore è la risposta psicologico-esistenziale all’inclemenza della natura. Nella prospettiva antropologica divulgata da La Germania (1813) di Madame de Staël la geografia dell’anima costituisce anche il criterio dell’interpretazione storica. Mentre il concetto di classico definisce la poesia solare e pagana degli antichi, lo spirito romantico coincide con la poetica della malinconia dei moderni, ispirata agli ideali della rassegnazione e della pietà del cristianesimo.

    Madame De Staël

    La poesia tedesca ha come fonte principale il terrore

    Sulla Germania

    Dobbiamo ancora parlare della fonte inesauribile di effetti poetici che troviamo in Germania: il terrore. Gli spettri e gli stregoni piacciono al popolo e alle persone colte: è un resto della mitologia nordica, una disposizione che ispirano abbastanza naturalmente le lunghe notti dei climi settentrionali: e d’altronde, benché il cristianesimo combatta tutti i timori infondati, le superstizioni popolari hanno sempre qualche analogia con la religione dominante. Quasi tutte le verità sono seguite da un errore, accolto dalla fantasia come l’ombra a fianco della realtà: lusso della fede, che s’accompagna abitualmente con la religione come con la storia; né so perché si debba sdegnar di usarne. Shakespeare trae prodigiosi effetti dagli spettri e dalla magia, né la poesia potrebbe esser popolare, disprezzando un potere irriflessivo, che si esercita sull’immaginazione. Il genio e il gusto possono vigilare sull’uso di queste favole, che per la volgarità del fondo esigono un più grande ingegno; ma forse proprio a quest’unione dobbiamo la potenza di un poema. E’ probabile che gli avvenimenti narrati nell’Iliade e nell’Odissea fossero cantati dalle nutrici, prima che Omero ne facesse il capolavoro dell’arte.

    Bürger ha colto meglio di ogni altro tedesco quella vena di superstizione che penetra così profondamente nei cuori. Per questo in Germania tutti conoscono le sue romanze. La più famosa, Leonora, non credo sia tradotta in francese, o almeno sarebbe difficilissimo esprimerne tutti i particolari, sia in prosa che in versi. Una fanciulla è atterrita di non aver notizie dell’amante, partito per il campo; si fa la pace; tutti i soldati tornano alle loro case. La madre ritrova il figlio, la sorella il fratello, la moglie il marito; le trombe guerriere accompagnano i canti della pace e la gioia è in tutti i cuori. Leonora cerca invano nelle file dei soldati: non trova il suo amante; non si sa nulla di lui. La fanciulla si dispera; sua madre vorrebbe calmarla; ma il giovane cuore di Leonora si ribella al dolore, e, nel suo smarrimento, essa rinnega la Provvidenza. Pronunciata la bestemmia, si sente nel racconto qualcosa di funesto, e da quel momento l’animo è continuamente scosso.

    A mezzanotte, un cavaliere si ferma alla porta di Leonora, che sente nitrire il cavallo e risonar gli sproni: il cavaliere batte, essa scende e riconosce l’amante. Egli le chiede di seguirlo, perché non ha un momento da perdere prima di tornare al campo. La fanciulla si slancia, egli la mette dietro a sé sul cavallo, e parte rapido come il lampo. Galoppa nella notte per luoghi aridi e deserti; la fanciulla è invasa dal terrore e gli chiede continuamente il perché di una così rapida corsa; il cavaliere affretta ancora il passo del cavallo con gridi cupi e sordi, e dice piano: I morti vanno in fretta, i morti vanno in fretta. Leonora gli risponde: Ah! lascia in pace i morti!. Ma ad ogni domanda inquieta, egli ripete le stesse parole funeste.

    Nei pressi della chiesa, dove diceva di condurla per unirsi a lei, l’inverno e la neve fanno anche della natura un orrendo presagio: dei preti portano un feretro in processione e le loro vesti nere strisciano lente sulla neve, lenzuolo funebre della terra; lo spavento della fanciulla aumenta, l’amante torna a rassicurarla, e fanno rabbrividire le sue parole miste di noncuranza e d’ironia. Tutto quel che dice ha un monotono suono accelerato, come se il suo linguaggio non avesse ormai più l’accento della vita; promette di condurla nella casa stretta e silenziosa, dove si faranno le nozze. Si vede da lontano il cimitero, presso la porta della chiesa; il cavaliere bussa, la porta s’apre; egli vi si precipita col cavallo, che fa passare tra le pietre sepolcrali; e prede a poco a poco l’apparenza di un vivo; si muta in scheletro, e la terra si schiude a ingoiarlo con l’amante.

    Non ho certo sperato di tradurre in questo riassunto lo stupendo pregio della romanza: tutte le immagini, tutti i rumori rispondenti agli stati dell’animo sono meravigliosamente espressi dalla poesia: le sillabe, le rime, tutta l’arte delle parole e del loro suono è usata per incutere terrore. Il rapido passo del cavallo sembra più solenne e cupo della lentezza di una marcia funebre. L’energia del cavaliere nell’affrettar la corsa, quell’impetuosità della morte suscita un turbamento inesprimibile; e ci si crede rapiti dallo spettro, come la sventurata ch’egli trascina con sé nell’abisso.

