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Hoenir Il druido - La profezia
Hoenir Il druido - La profezia
Hoenir Il druido - La profezia
E-book234 pagine3 ore

Hoenir Il druido - La profezia

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Info su questo ebook

Le forze del caos, bandite dall’ordine del creato ben prima che l’uomo calcasse la Terra, hanno trovato una breccia per tornare nel nostro mondo. Il loro obiettivo è fagocitare l’universo e ristabilire il disordine primigenio da cui sono scaturite all’inizio dei tempi.

Ma non hanno fatto i conti con il giovane druido Hoenir e i suoi amici: la sacerdotessa Crise, il ladro Autolico,il fabbro Kowen e, soprattutto, l’erudito Daeron. Insieme, questi cinque prescelti, dovranno ritrovare il testo segreto della Profezia: è lì che gli uomini sapienti e gli Dei hanno scritto tutto ciò che ai mortali è concesso sapere sul modo per sconfiggere il nemico più terribile che mai abbia attentato alla vita di tutti gli esseri viventi.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2015
ISBN9788867823802
Hoenir Il druido - La profezia

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    Anteprima del libro

    Hoenir Il druido - La profezia - Daniele Bello

    Daniele Bello

    Hoenir  il druido

    la profezia

    EDITRICE GDS

    Daniele Bello Hoenir il druido - la profezia©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel.  02 9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it  ;  iolanda1976@hotmail.it

    Illustrazione in copertina di ©  Driade di © FABIO LARCHER

    Progetto copertina di © Iolanda Massa

    Tutti i diritti riservati.

    A Beatrice

    dal tuo papà che «fa uscire le parole belle»

    Carme per il giovane bardo

    Ascolta, giovane e inesperto narratore,

    le imprese immortali del Druida prescelto,

    al cui nome tremano ancora

    le Forze Oscure degli Antichi Sovrani.

    In epoche buie, di cui è lecito appena

    sussurrare il nome,

    la Terra in cui vivi venne sconvolta

    dal flagello dei Figli del Male.

    Essi emersero dalla terra,

    squarciarono il cielo,

    e il Terrore seminarono tra Elfi e umani.

    Ma i Saggi colsero un segno nel cielo stellato,

    messaggero di morte e distruzione per il Nemico,

    e forze ancestrali vennero in nostro aiuto.

    Polvere divennero i Figli dell’Oscurità

    eccelsa la gloria di chi li ridusse in cenere,

    gravoso il dovere del bardo di renderla immortale.

    Perciò prestami, o Ninfa ispiratrice

    del canto sacro agli Elfi e alle Fate,

    una misera parte della tua maestria,

    perché i miei versi abbiano la forza

    di sopravvivere all’erosione del tempo...

    Questa poesia, tramandataci dalla tradizione dei bardi e dei cantori, risale verosimilmente a un periodo di poco posteriore agli eventi narrati in questo racconto, in un’epoca quindi in cui il sapere era in parte affidato alla trasmissione orale delle saghe e delle canzoni dal bardo Maestro ai suoi allievi.

    In particolare, questi versi, che riassumono le vicende del druido Hoenir e dei suoi amici, per la diversità e difficoltà della metrica e delle figure retoriche in essa contenute (complessità che non è possibile cogliere, ovviamente, nella traduzione del testo in lingua Comune), veniva utilizzata dai bardi come esercizio didattico per i loro allievi, i quali erano tenuti ad ascoltarla e a ripeterla più volte: questo spiegherebbe la popolarità dei versi, giunti fino a noi senza apparenti interpolazioni metriche successive (per uno studio approfondito della metrica degli Anni Bui, si rimanda ad Augustinus, Musica e metrica nelle saghe dei Secoli Oscuri).

    PROLOGO

    Il rumore del tuono in lontananza, le nuvole grigie all’orizzonte, quel senso di inquietudine che pervade ogni cosa prima della pioggia, erano tutte sensazioni che gli erano familiari da tempo. Gli piaceva entrare in contatto con le forze del tempo atmosferico, sentire la poesia che si nasconde nelle manifestazioni della Grande Madre. Per chiunque altro quello spettacolo avrebbe rappresentato solo l’approssimarsi di un temporale, ma per lui no: per lui era qualcosa di più.

