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Hoenir il druido
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Hoenir il druido
E-book727 pagine10 ore

Hoenir il druido

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Info su questo ebook

Hoenir il druido è un epic fantasy, ambientato in una terra di un non meglio
imprecisato passato (o futuro?), la cui esistenza sembra sconvolta da
alcuni sinistri presagi; dal duplice piano di lettura: da una parte ci sono le
vicende dei protagonisti, i quali si muovono in un mondo devastato da
un Cataclisma, che ha riportato la civiltà ad uno stato che assomiglia molto
al nostro Medioevo; dall’altra, un misterioso scriba raccoglie fogli e pergamene
del passato, alla ricerca del filo conduttore di una Profezia, e riscopre
le leggende della mitologia ellenica e nordica: è l’antica ed eterna
storia dell’umanità che, nei momenti di grande difficoltà, riesce a riprendersi
raccogliendo e mettendo in ordine i “cocci” del proprio passato.
Le due storie si intrecciano ed intersecano tra di loro e ben presto quattro
ragazzi, poco più che adolescenti, scoprono di essere destinati ad avere
una parte rilevante in una svolta epocale, da cui dipende il destino dell’intero
universo: le forze del Caos vogliono rientrare nella nostra dimensione
e fagocitarla tutta!
Hoenir il druido si lega al senso del meraviglioso in quanto i protagonisti
sono chiamati a confrontarsi con la natura che li circonda, con la loro storia
personale e con quella della loro civiltà; si scontrano, in tal senso, concezioni
diverse della vita: la razionalità di Crise (sacerdotessa di un culto
ispirato allo studio della logica e della filosofia), l’emotività di Autolico (che
segue, senza neanche troppa convinzione, il culto di Haimal, che privilegia
sentimenti e passioni), l’empatia di Hoenir (un druido dedicato al culto
della natura), il buon senso - semplice e spicciolo ma efficace - del fabbro
Kowen.
In che modo queste caratteristiche tra loro apparentemente incompatibili
possano armonizzarsi tra di loro, sarà il lettore a scoprirlo, in questo viaggio
che si interroga sul valore della storia e della tradizione, sulla grandezza
della propria forza interiore e sull’importanza dei messaggi che la natura
ci trasmette attraverso il Wyrd.
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2021
ISBN9791220249638
Hoenir il druido

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    Anteprima del libro

    Hoenir il druido - Daniele Bello

    Table of Contents

    LIBRO I

    La Profezia

    Prologo

    LE TERRE DESOLATE

    Capitolo I - I fili della ragnatela

    Primo interludio - L’incubo di Crise

    Capitolo II - Le trame del destino

    Secondo interludio - Voluspà

    Capitolo III - Spettri e demoni

    Terzo interludio - Edda

    Capitolo IV - La Locanda del Drago Rosso

    Quarto interludio - Yggdrasill

    Capitolo V - New Haven

    Quinto interludio - Marduk

    Capitolo VI - La Città Vecchia

    Sesto interludio - Il Ragnarokr

    Capitolo VII - La Biblioteca del Sapere

    Settimo interludio - Dopo il Crepuscolo degli Dei

    Capitolo VIII - La resa dei conti

    Ottavo interludio - Prometeo

    Epilogo

    LIBRO II

    Il libro proibito

    Prologo: - L’imperatore fantoccio

    Capitolo I - La marcia verso Kracow

    Primo interludio. Leggende dell’antichità (1)

    Capitolo II. La Foresta del lupo

    Secondo interludio - Il Manoscritto dello Ziggurat (3)

    Capitolo III - Il saggio Tfar Kevol

    Terzo interludio - Il sogno della driade

    Capitolo IV - Visioni infernali

    Quarto interludio - La leggenda di Beowulf (9)

    Capitolo V - La stirpe dei Cainidi

    Quinto interludio. - La leggenda dell’astrologo arabo (16)

    Capitolo VI - Il ritorno dei figli dell’Oscurità

    Sesto interludio - I cavalieri di Albione (28)

    Capitolo VII - Kraken

    Settimo interludio - Il popolo di Eriu (29)

    Capitolo VIII - Il rituale oscuro

    Ottavo interludio - Le mille e una notte (32)

    Epilogo

    LIBRO III

    L’iniziazione

    Prologo

    IL MONDO DI HOENIR

    Capitolo I - Il concilio dei druidi

    Primo Interludio - Racconti della dinastia Tang (3)

    Capitolo II - Alto, Altrettanto Alto e il Terzo

    Secondo Interludio - Fiabe nel deserto

    Capitolo III - Era di venti, era di lupi

    Terzo Interludio - Iniziazione (prima prova)

    Capitolo IV - L’assalto delle forze del male

    Quarto Interludio - Iniziazione (seconda prova)

    Capitolo V - Molòn labè!

    Quinto Interludio - Iniziazione (terza prova)

    Capitolo VI - Morte di un tiranno

    Sesto Interludio - Il Mastino di Culann (22)

    Epilogo

    LIBRO IV

    La resa dei conti

    Prologo

    Parte I

    Capitolo I - La battaglia di Nuova Urbe

    Primo interludio - La leggenda di Eracle (parte prima)

    Capitolo II - Vae Victis!

    Ultimo interludio - La leggenda di Eracle (parte seconda)

    Capitolo III - La piana di Byze

    Primo intermezzo corale

    Parte II

    Secondo intermezzo corale

    Capitolo Unico - Il Ritorno dei figli dell’Oscurità

    Primo epilogo

    Secondo epilogo

    Epilogo

    Appendici

    Appendice I - L’imperatore Autolico

    Appendice II - Il Cataclisma

    Appendice III - Le religioni dopo il Cataclisma

    CRONOLOGIA

    NOTE:

    DANIELE BELLO

    HOENIR

    IL DRUIDO

    2021

    EDITRICE GDS

    D. Bello - Hoenir il druido. La saga.

    Editrice GDS

    di Iolanda Massa

    Via Pozzo, 34

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    e-mail: edizionigds@hotmail.it

    Illustrazione in copertina di ©Rosaria Trivisonne

    Illustrazioni interne di ©Daniele Bello

    Grafica copertina di ©Iolanda Massa

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

    Carme per il giovane bardo

    Ascolta, giovane e inesperto narratore,

    le imprese immortali del Druida prescelto,

    al cui nome tremano ancora

    le Forze Oscure degli Antichi Sovrani.

    In epoche buie, di cui è lecito appena

    sussurrare il nome,

    la Terra in cui vivi venne sconvolta

    dal flagello dei Figli del Male.

    Essi emersero dalla terra,

    squarciarono il cielo stellato,

    e il Terrore seminarono tra Elfi e umani.

    Ma i Saggi colsero un segno nel firmamento,

    messaggero di morte e distruzione per il Nemico,

    e forze ancestrali vennero in nostro aiuto.

    Polvere divennero i Figli dell’Oscurità

    eccelsa la gloria di chi li ridusse in cenere,

    gravoso il dovere del bardo di renderla immortale.

    Perciò prestami, o Ninfa ispiratrice

    del canto sacro agli Elfi e alle Fate,

    una misera parte della tua maestria,

    perché i miei versi abbiano la forza

    di sopravvivere all’erosione del tempo...

    Questa poesia, tramandata dalla tradizione dei bardi e dei cantori, risale a un periodo di poco posteriore agli eventi narrati in questo libro, in un’epoca in cui il sapere era ancora affidato alla trasmissione orale delle saghe e delle canzoni.

    Essa riassume le vicende del druido Hoenir e dei suoi amici e veniva utilizzata dai Maestri bardi come esercizio per gli allievi: questo spiegherebbe la popolarità dei versi fino ai giorni nostri.

