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Davanti alle Bianche Scogliere
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Davanti alle Bianche Scogliere
E-book333 pagine3 ore

Davanti alle Bianche Scogliere

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In “Davanti alle bianche scogliere” -che prende spunto dal romanzo precedente “L’onda lunga del destino” - l’autore immagina la Cornovaglia del 1493, Un anno dopo la scoperta dell’America da parte del genovese Cristoforo Colombo. La notizia della scoperta suscita la reazione di alcuni discendenti degli antichi navigatori Celti che, dieci secoli prima, erano approdati sulle coste del Nuovo Mondo, ritornandone poi, portando seco la notizia ed anche una mappa. Pur essendo sommaria, la mappa riportava la direzione dei venti e delle correnti nonché le coordinate necessarie per raggiungere la nuova terra posta sotto le stelle della “Croce del Sud”. Anche l’attuale Brasile, verrà scoperto di lì a sette anni dal portoghese Pedro Alvarez Cabral, che approdando il 22 aprile del 1500, ne prenderà possesso in nome di Sua Maestà Manuele I, della Casata Aviz-Beja, Re di Portogallo. Il romanzo si incentra su una saga di famiglia fatta di antichi ricordi tramandati per dieci secoli, superando gli anni neri del “Castigo di Dio”: il flagello chiamato “peste” che, ad ondate, avrebbe colpito l’Europa intera. In parallelo, vengono descritti, anche, fatti relativi al terzo millennio in contrapposizione a quelli di un lontano passato dal quale i fantasmi si affacciano, evocati dal Walhalla celtico. Quello di Learco è un romanzo appassionante che non mancherà di coinvolgere il lettore con i colpi di scena descritti, con lo stile inconfondibile, e la fantasia versatile dell’autore.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2015
ISBN9788899001322
Davanti alle Bianche Scogliere

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    Anteprima del libro

    Davanti alle Bianche Scogliere - Learco Learchi d'Auria

    el.dorado.44@hotmail.com

    Prefazione

    Con Davanti alle bianche scogliere si conclude la trilogia delle Avventure di Atalon. Nei tre romanzi si dipana la storia leggendaria dei discendenti di un popolo che con l’Oceano hanno avuto un rapporto che ha interferito tragicamente con il destino di questi.

    L’autore ha voluto accompagnare il lettore lungo un percorso di secoli, intessendo tre romanzi incentrati sulla mitica Atalon, capitale del regno di Atlantide, la regina di quell’Oceano dal quale venne sommersa. Ma non sono periti tutti gli atlantidei che, mutando nome, hanno dato origine ad una nuova razza, quella dei Celti.

    Rinasce anche l’antica Patria nell’Isola delle Mele posta nel Canale della Manica con il nome di Avalon. Siamo nell’anno Domini 444 quando nell’Oceano Atlantico avviene l’inondazione di quest’isola e l’inizio dell’inabissamento. I Celti di Bretagna sono costretti ad un nuovo esodo ma alcuni drakars perdono il contatto con il convoglio diretto verso le vicine coste della terra ferma. Il destino, la tempesta e le correnti fanno spiaggiare i superstiti in un nuovo continente del quale saranno gli scopritori.

    Si giunge, nell’anno 1493 all’ultima tappa storica e qui inizia il terzo romanzo ambientato parte in Cornovaglia e parte nel Nuovo Mondo che si diceva scoperto da un navigatore Genovese. La notizia della scoperta suscita la reazione di alcuni discendenti degli antichi navigatori Celti che, dieci secoli prima, erano approdati sulle coste dell’America Latina per poi ritornare diffondendo la novella e, a sostegno di quanto raccontato, avevano con loro una mappa. La mappa riportava la direzione dei venti e delle correnti nonché le coordinate necessarie per raggiungere il nuovo continente, posto sotto le stelle della Croce del Sud, all’interno del quale era stata fondata la Città dalle Porte Rilucenti, sede del Regno Celta di Tirn Aill.

    L’attuale Brasile verrà scoperto di lì a sette anni dal portoghese Pedro Alvarez Cabral, che approdò sulla costa il 22 aprile del 1500, e ne prese possesso in nome di Sua Maestà Manuele I, della Casata Aviz-Beja, Re di Portogallo.