    Solamente gli Iniziati potevano vedere il volo di un falco e la morte di una giumenta e cogliere il misterioso legame che riuniva quei due episodi apparentemente privi di nesso. Solamente gli Iniziati come lui potevano sentire l’infinita rabbia ancestrale degli elementi in quel vento che infuria attraverso le foreste.

    Per tutto il giorno si era esercitato, come gli aveva insegnato il suo Maestro, ad ascoltare le voci degli alberi e finalmente aveva colto il mormorio delle Driadi in risposta alle sue invocazioni: erano creature timide, e spesso la loro riservatezza si trasformava in aperta ostilità verso coloro che osavano disturbarle. Ma lui era riuscito a non urtarne la suscettibilità e alla fine dei suoi pazienti esercizi una voce (un mormorio di quelli che non tutti possono cogliere, perché non è con l’orecchio che si percepiscono, ma con l’empatia che viene dal profondo dell’anima) aveva risposto ai suoi richiami ed era piacevole, ora, sentire il ticchettio della pioggia sferzata dal vento. Il contatto dell’acqua sulla propria pelle era quasi una ricompensa. Poteva riposarsi, ora, e lasciarsi trascinare nella contemplazione del paesaggio davanti a lui: in piedi, al di sopra di una collina rocciosa, dominava l’orizzonte ricoperto di vegetazione e di alberi il cui sapere era più antico dei suoi avi.

    Hoenir il druido sorrideva, perché non era più solo nel buio delle foreste. Ed era bellissimo smarrirsi in quel misto di euforia e di consapevolezza: qualcuno aveva risposto alla sua chiamata e forse, un giorno, avrebbe anche potuto vedere la danza notturna delle fate, che pochi druidi, nel Continente, erano riusciti a scorgere nell’oscurità delle foreste più antiche, durante le notti di novilunio:

    Ah, Elbereth Gilthoniel! ¹

    Xunewerikorum keaso Azym.

    Venit, Dryadon, venit:

    Hoenir wos aneiria adlybiton qwerist!

    Le parole sgorgarono spontaneamente da un angolo profondo del suo cuore, quasi che la memoria ancestrale della sua anima si fosse improvvisamente risvegliata («Conoscere è ricordare» gli diceva sempre, con fare bonario, il suo Maestro. «Conoscere è lasciare che la tua anima riesca a far riemergere al livello della coscienza quanto ha appreso nel corso dei millenni. Esiste un sapere enorme, dentro di te: abbandonati a te stesso e tiralo fuori!»). Per la prima volta le parole del suo Maestro gli apparivano chiare: tutto il sapere che aveva cercato nei libri o nelle parole degli anziani era nulla di fronte alla Sapienza Arcana che poteva apprendere dal contatto diretto con la Grande Madre di tutte le cose. Un mormorio di approvazione si levò dagli alberi intorno a lui. La pioggia continuava a cadere, ma il rumore del tuono, alle sue orecchie, sembrava sempre più amico e familiare. I Quattro Elementi, non più la tetra biblioteca del monastero, sarebbero stati la sua nuova patria.

    CAPITOLO I

    I fili della ragnatela

    1

    Per diverse notti aveva trovato conforto nell’oscurità della foresta, aveva udito il mormorio di voci che ormai considerava amiche. Riusciva a sentire il brulichio degli insetti notturni, la voce dei fantasmi di quanti erano stati seppelliti nel bosco, il continuo scorrere del flusso della vita e della morte. Qualsiasi episodio, anche il più insignificante, contribuiva a far vibrare le linee invisibili che percorrono tutta la Madre Terra. Ma era con gli alberi che Hoenir si trovava più a suo agio: passava ore a conversare con gli spiriti del mondo vegetale. Anche rimanere da solo, al buio, ascoltando il mormorio della foresta, diventava per lui un modo per conoscere meglio se stesso oltre al mondo che lo circondava. Quando apriva il suo occhio interiore, anche un pezzo di roccia diventava vivo e svelava storie ed emozioni.