    LIBRO I

    La Profezia

    Prologo

    Il rumore del tuono in lontananza, le nuvole grigie all’orizzonte, l’inquietudine prima della pioggia… erano tutte sensazioni che gli erano familiari; gli piaceva entrare in contatto con le forze della natura, sentire la poesia che si nasconde dietro le manifestazioni della Grande Madre.

    Solamente gli Iniziati potevano vedere il volo di un falco e la morte di una giumenta e cogliere il misterioso legame che riuniva quei due episodi. Solamente gli Iniziati come lui potevano sentire l’antica rabbia degli elementi in quel vento che infuriava nelle foreste.

    Per tutto il giorno si era esercitato, come gli aveva insegnato il suo Maestro, ad ascoltare le voci degli alberi e finalmente aveva sentito il mormorio delle Driadi: erano creature timide, spesso riservate e a volte ostili.

    Ma lui era riuscito a non urtarne la suscettibilità e alla fine dei suoi pazienti esercizi una voce (un mormorio di quelli che si percepiscono solo dal profondo dell’anima) aveva risposto ai suoi richiami. Era piacevole, ora, sentire il ticchettio della pioggia sferzata dal vento; il contatto dell’acqua sulla propria pelle era quasi una ricompensa. Poteva riposarsi e lasciarsi trascinare nella contemplazione del paesaggio davanti a lui: in piedi, al di sopra di una collina rocciosa, dominava l’orizzonte ricoperto di vegetazione e di alberi il cui sapere era più antico dei suoi avi.

    Hoenir il druido sorrideva, perché non era più solo nel buio delle foreste. Ed era bellissimo perdersi in quel misto di euforia e di consapevolezza: qualcuno aveva risposto alla sua chiamata e forse, un giorno, avrebbe anche potuto vedere la danza notturna delle fate che pochi druidi, nel Continente, erano riusciti a scorgere nell’oscurità delle foreste più antiche, durante le notti di novilunio:

    Ah, Elbereth Gilthoniel!

    Xunewerikorum keaso Azym.

    Venit, Dryadon, venit:

    Hoenir wos aneiria adlybiton qwerist! (1)

    Le parole sgorgarono spontaneamente da un angolo profondo del suo cuore, quasi che la memoria ancestrale della sua anima si fosse improvvisamente risvegliata («Conoscere è ricordare» gli diceva sempre, con fare bonario, il suo Maestro. «Conoscere è lasciare che la tua anima riesca a far riemergere al livello della coscienza quanto ha appreso nel corso dei millenni. Esiste un sapere enorme, dentro di te: abbandonati a te stesso e tiralo fuori!»). Per la prima volta le parole del suo Maestro gli apparivano chiare: tutto il sapere che aveva cercato nei libri o nelle parole degli anziani era nulla di fronte alla Sapienza Arcana che poteva apprendere dal contatto diretto con la Grande Madre di tutte le cose. Un mormorio di approvazione si levò dagli alberi intorno a lui. La pioggia continuava a cadere, ma il rumore del tuono, alle sue orecchie, sembrava sempre più amico e familiare. I Quattro Elementi, non più la tetra biblioteca del monastero, sarebbero stati la sua nuova patria.

    LE TERRE DESOLATE

    Cartina n. 1

    Capitolo I - I fili della ragnatela

    1

    Per diverse notti aveva trovato conforto nell’oscurità della foresta, aveva udito il mormorio di voci che ormai considerava amiche. Riusciva a sentire il brulichio degli insetti notturni, la voce dei fantasmi di quanti erano stati seppelliti nel bosco, il continuo scorrere del flusso della vita e della morte. Ma era con gli alberi che Hoenir si trovava più a suo agio: passava ore a conversare con gli spiriti del mondo vegetale. Anche rimanere da solo, al buio, ascoltando il mormorio della foresta, diventava per lui un modo per conoscere meglio se stesso oltre al mondo che lo circondava. Quando apriva il suo occhio interiore, anche un pezzo di roccia diventava vivo e svelava storie ed emozioni.

    «Tutto il mondo è vivo; la Natura respira». Così salmodiava una nenia imparata a memoria dai druidi, secondo la dottrina del Wyrd. In base a questa teoria, tutto l’Universo era pervaso da una propria armonia e da un ordine, come se un’enorme ragnatela percorresse tutti gli angoli dello spazio e del tempo. Una sottile vibrazione ne percorreva i fili invisibili e solo le anime antiche potevano coglierne la musica.

    Per notti intere Hoenir aveva sperimentato e affinato le sue capacità nella foresta delle Driadi. Trascorreva ore a conversare, sussurrando parole alla Ninfa che per prima gli aveva risposto.

    In una notte di novilunio, una voce sussurrò: «Un temporale sta arrivando, Hoenir; e tu sei il prescelto!».

    «Che cosa vuoi dire?» domandò stupito Hoenir. «Non capisco...».

    «Cercherò di spiegarti, piccolo Iniziato alle Linee del Mondo. È da molto tempo, ormai, che tu vieni a parlare con noi, le creature del bosco. Pensi che questo sarebbe successo, se noi non ti avessimo scelto per qualcosa di importante?».

    «Io... non ne so nulla.» Il giovane druido era disorientato.

    «Hoenir, tu sei un ragazzo dolcissimo, lo sai?» disse la Driade. La sua voce sembrava rimandare a tutto quanto esiste di bello e di puro al mondo. «Sono contenta che il bosco abbia scelto te».

    «Ti amo» disse Hoenir all’improvviso.

    «Perché dici questo?» rispose la Driade, preoccupata.

    «Sei la prima persona che mi abbia trattato con tenerezza, in questi ultimi anni».

    «Non devi dire: ti amo, allora. Devi dire: ho bisogno d’amore».

    «Ho bisogno d’amore». Dagli occhi di Hoenir stava sgorgando una lacrima: da molto tempo non sentiva quel sapore salato, ricordo di antiche ferite mai rimarginate.

    La Ninfa esitò. «L’amore ti è interdetto, Hoenir. Dubito che ti rimarrà molto tempo per te stesso, da ora in poi. La tua vita non ti appartiene più: non puoi mancare alla missione che il Fato ha deciso per te!».

    «Che cosa stai dicendo, Ninfa degli alberi? Io non so di chiamate, né di missioni...».

    «Di più non mi è concesso dirti: dovrai cercare dentro di te la risposta alle tue domande. Ora va’ a casa, Hoenir, e cerca aiuto nei tuoi libri: capirai presto il significato delle mie parole».

    Hoenir non udì più le parole della Driade, ma si perse ancora per qualche istante nella contemplazione: il candore rosato dell’aurora, i primi timidi raggi dell’astro dorato, il brulicare di nuova vita tutto attorno a sé gli infondevano forza e speranza per il futuro. Il primo sole della giornata era filtrato dallo schermo degli alberi attorno a lui e questo lo faceva sentire protetto. Era in qualche modo consapevole che quell’alba significava per lui la rinascita, ma era confortante sapere che un’entità amica era vicina, pronta a proteggere e a consigliare. Con passo deciso, Hoenir si avviò verso la biblioteca del monastero.

    2

    Per la prima volta in vita sua ce l’aveva fatta! Non era mai stato un grande ladro e i suoi Maestri alla Gilda l’avevano schernito più volte. Non era certo stato un allievo modello, Autolico, anche se portava il nome di un grande ladro vissuto millenni addietro: non aveva voglia di studiare, né di applicarsi. Le nerbate dei Maestri e il disprezzo degli altri apprendisti non erano valsi a scuoterlo dalla sua apatia. Suo padre, un artigiano di modesta fama, l’aveva sempre considerato un perdente e non mancava mai di rammentarglielo. Sua madre, invece, si limitava a non occuparsi di lui.