    Il terzo romanzo si incentra su una saga di famiglia intessuta di antichi ricordi tramandati per dieci secoli, superando gli anni neri del Castigo di Dio, un flagello denominato peste che, ad ondate, avrebbe colpito l’Europa intera.

    Learco mette a confronto fatti recenti con quelli di un lontano passato dal quale i fantasmi si affacciano, evocati dal Walhalla celtico. La prosa dell’autore scorre facile e giunge a coinvolgere il lettore al punto da fargli credere che ogni cosa descritta e narrata non sia semplicemente un parto della fantasia.

    Elisa Savarese

    Presidente dell’Università Avalon

    Nascendo, ognuno è erede del mondo

    lasciatogli, così com’è, da chi ci ha

    preceduti. Può accadere che sia una

    eredità pesante ma al destino non ci si

    può sottrarre in alcun modo. È così che,

    poco a poco, ci si affeziona anche alle

    cose meno piacevoli come un destino

    segnato dai tempi. È una realtà che

    non ci lascia e che calza come una

    seconda pelle.

    Dedico queste pagine a tutti coloro

    che hanno voluto sostenermi, nei

    momenti difficili infondendo in me

    coraggio e fiducia.

    Questi compagni di viaggio, seppur

    incrociati per un breve tratto sulla

    strada della vita, hanno rappresentato

    molto, per me.

    Grazie, Elisa, Dulce e José, Valdice,

    Maria ed Antonio. Ho voluto ricordarvi

    in queste righe, pensando a voi ed ai

    momenti sereni trascorsi insieme.

    (Learco Learchi d’Auria)

    I personaggi del presente romanzo ed anche l’autore, tal quale si descrive, sono stati ideati dalla fantasia. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti sono puramente casuali.

    Le pagine con fondino più scuro distinguono gli eventi accaduti in epoca remota rispetto a quella attuale.

    Prologo

    Nella Trilogia delle Avventure di Atalon si inseriva il romanzo conclusivo che Learco si era lasciato convincere a scrivere. Non voleva farlo, in effetti, ma dai e dai a furia di sentirselo chiedere non poté che cedere. Era, questo, un altro romanzo redatto su commisione, così come i due precedenti. Non era il suo genere questo tipo di storia, fin troppo fantasiosa, tra il mito ed una improbabile realtà romanzesca ma la ricerca di marketing commissionata dall’editore aveva concluso che quel tipo di prodotto continuava a tirare. Visto, del resto, il successo dei precedenti romanzi, Learco aveva deciso di chiudere quel ciclo, dedicato alle origini celtiche di taluni Indios dell’America Latina, con un ultimo libro su quel tema. Il compito si riassumeva nel cucire alcune epoche antichissime con quell’ultima, sempre antica ma più recente.

    Nel primo racconto Il Regno di Avalon iniziava la saga del popolo di Atalon - nel 8498 a.C. - qualche mese prima della presunta scomparsa del mitico Continente di Atlantide.

    Nel secondo L’onda lunga del destino la storia rivive attraverso alcuni discendenti dei superstiti, approdati perigliosamente in Bretagna e quindi - nell’Anno Domini 444 - nell’America del Sud.

    Il terzo ed ultimo romanzo, di questa serie, ha inizio davanti alle bianche scogliere di Dover - nel 1493 - dieci secoli dopo il 444 - in un’Europa sconvolta dalla morte nera: la peste.

    Quando aveva sottoposto l’abbozzo dell’idea del nuovo romanzo al comitato della casa editrice EVA, la Preside responsabile sia della Università Avalon sia dell’editoria omonima, di Castellammare di Stabia, ne era stata entusiasta.

    «È perfetto! Il fatto di chiudere la trilogia con questo libro mi sembra una buona idea. Se non sbaglio, anche altri romanzi erano racchiusi in una trilogia, seppur di tema differente» aveva commentato la Preside dell’Ateneo partenopeo.

    «È vero: solamente il primo ed il secondo sono stati romanzi fini a se stessi. D’altra parte bisogna pur prendere fiato, con temi differenti» aveva risposto lo scrittore.

    «Avete ragione da vendere! Non dovete fare l’errore di legarvi a personaggi e storie dello stesso filone: sarebbe un errore. Una buona penna deve sapersi destreggiare in ogni tipo di situazione: le più eterogenee. Voi, Learco, avete questa indubbia capacità: è questo il motivo per il quale, qui nella Facoltà di Letteratura Moderna e Giornalismo, vi hanno apprezzato, sia come scrittore sia come formatore.»