    «Tutto il mondo è vivo; la Natura respira.» Così salmodiava una nenia imparata a memoria dai druidi, secondo la dottrina del Wyrd. In base a questa teoria, tutto l’Universo era pervaso da una propria armonia e da un ordine, come se un’enorme ragnatela percorresse tutti gli angoli dello spazio e del tempo. E tale vibrazione percorreva tutti i fili invisibili della grande ragnatela (il Wyrd, appunto). Ma solo le anime antiche, gli Iniziati ai misteri del cosmo, potevano coglierne la musica.

    Per notti intere Hoenir aveva dunque sperimentato e affinato le sue capacità nella Foresta delle Driadi. Trascorreva ore a conversare, sussurrando parole alla Ninfa che per prima gli aveva risposto. Hoenir non immaginava neppure quanto sarebbe cambiata la sua vita a seguito di quei colloqui.

    Poi, in una notte di novilunio, la Ninfa gli rivolse queste parole: «Un temporale sta arrivando, Hoenir; e tu sei il prescelto!».

    «Che cosa vuoi dire?» domandò stupito Hoenir. «Non capisco...»

    «Cercherò di spiegarti, piccolo Iniziato alle Linee del Mondo. è molto tempo, ormai, che tu vieni a parlare con noi, le creature del bosco. Pensi che questo sarebbe successo, se noi non ti avessimo scelto per qualcosa di importante?»

    «Io... non ne so nulla.» Il giovane druido era disorientato.

    «Hoenir, tu sei un ragazzo dolcissimo, lo sai?» disse la Driade. La sua voce sembrava rimandare a tutto quanto esiste di bello e di puro nel mondo. «Sono contenta che il bosco abbia scelto te.»

    «Ti amo» sussurrò Hoenir all’improvviso.

    «Perché dici questo?» rispose la Driade, preoccupata.

    «Sei la prima persona che mi abbia trattato con tenerezza.»

    «Non devi dire: ti amo, allora. Devi dire: ho bisogno d’amore.»

    «Ho bisogno d’amore.» Dagli occhi di Hoenir stava sgorgando una lacrima: da molto tempo non sentiva quel sapore salato, che gli ricordava antiche ferite mai del tutto rimarginate.

    La Ninfa esitò. «L’amore ti è interdetto, Hoenir. Dubito che ti rimarrà molto tempo per te stesso, da ora in poi. La tua vita non ti appartiene più: non puoi mancare alla missione che il Fato ha deciso per te!»

    «Che cosa stai dicendo, Ninfa degli alberi? Io non so di chiamate, né di missioni...»

    «Di più non mi è concesso dirti: dovrai cercare dentro di te la risposta alle tue domande. Ora va’ a casa, Hoenir, e cerca aiuto nei tuoi libri: capirai presto il significato delle mie parole.»

    Hoenir non udì più le parole della Driade, ma si perse ancora per qualche istante nella contemplazione: il candore rosato dell’aurora, i primi timidi raggi dell’astro dorato, il brulicare di nuova vita tutto attorno a sé gli infondevano forza e speranza per il futuro. Il fatto che il primo sole della giornata arrivasse filtrato dallo schermo degli alberi attorno a lui lo faceva comunque sentire protetto.

    Era in qualche modo consapevole che quell’alba significava per lui la rinascita, ma era confortante sapere che un’entità amica era comunque vicina, pronta a proteggere e a consigliare. Con passo deciso, Hoenir si avviò verso la biblioteca del monastero.