    Fu per questo, probabilmente, che Autolico sviluppò un carattere insopportabile: non trovava gioia se non nel risultare odioso agli altri, nel deludere chiunque potesse aspettarsi qualcosa da lui, beandosi della sua nomea di incapace e convinto, nel profondo, di meritarsi la qualifica di eterno perdente.

    Anche la scelta di entrare nella Gilda Dei Ladri (mestiere considerato spregevole, anche se uno scassinatore veniva sempre richiesto da eserciti o compagnie di ventura) fu forse l’ennesima ribellione.

    Autolico venne ripudiato dalla famiglia una volta accolto nella Gilda e si trovò di colpo solo al mondo: ma neanche questo lo spinse a fare qualcosa per migliorarsi: era troppo occupato a dimostrare a se stesso di essere un buono a nulla. Anni di insuccessi nell’apprendistato, una serie di sconfitte accolte con la gioia di chi, facendo del male a se stesso, crede di fare dispetto a qualcuno.

    Poi finalmente aveva trovato qualcosa che lo interessava: lo sfavillio dell’oro e delle gemme. Segretamente aveva imparato tutto sulle tecniche per scassinare i forzieri e sulle mappe dei tesori. Ma nessuno doveva saperlo: guai se qualcuno si fosse vantato di avergli insegnato qualcosa.

    Intanto continuava l’apprendimento delle arti della Gilda: cercava di carpire ora i segreti più nascosti, quelli che gli sarebbero stati più utili per rendere più gustoso il giorno della sua riscossa.

    Finalmente giunse l’ora della sua iniziazione. Secondo la tradizione, Autolico avrebbe dovuto accompagnare i Ladri della Gilda in una delle scorribande notturne. Fortuna volle che i Maestri avessero scelto per lui un’impresa apparentemente facile: svaligiare la casa del ricco mercante Fausto. Un vecchio ostinato che si era sempre rifiutato di pagare una scorta armata...

    I Maestri avevano deciso di punire l’imprudenza del mercante proprio in occasione dell’iniziazione del giovane Autolico, certi che questi non avrebbe avuto difficoltà a trafugare le suppellettili più preziose, mentre i ladri più esperti avrebbero puntato alle monete d’oro.

    Autolico non vedeva l’ora di prendere parte all’impresa: uno dei servitori di Fausto, infatti, aveva avuto un’avventura con una donna di taverna e le aveva imprudentemente rivelato delle informazioni molto interessanti: per di più acquistabili a poco prezzo.

    E così, in cambio di una manciata di monete, Autolico era venuto a sapere che il mercante si sentiva particolarmente al sicuro dalle incursioni dei ladri, perché aveva nascosto il suo oro e i suoi monili in cantina, all’interno delle botti del vino peggiore.

    Il giovane si era introdotto nottetempo, assieme agli altri membri della Corporazione, nella villa. Una volta scavalcati i cancelli della villa, i suoi compagni si erano liberati dei cani da guardia con facilità; Autolico si era diretto verso le cantine: era stato facile poi introdursi nei sotterranei e individuare le botti. Come era stato divertente aprirle senza alcuno sforzo e vedere il metallo luccicante... e tutto ciò senza seguire neanche uno degli insegnamenti dei suoi Maestri! Aveva esitato, prima di decidere cosa trafugare. In effetti non aveva che l’imbarazzo della scelta. Poi il suo sguardo si era posato su una corona d’oro tempestata di gemme, tutte diverse tra loro.

    A quel punto si era sentito di sopra un certo trambusto: forse, il vecchio aveva alla fine deciso di pagare qualche guardia armata o forse qualcuno della Ronda Notturna si era accorto di qualcosa.

    Una voce dai piani superiori richiamò Autolico all’ordine per una fuga strategica, ma lui se ne infischiò nuovamente. Afferrata la corona e una manciata di anelli e di altre gemme, risalì dalle cantine fino alle stalle della dimora, dove si impadronì con estrema facilità di un cavallo, dandosi alla fuga e senza curarsi minimamente della sorte dei compagni.

    Certo, ora la città di Nea Beograd non sarebbe stata più tranquilla per lui. Ma questo aveva poca importanza: ce l’aveva fatta, in barba a tutti. Una cavalcata a ritmo selvaggio l’avrebbe portato fuori dalle mura della cittadina; poi avrebbe costeggiato le rive del fiume Dunaj, verso ovest, fino a raggiungere la Foresta degli Spettri. Di lì sarebbe entrato direttamente nelle Terre Desolate.

    New Haven, quella poteva essere la sua nuova patria: era abbastanza vicina al fiume da poter essere raggiunta una volta attraversata la foresta. Stando a quel che riferivano i viaggiatori, non ci si viveva tanto male, se si aveva una sufficiente quantità d’oro.

    E mentre cavalcava immerso in tali pensieri, non si accorse neppure che uno degli anelli di cui si era impossessato brillava di un bagliore sinistro, alla luce della luna.

    3

    Era riuscito a sfuggire alla feroce vendetta delle guardie, certo, ma qualsiasi speranza di tornare un giorno a casa gli era preclusa per sempre: era un braccato, ormai, un senza patria: uno spostato, come dicevano gli anziani del villaggio, un uomo che aveva perso le sue radici.

    Qualsiasi altra persona avrebbe provato disperazione, versando lacrime di rabbia. Qualsiasi altro abitante del villaggio si sarebbe fermato a gemere sotto il cielo illuminato dalla malinconica luna, gridando alle stelle le proprie disgrazie.

    Ma Kowen non era tipo da lasciarsi andare: era vivo, questa era la cosa più importante; ed era riuscito a lasciarsi alle spalle i propri inseguitori, talmente vigliacchi da non arrischiarsi a seguirlo nella Foresta degli Spettri. Secondo sciocche superstizioni nessuno era tornato vivo da quella foresta, infestata da creature maligne di cui era opportuno tacere il nome.

    In un’altra occasione Kowen avrebbe dato retta alle dicerie; ma in questo caso si trattava di scegliere tra le spade della Guardia Civica e il viaggio dentro terre sconosciute: e Kowen non aveva avuto dubbi!

    Forse aveva commesso una pazzia attirandosi l’ira della comunità, ma non ne era assolutamente pentito. Anche se figlio di un umile fabbro, Kowen era stato allevato secondo principi rigorosi. Se lo ricordava ancora, suo padre: umile, ma pieno di dignità anche di fronte ai nobili; forte, ma capace di dolcezza con i suoi figli; era in grado di passare serate intere nelle taverne, ingurgitando birra e cantando versi osceni, ma non aveva mai mancato di rispetto a una donna, non aveva mai aggredito una persona se non per difendersi.

    Kowen aveva pianto molto suo padre quando era morto al termine di una serena vecchiaia. Lavorare nella fucina insieme ai suoi fratelli era un modo per sentirlo ancora vicino a sé: le pareti sembravano trasudare ancora il calore e la presenza del genitore, che ai suoi occhi e per il suo cuore continuava a vivere ancora.

    Poi, l’episodio che lo avrebbe segnato: il figlio dell’Esarca era giunto con alcuni giovani cavalieri del suo seguito deciso a commettere qualche bravata. Quando si limitavano a una scorribanda nelle taverne, contadini e commercianti ne sopportavano tranquillamente l’arroganza, persino quando devastavano i campi o rovesciavano le casse di frutta e verdura al mercato locale. Ma quando si erano messi in testa di molestare le donne e avevano addirittura tentato di usare violenza nei confronti della giovane figlia del fornaio, Kowen non era riuscito a tenersi a freno.