    La Preside dell’università era una anziana signora, partenopea verace di Vico Equense, che quando parlava si rivolgeva, compitamente, alle persone dando del voi. Quella del voi è una espressione di grande riguardo che, nella napoletaneità del linguaggio, si dà alle persone che più si stimano. Ciò non toglie che avesse una mentalità giovane che gli proveniva dall’aver vissuto accanto ai suoi ragazzi come amava definire le leve che preparava ad affrontare il futuro nel mondo accademico ed, anche, in quello professionale. Questo fatto la rendeva molto simpatica a Learco che, spesso e volentieri, s’era preso delle libertà verbali, goliardicamente scherzose. Il gioco durava il tempo di qualche battuta ma, subito dopo, rientrava nei confini di un comportamento corretto ed educato, da gentiluomo come, la stessa Preside, aveva definito lo scrittore. Più d’una volta s’era lasciata andare, definendolo: "…un ragazzaccio troppo cresciuto ed impertinente". In altre occasioni aveva, invece, asserito: "siete, come sempre, un galantuomo. Peccato che dopo di voi la fabbrica abbia cessato la produzione". Tra il serio ed il faceto, si era instaurato uno strano rapporto fatto di stima, confidenza, affetto con un pizzico di gelosia, anche se mai nulla era avvenuto tra i due, che continuavano a darsi alternativamente del voi e del lei. La Preside era stata quella che, casualmente, aveva scoperto in Learco delle doti artistiche che andavano al di là di quelle di un pittore che si dilettava a scrivere in versi. Di lei era stata l’idea del primo romanzo Incontri virtuali. Quel primo cimento letterario le era piaciuto a tal punto che aveva deciso di prendere sotto le proprie ali protettrici, quel - non più tanto giovane- talento. Learco, in breve era divenuto uno dei suoi protetti e da lui si aspettava grandi cose. Seppure vivendo nel lontano Brasile - per tornare in Italia, una volta all’anno, per le vacanze - lo scrittore restava in contatto con la Preside ed a lei inviava, per e-mail, le parti redatte, dei romanzi che andava -via, via- scrivendo, che poi leggevano insieme. Era, quella, un’occasione per correggere refusi, punteggiatura e per discuterne i contenuti, ma anche per scambiare quattro chiacchiere tra amici. In quelle conversazioni, notturne, i dodicimila chilometri di distanza, che esistevano in linea d’aria, parevano dissolversi. Le comunicazioni avvenivano, per fortuna, attraverso il programma di Skype connesso tramite Internet. Se avessero comunicato telefonicamente avrebbero speso un patrimonio ma, con quel sistema offerto dalla moderna tecnologia informatica, la cosa era facile, rapida e soprattutto gratuita.

    Brasile, Stato di São Paulo – Litoral Sul Paulista. Città di Praia Grande – Mercoledì 17 maggio 2017 - Studio dello scrittore Learco Learchi

    Le riproduzioni di due carte gografiche antiche erano poste sullo scrittoio: rappresentavano quello che, attorno l’anno 1500, si credeva fosse il planisfero terracqueo. La prima di queste era la famosa mappa, considerata da Graham Hancock e altri appassionati di misteri la prova che l’Antartide era già conosciuta secoli prima della sua effettiva esplorazione ed era già stata misurata in modo preciso e pubblicata nel 1531 da Oronce Fine (chiamato Oronzio Fineo in italiano e Orontius Finaeus in latino), un importante matematico che disegnò anche carte geografiche basate su studi geometrici dei diversi tipi di proiezione sferica o cordiforme. La seconda era una carta geografica di epoca, poco anteriore. Rappresentava la mappa dell’ammiraglio turco Piri Re’is, scoperta nel 1929 quando il vecchio Palazzo Imperiale di Istambul venne trasformato in museo, era solo una parte della carta originale, che raffigurava tutto il mondo conosciuto. In questa porzione superstite si vedono l’oceano Atlantico, le coste occidentali dell’Europa e dell’Africa e quelle orientali dell’America. È datata anno islamico 919 quindi il nostro 1513 (ma venne presentata al Sultano nel 1517).