    Madame De Staël, Sulla Germania, Torino, De Silva, 1943

    Il tempo del Conciliatore: classico e romantico in Italia

    Il romanticismo italiano ha inizio storicamente nel 1816 con la polemica suscitata dalla pubblicazione nella Biblioteca italiana dell’articolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in cui Madame de Staël esorta la cultura italiana ad aprirsi alle novità della letteratura europea.

    Contro le vivaci reazioni dei letterati che insorgono a difesa del canone classicistico del gusto e della tradizione italiana, un gruppo di intellettuali eredi dell’Illuminismo lombardo accoglie l’invito a una letteratura che si fonda sulla rappresentazione problematica della realtà. Così, mentre le posizioni dei classicisti trovano spazio sulla Biblioteca italiana, di ispirazione conservatrice, i romantici danno vita al foglio liberale Il Conciliatore, sorto nel 1818 in opposizione alla cultura ufficiale e subito colpito dalla repressione austriaca che mette fine, appena un anno dopo, ai tentativi politici e culturali di rinnovamento.

    I temi della polemica italiana ruotano intorno alla questione dell’uso della mitologia in letteratura, a cui i romantici oppongono temi tratti dalla storia o dall’immaginazione popolare, e il rapporto con le letterature straniere. Sia Pietro Borsieri nel Programma del Conciliatore, sia Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo rivendicano l’esistenza di un pubblico moderno e colto, a cui indirizzare la proposta di una letteratura applicata alle esigenze della società del tempo, senza tenere conto della distinzione di generi e stili. A causa dei suoi legami con l’Illuminismo lombardo, il gruppo del Conciliatore sente fortemente la frattura aperta dalla Rivoluzione francese e il problema del rapporto storico-letterario con gli ideali del Settecento razionalista. Nella Lettera a Monsieur Chauvet, Alessandro Manzoni affronta da un lato la questione delle regole aristoteliche, che impediscono la libera espressione dei sentimenti, mentre dall’altro pone il problema della moralità del teatro.

    A differenza del modello settecentesco che mira al dispiegamento delle passioni sulla scena, il teatro romantico è inteso da Manzoni come rappresentazione etica degli affetti, regolati e guidati dall’autore che rivendica la possibilità di un giudizio storico e letterario. Nel Conte di Carmagnola, ma ancor più nell’ Adelchi, Manzoni mette in scena il conflitto tra la morale e la storia, e la possibilità – propria della poesia – di dar voce ai personaggi minori e alle vicende trascurate o ignorate dalla ricostruzione ufficiale degli avvenimenti. Secondo una teoria che sfocia poi nell’esperimento romanzesco dei Promessi sposi, il compito del poeta diviene quello di rimediare poeticamente all’arbitrio della storia.

    Nelle Idee elementari sulla poesia romantica, l’ideologo Ermes Visconti sostiene che alla poesia romantica appartengono tutti i soggetti ricavati dalla storia moderna e dal Medioevo, e che compito del poeta moderno è di coniugare l’ideale con il vero e con l’utile. Commentando Il Giaurro di Byron, Ludovico Di Breme enuncia invece i caratteri del romanticismo italiano, fondato sul patetico; patetico che non coincide con i soggetti lugubri in voga alla fine del Settecento, ma consiste nella vastità e nella profondità del sentimento che dà vita alla nuova mitologia dei moderni, fondata sull’osservazione del cuore umano e dei suoi misteri.

    Sul versante spesso opaco e difensivo dei classicisti, la posizione di Vincenzo Monti è emblematica di un pensiero che difende una poesia basata sulla meraviglia e il portento delle favole mitologiche, opposte all’arido vero. Creatore di un classicismo borghese dai caratteri nazionali, Monti mostra alcune consonanze con il modello romantico di poesia impegnata e fiduciosa nel progresso, pur continuando a esprimersi in un linguaggio aulico e sublime che riveste formule e tipi tradizionali. Opposto ma per molti versi complementare è il pensiero di Ugo Foscolo e di Giacomo Leopardi, lontani sia dalle posizioni arretrate di un classicismo pedante sia dalle proposte romantiche. Per Foscolo, che sperimenta nell’ Ortis la profonda lacerazione storica e individuale degli ideali settecenteschi e il tradimento della politica napoleonica, la mitologia rappresenta il mondo ideale delle illusioni, lo strumento capace di dare voce ai fondamenti originari e mitici.

    Nel velo delle Grazie, posto dal poeta tra sé e il mondo, Foscolo esprime quella distanza dalle passioni che consente di attingere a un ideale di bellezza purificatrice e consolatoria. Per Leopardi la mitologia e il suo corredo di immagini esprimono la giovinezza primitiva e vitale del mondo degli antichi che l’uomo moderno ha perduto come ha dimenticato il tempo della sua infanzia, consegnandosi alla simbolica aridità dell’epoca moderna.

    Giacomo Leopardi

    Per qualche anno, tutti siamo stati come gli antichi

    Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica

    Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e istancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto. Io stesso i ricordo di avere nella fanciullezza appreso coll’immaginativa la sensazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo; io mi ricordo

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