    Gli insegnamenti del padre gli erano tornati alla mente tutti insieme. La visione di quello che era giusto fare era talmente chiara dentro di lui da non lasciare il tempo per i dubbi: Kowen aveva messo mano alla spada e aveva caricato contro quelle squallide caricature di cavalieri.

    Sorpresi, i giovani se l’erano data a gambe levate, senza neanche abbozzare una reazione.

    Kowen aveva menato tre o quattro fendenti a caso, per essere certo che gli aggressori comprendessero le sue intenzioni, ma la battaglia non aveva neppure avuto inizio. Dopo pochi istanti Kowen si ergeva solo, sulla piazza del borgo, mentre roteava ancora ferocemente la spada e gridava insulti all’indirizzo dei fuggitivi. La ragazza che aveva salvato era fuggita. La folla si stava avvicinando con aria smarrita.

    Qualche istante dopo il giovane fabbro si accorse del ragazzo che giaceva ai suoi piedi, esanime: uno dei suoi colpi era andato a segno. Il caso aveva voluto che il corpo di quel giovane fosse proprio quello del figlio dell’Esarca. La folla lo guardava con orrore; qualcuno gridava a squarciagola: «Assassino!».

    Kowen capì che non era il momento di discutere: doveva prendere una decisione rapida.

    Consegnarsi alla Guardia Civica? E come dimostrare la propria innocenza di fronte a una folla inferocita? Nascondersi e aspettare che si calmassero le acque, rassegnandosi a vivere come un reietto?

    Nemmeno per idea! Kowen prese la decisione più fiera e istintiva: chiudere per sempre con il passato. Una galoppata furiosa, fino all’imbrunire, per lasciarsi alle spalle quella città ingrata, e poi finalmente la salvezza sul limitare del bosco.

    Era buio, ormai, e tra lui e la sua nuova vita c’era solo un intricato arabesco di alberi, che sembravano promettergli l’ingresso in un mondo diverso. L’oscurità avrebbe cancellato le sue ultime tracce, pensò Kowen: lentamente imboccò il sentiero che si insinuava all’interno della foresta.

    4

    Non aveva mai osato sperare (nei lunghi anni del suo esilio), in una simile fortuna; eppure era successo. Lo stregone si era illuso di poterlo controllare: non sapeva, il tapino, che gli incantesimi per evocare gli Spiriti delle Altre Dimensioni non bastano da soli a garantire la salvezza.

    Il giovane studioso di arti magiche non immaginava che l’evocazione costituisce solamente una parte della conoscenza che occorre per sopravvivere nel mondo della Negromanzia. Ben più difficili sono le formule che permettono di controllare gli Esseri provenienti dall’Altrove, poco propensi ad accettare di essere trasportati in un altro piano di esistenza.

    Esistono parole arcane, antiche quasi quanto il linguaggio dei continenti perduti, che consentono ai maghi più esperti di dominare le potenze demoniache; ma la voce dello sventurato e giovane mago aveva tremato proprio nel momento più delicato del rituale: un’esitazione che gli era stata fatale.

    Per molti eoni aveva aspettato questo momento, fin da quando lui e i suoi Fratelli erano stati confinati negli interstizi spazio-temporali che si nascondono tra una dimensione e l’altra.

    Di lì aveva tentato più volte di strappare quel velo magico che gli avrebbe consentito di tornare nelle dimensioni dei quattro elementi, dove avrebbe potuto nutrirsi e placare la sua fame atavica.

    Più di una volta aveva cercato di varcare quelle barriere, per poter uscire dall’incolore oblio in cui i Figli dell’Oscurità trascorrevano la loro esistenza. Invano: i Custodi degli universi a quattro dimensioni lo avevano sempre ricacciato via.

    Erano stati i padroni dell’universo intero, una volta: gli Ancestrali, così li chiamavano i seguaci delle Profezie dell’Oscuro: in tempi remoti avevano dominato le sfere infinite di quel grande e caotico ricettacolo che non era né vita, né morte, ma semplicemente il Nulla.

    Gli elementi primigeni della materia e dell’energia, allora, permeavano l’intero universo in continua espansione, fusi tra di loro in un’unica pseudo-sostanza senza spazio né tempo.

    In questa congerie che non conosceva né ordine, né leggi di natura, ma solo un ribollire di pura potenzialità, regnavano sovrane e indisturbate le entità del disordine: gli Ancestrali, appunto, che trovavano soddisfazione solo nel nutrirsi continuamente di energia.

    Poi, dalle profonde viscere del Ginnungagap (questo il nome con cui gli Dei chiamavano il vorticoso agitarsi degli elementi) emersero gli Dei dell’Ordine e dell’Armonia; essi piegarono gli Elementi alle loro leggi, e riuscirono a scuotere l’universo: laddove era identità, essi stabilirono la differenza; lo spazio e il tempo vennero per la prima volta a esistere, l’acqua si distaccò dall’aria, il fuoco fuggì verso l’alto allontanandosi dalla terra, le leggi della Natura (plasmate dalla mano di un Dio amante della geometria) furono create per regnare immutabili.

    Gli Ancestrali avevano assistito al mirabile fenomeno della Creazione, senza poter opporre nulla al di fuori dell’inerzia. Sbigottiti da quella immane esplosione di energia, essi erano turbati dalla separazione degli elementi ma terribilmente attratti da quelle nuove forme; il loro unico desiderio era quello di fagocitarle per farlo tornare a quello che era sempre stato: un vuoto, calmo, indistinguibile Nulla.

    Ne era derivata una Guerra Cosmica, in cui si erano fronteggiate senza esclusione di colpi le Forze della Vita e quelle dell’Entropia: lottavano tra di loro l’Ordine contro il Caos, il libero fluire dell’energia contro l’eterna quiete del Non-Essere, la speranza della Vita, dell’Intelligenza e della Coscienza contro l’Unità Indifferenziata. E alla fine gli Ancestrali erano stati sconfitti e scacciati dall’universo.

    Erano stati relegati in piani di esistenza senza dimensione, nei quali galleggiavano in uno stato intermedio, che non dava loro né il sapore della vita, né la quiete della morte.

    Il Limbo a cui erano stati condannati li costringeva a vagare all’interno di quel piano etereo e incolore; ma una parte della loro essenza pulsava ancora, pronta a essere risvegliata dal magico sapore dell’energia, che avrebbe fatto rivivere quel loro insano bisogno di distruggere qualunque frutto della creazione. Solo nell’annichilimento totale essi avrebbero trovato la loro piena soddisfazione, placando il loro desiderio di tornare alla quiete eterna e senza scopo.

    Erano stati sconfitti, molti eoni fa: ma ora Lui era tornato. Era riuscito a entrare in quel mondo pulsante di vita: molti Fratelli, lo sentiva, giacevano addormentati, pronti a seguirlo a un suo richiamo.

    Da quel momento, i Destini dell’universo avrebbero cambiato direzione...

    Primo interludio - L’incubo di Crise

    Da mesi era tormentata sempre dallo stesso incubo: la sola idea di addormentarsi ormai le era diventata intollerabile. Poco importava il fatto che avesse concluso la sua giornata oppressa da pensieri e preoccupazioni o che si fosse avvicinata al giaciglio soddisfatta e serena.

    Era sufficiente per lei sfiorare il guanciale per essere catturata da un sonno profondo, salvo poi essere raggiunta dalla stessa delirante visione: allora si svegliava madida di sudore, convinta di avere incontrato una presenza ripugnante e paurosa.

    La sensazione di inquietudine si trascinava per qualche minuto; dopodiché subentrava una nuova tranquillità che la illudeva ogni volta; purtroppo per lei, invece, ogni tentativo di riprendere sonno era accompagnato da visioni che le impedivano di riposare.