    Nei prossimi mesi Learco avrebbe dovuto fare riferimento ai luoghi indicati dalle due mappe, anche se, geograficamente, ubicati con sommaria approssimazione. Nella mente dello scrittore si stavano aggirando molti pensieri che, macinati insiene alle nozioni accumulate nella propria vita e lubrificati dalla sua cretativa inventiva, sarebbero divenuti la creta con la quale plasmare la storia, dandogli corposità e forma. Era così che, usulamente, nascevano i romanzi di Learco.

    Rosicchiando il bocchino di una delle sei pipe che, ancora possedeva, la concentrazione gli era più facile. Quella delle pipe era una mania che gli era rimasta anche dopo aver smesso di fumare, più di venticinque anni addietro. Le custodiva con gelosa attenzione, ne aveva cura pulendole periodicamente. Quello del nettare le pipe era, per lui, un rito: ne raschiava il fornello carbonizzato da tempo, lo ungeva con una soluzione di Brandy spagnolo e del miele. Le caricava, quindi, con qualche presa di tabacco dolce e profumato che pressava con metodica attenzione, con l’apposito strumento. Quando metteva in bocca una delle sue pipe, così conciate, ne assaporava l’aroma dolciastro ma non accendeva il tabacco. Teneva la pipa in bocca più per vezzo che per effettiva voglia di fumare. Non ne sentiva più il bisogno ché la fase gestuale era ciò che, ormai, lo appagava in quanto il vizio del fumo l’aveva vinto per sempre. Aveva, però, il gusto di sorseggiare, ogni tanto, parte di quel Brandy spagnolo - il Cognac francese costava troppo, in Brasile - e ciò lo riportava, con la mente, ai ricordi di quando viveva in Europa. L’aroma di quel distillato di vino con gradazione alcolica dal 36 al 40% era, per lui, decisamente migliore dei Whiskeys scozzesi, irlandesi o del Bourbon americano. Quanto alla Cachaça brasiliana che ogni tanto assaggiava, questa, era paragonabile alla Grappa italiana od alla Vodka polacca o russa, anche se di sapori decisamente differenti. Non che Learco fosse un bevitore: si accontentava di un bicchiere di buon vino rosso pranzando -ma solo con determinate pietanze e versato in un appropriato bicchiere di cristallo che permettesse di sentirne, appieno, gli aromi - gli piaceva la Birra brasiliana perché, non pastorizzata, non gonfiava la pancia e la sua gradazione era di molto inferiore a quella europea. Learco lo si poteva definire, più un gaudente, che un bevitore nel vero senso della parola ed anche della vita e delle donne, gli piaceva godere ancora. In Brasile la vita è differente così come diverse sono le donne brasiliane, le frutta, il clima e la luce dei panorami: quella luce apprezzata da fotografi e pittori. In Italia, a Learco veniva da comporre, romanticamente, in versi mentre, sotto le stelle della Croce del Sud, era più congeniale al proprio carattere, dipingere i colori di quel pezzo di paradiso caduto in terra e scrivere i suoi fantasiosi romanzi nel quale, per lo più, erano ambientati. Quando poetava si rifaceva ai propri amori perduti, Quando romanzava si calava nei personaggi da lui inventati ed iniziava, ogni volta, un’avventura alla quale partecipava come esserci dal vivo. Era questa una particolarità del proprio modo di raccontare, dove i personaggi pareva vivessero di vita propria, ribellandosi a chi ne aveva stabilito i ruoli e le battute del copione. Learco descriveva quello che i protagonisti facevano e, sovente, si sorprendeva a spiarne i comportamenti attendendo l’evoluzione e l’epilogo di quel romanzo il cui finale non poteva, mai, prevedere. Quando lo scrittore iniziò a scrivere Davanti alle Bianche Scogliere sapeva, già, tutto questo ed era pronto a viverlo, accettando ogni imprevisto.