    2

    Per la prima volta in vita sua ce l’aveva fatta! Non era mai stato un grande ladro, e i suoi Maestri alla Gilda più volte l’avevano schernito perché non era riuscito a far funzionare gli arnesi da scasso, o non era stato in grado di padroneggiare la sua destrezza per trafugare gli oggetti. Non era certo stato un allievo modello, Autolico, anche se i suoi precettori gli ricordavano sempre che portava il nome di un grande ladro vissuto molti millenni addietro: non aveva voglia di studiare, né di applicarsi. Le nerbate dei Maestri e il disprezzo degli altri apprendisti non erano valsi a scuoterlo dalla sua apatia. Suo padre, un artigiano di modesta fama, l’aveva sempre considerato un perdente e non mancava mai di rammentarglielo, così come non mancava mai di tessere le lodi del primogenito: forte, aitante e destinato a un roseo avvenire, forse al servizio di qualche glorioso condottiero. Sua madre si limitava, invece, a non occuparsi affatto di lui; il suo unico impegno era quello di ricordare a se stessa e agli altri, con grandi sospiri, che il secondo tentativo di avere un figlio di cui essere fiera era andato miseramente fallito.

    Fu per questo, probabilmente, che Autolico sviluppò un carattere insopportabile: non trovava gioia se non nel risultare odioso agli altri, nel deludere qualsiasi persona che potesse legittimamente aspettarsi qualcosa da lui (meglio ancora se quel qualcuno fosse rivestito di una qualsivoglia autorità), beandosi della sua nomea di incapace e convinto, nel profondo, di meritarsi la qualifica di eterno perdente.

    Forse la scelta di entrare nella Gilda Dei Ladri (mestiere considerato spregevole, anche se un buon scassinatore veniva sempre richiesto da eserciti o compagnie di ventura) fu l’ultimo atto di una serie di azioni da lui intraprese perseguendo un disegno di autodistruzione: l’ennesima ribellione a quanto gli altri avrebbero voluto o preteso da lui.

    Autolico venne ripudiato dalla famiglia una volta accolto nella Gilda, e si trovò di colpo solo al mondo: ma neanche questo lo spinse a fare qualcosa a migliorare se stesso; né un sentimento di rivincita, né di rivalsa entrarono nel suo animo pigro, troppo occupato a dimostrare a se stesso di essere un buono a nulla. Anni di insuccessi nell’apprendistato, una serie di sconfitte accolti con la gioia di chi, perversamente, facendo male a se stesso, crede di fare dispetto a qualcuno: perciò accoglieva le punizioni con un sorriso sornione, le critiche degli amici con dispetto ma senza livore.

    Poi finalmente aveva trovato qualcosa che lo interessava: l’oro e le gemme. Lo sfavillio dei metalli e delle pietre preziose erano qualcosa che lo attirava a prescindere dal loro valore: per lui cercare di impossessarsene era come un gioco. Segretamente aveva imparato tutto sulle gemme e sui metalli preziosi, tutto sulle tecniche per ritrovarli nei nascondigli più segreti, tutto per scassinare i forzieri, tutto sulle mappe dei tesori.

    Ma nessuno doveva saperlo, guai se qualcuno si fosse vantato di avergli insegnato qualcosa, guai se qualcuno si fosse giovato del sapere da lui acquisito: l’avrebbe tenuto per sé e ne avrebbe approfittato alla prima occasione.

    Intanto continuava l’apprendimento delle arti della Gilda, da cui cercava di carpire ora i segreti più nascosti, quelli che gli sarebbero stati più utili al momento di giocare un tiro birbone a qualcuno dei suoi Maestri. Imparava, certo, ma non per diventare un grande ladro: apprendeva per rendere più gustoso il giorno della propria riscossa.

    E finalmente giunse l’ora della sua iniziazione. Secondo la tradizione, Autolico avrebbe dovuto accompagnare i Ladri della Gilda in una delle abituali scorribande notturne. Fortuna volle che i Maestri avessero scelto per lui un’impresa apparentemente facile, senza rischi: svaligiare la casa del ricco mercante Fausto. Un vecchio ostinato che si era rifiutato sempre di pagare una scorta armata: una scelta imprudente...