    Questa volta, tuttavia, aveva deciso di fronteggiare il nemico che nascondeva nella profondità del proprio io: aiutata dal conforto della preghiera e della meditazione, aveva imparato molto e acquisito notevoli doti di autocontrollo. Si sentiva ormai pronta a seguire i suoi incubi fino in fondo.

    Si era addormentata serenamente e aveva aspettato che si manifestassero le sue paure...

    Aveva la precisa sensazione di camminare, apparentemente senza meta, all’interno di una foresta oscura. L’ambiente circostante, completamente privo di vita e di calore, le trasmetteva una sensazione di gelo.

    Si sentiva osservata da occhi invisibili, pronti a cogliere un suo passo falso per afferrare la sua essenza vitale e farla precipitare per sempre nel regno dell’oscurità.

    Era infine uscita dalla foresta maledetta; erano le prime luci dell’alba e poteva vedere chiaramente il paesaggio davanti a sé...

    Desolazione, morte e putrefazione aleggiavano intorno a lei: ovunque, una sensazione di agonia e disperazione, come se tutto fosse perduto.

    Il Nemico era in ascolto, lo sentiva, pronto a nutrirsi della sua paura: veniva da altrove, ma non capiva da dove; non riusciva a scorgerlo, ma la sua presenza era inequivocabile: la Natura, intorno, era avvizzita, rassegnata a una esistenza incolore.

    Anche i colori apparivano irreali: il verde che la circondava si confondeva spesso con un grigio inespressivo... e di nuovo, opprimente, quella presenza oscura, pronta a divorare e fagocitare tutto.

    Aveva voglia di piangere, di scappare, di nascondersi, di sottrarsi in qualche modo a quell’incubo che sapeva di morte: ma qualcosa la spingeva a continuare.

    Camminava in quella che non era più una valle, ma una tetra galleria: anche la densa aria che respirava emanava malvagità e tutt’intorno a lei si muovevano sinistre creature di cui non osava neppure immaginare la forma.

    Fitte ragnatele le impedivano il passo. Ogni tanto, poi, incespicava in qualche essere viscido, che subito si riparava in un anfratto nascosto. Camminare era sempre più difficile su di un fondo umido sul quale si era formati numerosi acquitrini.

    Proseguiva ancora, inghiottita sempre di più da quel buio che sembrava volerla ghermire per sempre...

    Poi, d’un tratto, venne investita da un’immensa cascata di luce. Si svegliò, madida di sudore, ma – alfine – serena. «Hoenir» le sussurrava di continuo una voce nascosta. E nella sua mente si formava il pensiero – sempre più definito – della città di New Haven.

    E per Crise, giovane sacerdotessa di Glynis, non ci furono più dubbi su cosa dovesse fare.

    Capitolo II - Le trame del destino

    La Guerra Civile del 235 a.G. (2) è l’unico evento di datazione certa tra quelli anteriori al grande disastro naturale passato alla storia come il Cataclisma, il quale pose fine in modo drammatico al progresso raggiunto dall’umanità nelle ere precedenti... La Guerra Civile che precedette il Cataclisma scoppiò probabilmente a causa dei contrasti sorti a quell’epoca tra le Corporazioni Economiche, il cui potere si era, di fatto, sostituito da tempo al potere politico... L’utilizzo delle sofisticate armi in uso all’epoca (a tutt’oggi sconosciute) provocò uno sconvolgimento di immani proporzioni e la morfologia del pianeta venne totalmente sconvolta.

    ENCICLOPEDIA DEL SAPERE (3)

    1

    All’interno della taverna, scoppiettava un fuoco caldo e rassicurante, che invitava a dimenticare tutte le preoccupazioni. Fuori era una gelida nottata autunnale e spirava un forte vento, ma all’interno della Locanda del Drago Rosso regnava un clima allegro. I camerieri giravano di tavolo in tavolo servendo ai clienti enormi vassoi di radici fritte e scodelle piene di stufato fumante; l’oste mesceva continuamente birra e idromele nei bicchieri di coccio.

    Dopo una dura settimana di lavoro, contadini, pastori, fabbri, soldati della Guardia Civica, commercianti e viaggiatori si davano appuntamento all’interno di quelle sicure mura di legno e pietra. Il fumo faceva lacrimare gli occhi, ma questo aveva poca importanza. La gente chiacchierava, ascoltava le ultime canzoni dei bardi itineranti, giocava d’azzardo, trattava affari e tentava improbabili approcci notturni.

    Faceva molto freddo, quella notte. La notte era vecchia e i clienti della locanda erano rapiti dalle scintille del fuoco che guizzavano verso l’alto, mentre in sottofondo si udivano dita esperte pizzicare le corde di un’arpa.

    In pochissimi avevano notato tre clienti dall’aria anonima, vestiti con abiti consunti, secondo la foggia dei mendicanti. Sorseggiando senza avidità il loro idromele, i tre giocavano muovendo pedine bianche, rosse e nere su di una scacchiera dalla forma triangolare.

    Uno dei componenti del terzetto sembrò mettere a segno una mossa decisiva, accompagnata da un mormorio di approvazione da parte degli altri due.

    «Sembra che il tuo alfiere stia giocando un ruolo decisivo in questa partita, Fratello» esclamò il mendicante che gli sedeva di fronte: portava un largo cappello che gli nascondeva buona parte del viso. Un osservatore attento, tuttavia, avrebbe notato che quell’uomo anziano, dalla barba folta, era orbo di un occhio.

    «Già» rispose soddisfatto il giocatore che aveva appena effettuato la mossa. «Ora è il vostro turno di rivelare la strategia. Faremo anche stavolta ciascuno per proprio conto come nelle partite precedenti?».

    Senza parlare, il terzo giocatore – dopo aver tamburellato a lungo con uno scacco di colore nero – pose il pezzo sulla scacchiera con sguardo inespressivo: gli altri sembravano sorpresi da quella mossa. Si scambiarono altre occhiate e gesti di intesa in un linguaggio antico e noto solamente a loro.

    «È dal tempo in cui uccidemmo il gigante Ymir, che non ci troviamo tutti e tre a percorrere lo stesso sentiero» esclamò il giocatore orbo, muovendo con fare deciso il proprio pezzo bianco: «È così importante la posta in gioco?»

    «Temo proprio di sì» fu l’immediata risposta del giocatore che muoveva i pezzi rossi. «Non fare finta di non saperlo, non mi inganni con le tue frasi a effetto... Sei sempre stato un istrione, ma io so benissimo che conosci le regole meglio di me.»

    «A te non posso nascondere nulla, fratello mio» disse sorridendo il suo interlocutore soppesando uno scacco dal colore bianco. «Conosco le leggi del cosmo che abbiamo creato: ricordate, fratelli?

    Era l’inizio dei tempi

    quando nulla esisteva,

    non c’era sabbia né mare

    né fresche onde;

    non c’era la terra

    né il cielo lassù,

    c’era il baratro degli abissi,

    ma non c’era l’erba (4)

    «Uccidemmo i giganti del ghiaccio ed esiliammo i figli della regione del fuoco guidati da Surtr dalla spada fiammeggiante. Ponendo il corpo del gigante Ymir nel mezzo di Ginnungagap, creammo il Midgard, la Terra di Mezzo.

    Dalla carne di Ymir fu fatta la terra,

    dal suo sangue il mare,

    dalle ossa le montagne,

    gli alberi dalla chioma,

    dal cranio il cielo (5)

    «Fu proprio allora che sorse il grande frassino Yggdrasill, il garante dell’equilibrio del mondo. Prima c’erano stati gli Ancestrali; ma quella è un’altra storia.»