    Nord-Pas-de-Calais. In navigazione – Sadorn 18 Giamon a.D. 446 - Il ritorno di Elék Penton"

    Erano passati due anni da quando avevano lasciato l’isola bretone che stava inabissandosi nelle acque dell’Oceano. Elék lo ricordava bene quel giorno maledetto, come rammentava la nebbia e poi la tempesta che avevano distaccato sette drakars dal convoglio che si allontanava verso la costa in cerca di una nuova terra che il suo popolo voleva occupare. Il popolo celta era diretto in Breizh, se non vi avessero trovato ospitalità, avrebbero fatto rotta per Kernow la punta sud della grande isola di Alb-Ien. Fu il Gran Padre Oceano a segnare il destino degli equipaggi dei sette drakars al comando di Galadon, l’uomo che Elék, ammirava più di tutti. Le correnti ed i venti li avevano spinti sulle coste di un nuovo continente, dal lato opposto del mondo conosciuto, fino allora. Laggiù Galadon divenne il Re Celta di Tirn Aill - il fondatore della Città dalle Porte Rilucenti e di una nuova stirpe di "Celti d’Oltre Mare". Se Elék stava passando, ora, davanti alle bianche scogliere poste di fronte all’attracco che - con gli occhi brucianti per il salino - stava cercando, lo doveva ad un giuramento: l’ultimo che il suo re gli aveva imposto prima che lo stesso andasse incontro ad un’eroica morte da prode quale era. Elék ricordava bene le parole scambiate con Galadon e, rammentandole, rivide la scena, con gli occhi della memoria.

    «Mio fido… ti do un ordine ma prima giura, sul tuo onore di guerriero, che lo porterai a compimento!» gli aveva intimato il re.

    «Lo giuro, mio Duce e Re» aveva risposto, battendo i talloni e portandosi la mano destra sul cuore, il trentaquattrenne Capo della Guardia Reale.

    «Non devi, assolutamente, tornare indietro. Dopo aver scortato Esáeté con le donne dei Celti ed i nostri indios, che vorranno seguirti nei boschi, portali, successivamente, verso Sud. Quando saranno al sicuro nel luogo che il tuo nuovo cacique ti avrà indicato, predi un gruppo di volontari Celti e scendete a Sud-Est verso il litorale. Laggiù costruirete un drakar grande sufficientemente per trasportarvi in Breizh. Voglio che il nostro popolo d’origine sappia di noi e di quel che abbiamo fatto qui, in questo nuovo continente. Traccia la rotta affinché altri vi possano giungere.» Così fu fatto come ordinato dal re ma Elék, tormentato dal rimorso, non aveva smesso di ripetersi i versi da lui composti in quei lunghi mesi di navigazione:

    Con quest’occhi miei l’ho veduto

    nella di lui determinazione

    a piè fermo d’armatura corazzato

    ché della cintura dell’onor già cinto

    … il signor mio egli era.

    Con quest’occhi miei l’ho veduto

    come indomita fiera tra le schiere

    inimiche gettarsi, in quelle terror e

    morte portando, molti sterminando

    … il signor mio egli era.

    Con quest’occhi miei l’ho veduto

    sopraffatto da troppi innanzi

    ed in fin dal retro trafitto dal vile dardo

    di un codardo del sangue suo assetato

    … il signor mio egli era.

    Con quest’occhi miei l’ho veduto,

    colmi di lacrime d’inane scudiero

    cadere, con in pugno l’arma sua,

    gloriosa brandendo

    … il signor mio egli era.

    Con il lamento di dolor straziato

    io canto la grandezza di lui che più non è.

    Triste è il cor mio per non aver,

    fino alla fine, di lui le orme calcato

    … il signor mio egli era.

    Erano trascorsi tredici mesi da allora e molte cose erano accadute. Probabilmente Re Galadon era già entrato nel Walhalla com’era giusto che fosse. Elék rammentava come, su richiesta di lui, aveva avvolto, con una spessa striscia di morbido cuoio ingrassato, il pungo di Galadon serrato sull’elsa della spada. Lo aveva annodato strettamente imprigionando la mano del proprio re sull’impugnatura. Mano e spada erano un tutt’uno: pareva che l’arma fosse il prolungamento del braccio destro. Aveva preso, poi, lo scudo di cuoio, laminato, collocandolo sul braccio sinistro di Galadon. Elék aveva capito che il Re Celta aveva deciso di morire, in battaglia, con la spada in pugno e non voleva che alcuno potesse strappargliela di mano. Se fosse accaduto, le porte del Walhalla non si sarebbero schiuse al suo giungere colà. Elék rammentò, anche le parole dette ad Esáeté, il saggio indio da poco nominato successore al comando.

    «Oltre che sciamano e curandeiro, ora, sei il nuovo cacique. Porta in salvo il nostro popolo e forma, con esso, una nuova tribù. Venerando Padre… fa’ in

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