    I Maestri avevano deciso di punire l’imprudenza del mercante proprio in occasione dell’iniziazione del giovane Autolico, certi che questi non avrebbe avuto difficoltà a trafugare le suppellettili più preziose, mentre ladri più esperti avrebbero puntato alle monete d’oro.

    Autolico non vedeva l’ora di prendere parte all’impresa: uno dei servitori di Fausto, infatti, aveva avuto un’avventura con una donna di taverna, e le aveva imprudentemente rivelato troppe informazioni nel culmine della passione; informazioni molto interessanti e per di più acquistabili a poco prezzo dal primo fortunato in grado di approfittare della situazione.

    Il fato volle che ad apprendere tutto questo fosse stato proprio il giovane Autolico, noto frequentatore di taverne e attento osservatore di tutte le cose che lo circondavano, quando potevano assecondare i suoi fini. E così, in cambio di una manciata di monete, il giovane era venuto a sapere che il mercante Fausto si sentiva particolarmente al sicuro dalle incursioni dei ladri, perché aveva nascosto il suo oro e i suoi monili in cantina, all’interno delle botti del vino peggiore.

    Un’informazione preziosa, per il giovane Autolico, che si era introdotto nottetempo, assieme agli altri membri della Corporazione, nella sontuosa dimora del mercante. Una volta scavalcati i cancelli della villa, i suoi compagni si erano liberati dei cani da guardia con facilità; anche Autolico era riuscito a penetrare nell’edificio; poi, una volta ricevute tutte le istruzioni, se ne era tranquillamente infischiato e si era diretto verso le cantine. Era stato facile introdursi nei sotterranei e localizzare le botti. Come era stato divertente aprirle senza alcuno sforzo e vedere il metallo luccicante davanti a lui... e tutto ciò senza seguire neanche uno degli insegnamenti impartitigli dai suoi Superiori! Aveva esitato, prima di decidere cosa trafugare. In effetti non aveva che l’imbarazzo della scelta. Poi il suo sguardo si era posato su una corona d’oro tempestata di gemme, tutte diverse tra loro.

    A quel punto si era sentito di sopra un certo trambusto: evidentemente, il vecchio aveva alla fine deciso di pagare qualche guardia armata o forse qualcuno della Ronda Notturna si era accorto di qualcosa. Magari quella notte era di turno una delle poche guardie che la Gilda dei Ladri non era ancora riuscita a corrompere.

    Una voce dai piani superiori richiamò Autolico all’ordine per una fuga strategica, ma lui se ne infischiò nuovamente. Afferrata la corona e una manciata di anelli e altre gemme, risalì dalle cantine fino alle stalle della dimora, dove si impadronì con estrema facilità di un cavallo, dandosi alla fuga e senza curarsi minimamente della sorte dei compagni.

    Certo, ora la città di Nea Beograd non sarebbe stata più un punto tranquillo per lui. Ma questo aveva poca importanza: ce l’aveva fatta, in barba a tutti. Una cavalcata a ritmo selvaggio l’avrebbe portato fuori dalle mura della cittadina in breve tempo; poi avrebbe costeggiato le rive del fiume Dunaj, verso ovest, fino a raggiungere la Foresta degli Spettri (la sua conoscenza di mappe e carte geografiche cominciava a tornargli utile, finalmente!). Di lì sarebbe entrato direttamente nelle Terre Desolate: una landa barbarica, ma che poteva rappresentare uno stile di vita alternativo, per chi anelasse a sparire con discrezione.

    New Haven, quella poteva essere la sua nuova patria: era abbastanza vicina al fiume da poter essere raggiunta una volta attraversata la foresta. Stando a quel che riferivano i viaggiatori, non ci si viveva tanto male, se si aveva una sufficiente quantità d’oro.

    E mentre cavalcava immerso in tali pensieri, non si accorse neppure che uno degli anelli di cui si era impossessato brillava di un bagliore sinistro, alla luce della luna.

    3

    Era riuscito a sfuggire

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