    «Sei sempre stato un poeta e un idealista, Wotan; vorrei avere il tuo estro: ma sai benissimo che la mia adesione, oggi, è frutto di un mero calcolo. Se il cosmo venisse fagocitato dagli Ancestrali, non avrei un universo da plasmare e da far sottostare al mio potere.» Le parole del giocatore dagli scacchi neri erano arcigne. Ma, muovendo uno scacco dalle retrovie, abbozzò un mezzo sorriso e disse: «Con questa mossa le nostre forze sono in equilibrio, Fratello; sono dalla tua parte».

    «Non ho mai dubitato della tua lealtà, Lothur» rispose Wotan; poi, guardando con il suo unico occhio il terzo giocatore sussurrò: «Ora aspettiamo la tua mossa, fratello; dovresti essere lusingato del fatto che il tuo protetto porti il tuo nome».

    Il terzo giocatore soppesò con calma il suo alfiere, poi posò con fare aristocratico il pezzo sulla scacchiera e disse: «Stallo. Ora le nostre posizioni sono in perfetto equilibrio. Speriamo che sia sufficiente a fronteggiare le Forze dell’Oscurità».

    I tre si fissarono a lungo senza parlare, come accade spesso nei momenti solenni. Poi, una voce gracchiante li risvegliò dalla loro meditazione; era quella dell’oste che trafelato giunse al loro tavolo. «Si chiude, signori: il nostro Duca, lo sapete, proibisce ai locali di rimanere aperti dopo Sesta».

    Il giocatore che muoveva gli scacchi rossi osservò per un lungo istante i pezzi sulla scacchiera, poi inarcò le sopracciglia e sorridendo a mezza bocca disse: «Tu non lo sai, oste, ma forse tra alcuni giorni nella tua locanda potranno incontrarsi persone in grado di mutare il destino dell’intero universo... Non ti chiedo molto, ma cerca di versare loro della birra un po’ meno annacquata».

    L’oste cominciò a chiudere il locale senza prestare troppa attenzione alle parole degli ultimi tre avventori, che si stavano allontanando ridacchiando, barcollando come degli ubriachi.

    2

    Il giovane Hoenir stava mettendo nella bisaccia i pochi oggetti di sua proprietà, all’interno della sua cella nel Monastero.

    Vi era stato un periodo in cui i druidi e tutti coloro che erano dotati di qualità particolari (i Filid, così li chiamavano i suoi Maestri) non avevano una fissa dimora, ma girovagavano di terra in terra mettendo al servizio di chiunque ne avesse bisogno i doni che la Natura aveva loro concesso.

    I loro templi erano radure all’interno di foreste antichissime.

    Con il tempo anche i druidi si erano adattati a vivere in edifici, soprattutto in corrispondenza di incroci particolari delle linee di potere, dove le vibrazioni del Wyrd potevano sentirsi con maggiore intensità.

    Essi tendevano a rifugiarsi, generalmente, all’interno di strutture abbandonate da tempo, dove l’opera in muratura dell’uomo finiva per confondersi con il verde delle piante e dei rampicanti. Solo la biblioteca rimaneva linda e protetta dalla furia degli elementi. I druidi da secoli avevano vinto la ritrosia che, in passato, aveva impedito loro di mettere per iscritto la summa del loro sapere.

    L’apprendimento della saggezza druidica per mezzo della tradizione orale (tramandata unicamente per mezzo della memoria) costituiva ancora il corpus principale dell’educazione di ogni iniziato, ma anche i Sacerdoti della Natura avevano ormai capito l’importanza e l’utilità dei manoscritti per la diffusione della loro dottrina.

    Hoenir era stato uno dei sostenitori più entusiasti della nuova biblioteca dei druidi, convinto com’era che il libro costituisse il mezzo più adatto alla conservazione e alla comunicazione della cultura. Del resto, egli era nato in mezzo ai libri e li aveva sempre adorati... ma questo, ormai, faceva parte del passato.

    Mentre si soffermava ancora una volta sui suoi oggetti personali, avendo cura di non dimenticare nulla, volse un ultimo sguardo affettuoso alle mura della propria cella: ogni dettaglio, anche se insignificante per i più, racchiudeva in sé un’emozione, che Hoenir si sforzava di fissare per sempre nella sua memoria.

    Non poteva non ripensare ai cinque anni trascorsi nel Monastero dei druidi: cinque anni in cui aveva messo a disposizione il suo sapere e il suo amore per i libri e la cultura, ma nei quali aveva imparato a vedere e sentire il mondo in maniera diversa. I druidi facevano lezione nelle radure, lo portavano a cogliere erbe durante i pleniluni, parlavano di eventi accaduti millenni addietro e dicevano di aver appreso quelle cose abbracciando le tombe dei trapassati o ascoltando il sussurro del vento... Parlavano di Linee di Potere, di fili invisibili che sorreggevano il mondo, di un frassino dilaniato dai draghi e dall’incessante scorrere del tempo.

    Hoenir non capiva di cosa stessero parlando, all’inizio, ma ciò non aveva importanza: aveva soddisfatto il suo desiderio di fuggire dal mondo e aveva visto nei druidi non solo dei Maestri, ma anche degli amici sinceri.

    Quello che aveva conquistato definitivamente il cuore di Hoenir era il modo in cui i druidi si ponevano nei confronti della vita: pur mantenendo spesso quell’aria compassata di chi eredita un sapere antico di millenni, essi non si distaccavano dalle intense emozioni del vivere quotidiano, ma ne attingevano a piene mani.

    I suoi Maestri ridevano a crepapelle, bevevano birra e idromele e mostravano di reggere benissimo le ubriacature. Anche il piacere della carne non era ignoto ai druidi, anche se i più morigerati si limitavano a partecipare alle feste in onore della Grande Madre, durante le quali le inibizioni dovevano cedere di fronte all’inno alla fertilità.

    Era l’antica festa di Beltene, dicevano, e tutti dovevano rendere omaggio alla Madre, l’unica Dea venerata da decine di migliaia di anni. Hoenir la ricordava come se fosse successo il giorno prima, quando era stato iniziato al sesso da un’intraprendente Sacerdotessa più grande di lui. L’aveva trascinato in una grotta e per la prima volta aveva goduto del sacro fuoco della passione e provato l’ardore dell’amplesso. Da allora, aveva sempre onorato la Dea durante le feste sacre.

    Aveva trascorso anni tra i druidi, mettendo a disposizione tutto il suo entusiasmo per l’organizzazione della biblioteca e seguendo con avidità le lezioni in mezzo ai boschi; sentiva però che gli mancava ancora qualcosa per entrare veramente nel loro mondo.

    I druidi non avevano fretta; ai loro occhi, non era importante che un giovane serbasse nella memoria i loro insegnamenti ma, piuttosto, che facesse emergere dal proprio io i suoi tesori più preziosi.

    Da quando si era presentato al Monastero offrendosi come bibliotecario, lo avevano accolto con affetto. Era considerato un promettente apprendista. Qualcuno lo chiamava già Iniziato, ma lui sapeva, in cuor suo, di non esserlo. Poi, c’era stato l’incontro con la Driade...

    «Maestro ho bisogno di parlarti» aveva esclamato Hoenir, trafelato.

    «Giovane Accolito, non imparerai mai la sublime arte della pazienza? Perché non mi aiuti a catalogare le erbe, prima? Dopo potremo parlare in tutta tranquillità!»

    Hoenir si era messo ad aiutare il druido Fan-Horn, uno degli Iniziati più anziani della comunità. Il suo sapere nel campo della botanica era immenso, ma ancora più grande era il carisma che esercitava su tutti i membri del Monastero, così che nessuna decisione in seno al Concilio dei Druidi veniva presa senza il suo beneplacito.

    Hoenir aveva ostentato una finta tranquillità, ma il corpo tradiva la sua impazienza.

    Fan-Horn lo aveva fissato negli occhi, cingendogli le spalle con le sue mani robuste. «Tu hai visto qualcosa, Hoenir» gli aveva detto con una tranquillità disarmante. «Vuoi parlarne?»

    Hoenir aveva farfugliato una mezza frase, incapace di dare un senso compiuto ai propri pensieri.

    Fan-Horn, con un sorriso, aveva tentato di spiegargli: «Sento il Wyrd vibrare intensamente da quando sei giunto in questa stanza. E il tuo volto è quello di un uomo maturo, nonostante tu abbia vissuto solamente ventidue feste di Samain».

    Fan-Horn aveva poggiato il palmo della sua mano sulla fronte di Hoenir e si era concentrato per alcuni interminabili secondi. Poi, aveva increspato le labbra in un mezzo sorriso e lo aveva fissato con uno sguardo a metà tra il triste e l’orgoglioso. «Hai visto la Driade, vero?»

    Hoenir era arrossito, come se lo avessero sorpreso con le guance sporche di miele: «Fan-Horn, io... non pensavo che fosse proibito. E poi mi ha parlato di profezie, di una vita che non mi appartiene più...»; Hoenir stava piangendo. «In che cosa sono caduto, Maestro? Aiutami!»

    Fan-Horn si era seduto su una panca e aveva aspettato con pazienza che il suo discepolo facesse altrettanto. Quando aveva ripreso a parlare, i suoi occhi risplendevano di una luce quasi innaturale e il suo sguardo sembrava abbracciare un panorama di un altro tempo. «Io so quello che provi. Quando avevo più o meno la tua età, anch’io fui accolto con benevolenza dalla voce della Driade.»

    Hoenir aveva cominciato a prestare maggiore attenzione alle parole del suo Maestro, quasi sollevato.

    «Non sono mai riuscito a vederle in viso, ma la loro voce era dolcissima. Ti confesso che mi ero quasi innamorato.»

    Le gote di Hoenir si erano nuovamente velate di rossore e il giovane Accolito aveva abbassato immediatamente il capo.

    «Ero disposto a fare qualunque cosa, anche a lasciare il Monastero, per lei; ma la Driade mi disse che il ruolo a me assegnato dalla Profezia era un altro...»

    Hoenir aveva spalancato gli occhi. Fan-Horn per un attimo aveva sorriso di quello stupore; poi aveva ripreso il filo. «Vedi, amico mio, l’Universo intero si regge su un sottile equilibrio tra forze contrapposte. Questo equilibrio viene solitamente illustrato, nella filosofia druidica, con la metafora – tratta dai miti degli antichi popoli del Nord – del frassino Yggdrasill. Questo albero abbraccia e sorregge tutti i mondi conosciuti e finché rimarrà in vita il Cosmo, così come lo conosciamo, conserverà la sua stabilità.

    «Ma le radici di Yggdrasill sono continuamente minacciate dalle Forze del Male: i draghi divorano continuamente alcune radici, mentre altre sono sorvegliate dalle Norne, le sinistre Dee che sorvegliano l’incessante scorrere del tempo.

    «Al termine di ogni ciclo cosmico, Yggdrasill comincia a tremare: a quel punto, le divinità dell’Ordine e del Caos si affrontano in una guerra totale, senza esclusione di colpi, alla fine della quale l’universo intero potrà essere preservato o spazzato via per sempre.

    «Nel corso degli eoni, le Forze del Caos sono state respinte, come è successo all’epoca in cui i figli di Bor uccisero il gigante Ymir e scacciarono i Grandi Antichi, oppure quando Marduk annientò la Regina del Caos, Tiamat.

    «Ma potrebbero essere le Forze Oscure, un giorno, a prevalere, anche se solo temporaneamente – per nostra fortuna – come è scritto nella leggenda del Ragnarok, quando il gigante Surt avvilupperà l’universo nelle spire delle sue fiamme, trovando la morte nell’incendio da lui stesso creato; oppure durante l’ultimo cataclisma, poco prima dell’Era di Glynis.»

    Hoenir ammutolì, incapace di replicare.

    Fan-Horn aveva proseguito. «Siamo quasi alla fine di un ciclo Cosmico, Hoenir. La Driade mi aveva avvertito. Tutti noi siamo tenuti a giocare un ruolo importante, nella guerra che oppone l’Ordine al Caos, la Luce all’Oscurità. E questo ruolo è scritto in una Profezia, nota solamente alle Creature più antiche. Se la Driade te ne ha fatto menzione, è evidente che la tua posizione deve essere molto rilevante, anche se non ti è stato svelato.»

    Hoenir si era fatto sempre più inquieto, mentre ascoltava le parole del suo Maestro, ma alla fine si era deciso a parlare. «La Driade ti ha rivelato il tuo ruolo nella Profezia?»

    Fan-Horn aveva assunto un’espressione più grave del solito e l’aveva fissato a lungo, prima di rispondere. «Sì, ragazzo mio: il mio ruolo sarebbe stato quello di istruire il prescelto.»

    Hoenir, all’improvviso, aveva capito le parole della Driade. «Il prescelto? Ma... allora, Fan-Horn, sei tu che devi insegnarmi...»

    Fan-Horn aveva prevenuto le sue obiezioni. «Non ho più nulla da insegnarti, Hoenir. D’ora in poi, dovrai cercare da te stesso la tua via.»

    I due si erano abbracciati a lungo, prima di guardarsi negli occhi. Al momento di lasciarsi, entrambi avevano gli occhi lucidi.

    3

    Era l’imbrunire, ormai, e Autolico spingeva il suo cavallo al piccolo trotto mentre si avvicinava sempre di più alla Foresta degli Spettri. Un po’ dell’euforia che l’aveva accompagnato nella galoppata da Nea Beograd fino ai margini del bosco era scemata.

    Forse era lo strano gioco di luci e ombre del tramonto a dare un aspetto sinistro al paesaggio circostante, forse Autolico aveva realizzato solo in quel momento di essere solo, inviso alla Gilda e ripudiato dalla sua famiglia: con quella bravata aveva tagliato i ponti con il suo passato.

    Per un attimo un sentimento vagamente riconducibile alla malinconia aveva fatto ingresso nella sua mente svogliata, ma Autolico l’aveva scacciato via infastidito.

    Non lo avrebbe mai confessato a nessuno, in seguito, ma imboccando il sentiero che lo avrebbe portato all’interno della foresta aveva meditato più volte di tornare indietro; mentre il cavallo andava al passo, aveva cominciato a tremare...

    La Foresta appariva ancora più tetra di quanto avesse immaginato: alberi secolari dai molteplici rami si protendevano, agli occhi di chi attraversava il sentiero, fino a sfiorare il cielo. Neanche uno spicchio di luce solare penetrava all’interno di quel complicato ricamo. Altri rami erano intrecciati tra loro in un mosaico che sembrava chiudersi in un abbraccio senza scampo intorno al malcapitato di turno. Altri ancora, invece, pendevano fino a sfiorare il suolo, quasi a fiutare la presenza degli estranei.

    Autolico continuava il suo viaggio, con quella che era oramai solo una parvenza di coraggio. Deglutendo a fatica, si sforzò di incitare il cavallo a un’andatura più veloce, ma questi per poco non si imbizzarrì. Autolico, allora, decise (saggiamente) di non forzare più l’animale.

    Piuttosto mingherlino, il giovane ladro non aveva tratti somatici tali da richiamare su di sé l’attenzione: capelli castani, lunghi e mal curati, erano l’unica concessione all’estro; ma un fine e attento osservatore avrebbe potuto cogliere un velo di tristezza nei suoi occhi verdi.

    Autolico proseguiva, ancora, lungo un sentiero interminabile e sempre uguale... Era il vento, a ululare in quel modo, o era un demone nascosto tra le fronde? Non lo sapeva, ma preferiva non pensarci.

    Più il tempo passava e più l’atmosfera gli appariva irreale: nonostante la foresta fosse avvolta da un’oscurità assoluta, il sentiero sembrava animato da una sorta di fluorescenza, che guidava i passi del suo cavallo. Sembrava incredibile come il bosco fosse in grado di riempire tutti gli interstizi, impedendo alla luce di filtrare, e tuttavia consentisse l’esistenza di quel vuoto irreale.

    Poi, all’improvviso, un rumore di ali che sbattevano allertò il ragazzo, che sguainò immediatamente la spada. La creatura alata si gettò a capofitto su di lui. Autolico menò un fendente, ma l’essere con una rapida manovra lo evitò librandosi in alto, al di fuori della portata della lama.

    Il cuore di Autolico accelerò: gli ci vollero due minuti buoni per capire che la strana creatura che l’aveva attaccato era solo un gufo. L’atmosfera che permeava il bosco cominciava a minare l’integrità della sua psiche.

    Dopo aver emesso un profondo respiro, Autolico si rimise in marcia, sforzandosi di mantenersi lucido.

    Il sentiero lo conduceva sempre più all’interno di quella fitta e intricata massa di vegetali: più andava avanti e più il ragazzo sembrava convinto che tutto il bosco fosse animato di una volontà propria. Di più: la volontà delle creature del bosco sembrava malefica.

    Mentre rimuginava su quei foschi pensieri, in fondo al sentiero scorse una radura da cui si irradiava una luce rossastra...

    Autolico si sentì combattuto tra due desideri: evitare la radura, tenendosi così lontano dalle creature sconosciute che la infestavano, ovvero sottrarsi all’atmosfera della foresta?

    I latrati improvvisi provenienti dalle sue spalle lo spinsero comunque a incitare il cavallo: nella radura avrebbe potuto organizzare meglio le proprie difese. Sguainando la spada, però, si accorse che la sua mano destra era percorsa da un tremito.

    La terra cominciò a tremare, come se una forza sconosciuta stesse per risucchiare l’intera linfa vitale del bosco: succedeva così, tutte le volte in cui Lui sentiva qualche estraneo attraversare la foresta.

    Si era risvegliato, ancora una volta... e aveva fame.

    Lo aveva visto camminare sul sentiero e dentro di Lui si era risvegliato un antico languore.

    Più lo guardava e più lo desiderava: lo avrebbe divorato, con calma, dopo averlo intrappolato e dopo essersi divertito, com’era solito fare con le sue prede.

    Ancora pochi istanti e lo avrebbe tirato a sé... per sempre!

    4

    Da numerosi giorni, ormai, viaggiava a cavallo puntando verso la città di New Haven. Da quando era stata folgorata dal suo sogno, Crise non aveva conosciuto più requie.

    La giovane sacerdotessa manteneva, anche a cavallo, la grazia aristocratica che avevano sempre contraddistinto il suo portamento. Non era molto alta, ma il suo fisico snello, gli aggraziati lineamenti del viso, gli occhi azzurri e i capelli corvini la rendevano bella.

    Durante la cavalcata, Crise ripercorreva con la mente la vita passata: entrata nel novero delle Sacerdotesse di Glynis alla tenera età di sedici anni, era stata iniziata alla rigida disciplina della Legge e ne aveva osservato i precetti con sincera devozione.

    Aveva studiato a lungo tutto ciò che una Sacerdotessa era tenuta a conoscere; aveva sempre seguito le indicazioni che le avevano impartito i suoi superiori. Ma, alla fine, la curiosità era stata più forte di tutto...

    Le sue Maestre le avevano sempre raccomandato di stare lontano dalla Biblioteca, quando non era in compagnia di un superiore.

    «È un luogo pericoloso» le ripetevano continuamente. «Le tentazioni del Male si possono nascondere anche in mezzo alle pagine di un libro. Alcuni autori potrebbero ammaliarti con i loro fini ragionamenti e tu potresti ingenuamente credere alle loro falsità. Tu potresti credere di aver imparato cose nuove, ma in realtà quei libri avranno lasciato dentro di te il seme del dubbio; dal dubbio nasce l’eresia e dall’eresia il Male Supremo.»

    Gli ordini che aveva ricevuto erano stati perentori e altrettanto perentoria era stata la sua disobbedienza: per notti intere, al lume di una fioca candela, aveva divorato tutti i libri che era riuscita a trafugare dalla biblioteca.

    Quando i suoi doveri di Sacerdotessa le imponevano la veglia notturna, Crise faceva sempre in modo di aver un manoscritto accanto a sé, a farle compagnia nelle ore più solitarie, quando anche la luna tramonta e i pensieri si fanno tristi.

    Anche gli uffici da svolgere all’interno della Chiesa erano per lei solo un momento di pausa forzata, prima di tuffarsi nuovamente in quello studio sregolato, nascosto, a tutti celato tranne che alla sua coscienza.

    Per avere sempre maggiori possibilità di accesso alla biblioteca, Crise aveva fatto di tutto per poter entrare nel novero delle amanuensi: una professione considerata preziosa, all’interno di ogni Chiesa o Monastero, perché proprio la trascrizione dei testi sopravvissuti al Cataclisma consentiva il preservarsi della cultura.

    Crise aveva dato prova delle proprie capacità e aveva guadagnato un posto di tutto rispetto tra le amanuensi. Ciò significava per lei passare ore intere a contemplare e riprodurre il sapere degli antichi maestri, cosa di cui si sentiva giustamente orgogliosa.

    I libri che le facevano ricopiare appartenevano a Glynis e ai suoi seguaci. Contenevano molti riferimenti alla virtù, all’umiltà, all’obbedienza, alla Legge e all’armonia di tutto l’universo.

    Crise si commuoveva, quando leggeva del Logos, dello spirito razionale che permea l’intero universo, di come sia dovere di ogni fedele conoscere la Ragione che sta all’interno di ognuno di noi e di come sia essenziale per l’umanità intera interagire pienamente con lo Spirito Razionale che anima il cosmo.

    Crise ricordava alla perfezione quegli insegnamenti: durante la celebrazione dei riti, le Sacerdotesse ammonivano sempre i fedeli a ispirare le proprie azioni alla ragione e all’osservanza delle leggi.

    Ma abbeverarsi direttamente alla fonte del sapere aveva per lei un sapore diverso: una cosa era osservare i precetti imposti dal proprio Superiore e adeguarsi per paura delle punizioni; altro era venire conquistati dal fascino della filosofia di Glynis, direttamente dalle sue parole.

    Crise aveva compreso, passo dopo passo, che l’Universo è vivo e che esiste uno Spirito vitale che lo attraversa tutto e ne rappresenta l’anima razionale.

    Ogni essere umano ne è partecipe, ciascuno in modo diverso: la piena realizzazione di sé, secondo Glynis, sta non nel subire passivamente i propri istinti e capricci, ma nell’armonizzarsi con il Grande Disegno Razionale del Cosmo. La vera libertà consisteva non nell’assecondare i propri umori, ma nel conoscere il ruolo che ci è stato assegnato nel Grande Disegno.

    Per questo motivo, Glynis affermava (sostenendo di averlo appreso dall’antica sapienza dei filosofi) che la virtù essenziale è la conoscenza: conoscenza della razionalità e della geometria dell’universo, nel tempo e nello spazio.

    Crise era stata conquistata dalle parole di Glynis, di cui solamente ora capiva il significato: e convinta che la sua missione

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