Pau Brasil
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Anteprima del libro
Pau Brasil - Learco Learchi d'Auria
el.dorado.44@hotmail.com
Prefazione
Presi da saudade
- la malinconica nostalgia del Brasile- un gruppo di amici decide di ritornare, un anno dopo, nei luoghi della loro precedente avventura.
Spinti dall’attrazione per quel semicontinente, ricco di fascino, mistero e storia, vengono coinvolti in un’impari lotta contro le forze del male che tornano ad aleggiare su di loro.
Si daranno appuntamento nel Rio Grande do Sul, dove la storia attuale si sovrapporrà a quella di cent’anni prima , al tempo della neonata repubblica indipendente riograndense nella guerra degli straccioni
durante la rivolta contro il ben più esteso impero brasiliano di Dom Pedro II.
Si trasferiranno, poi, a nord del Paese nello Stato dell’ Amazzonia dove le conseguenze di eventi antichi di due secoli, li porteranno a rinvenire una fortuna immensa.
Non mancheranno i colpi di scena, ivi compreso un miracolo, attraverso l’intervento del Cielo a favore di una coppia di loro.
La storia non finirà qui: un altro appuntamento è fissato tra il lettore ed i nostri eroi, per un arrivederci in Brasile con un nuovo incontro per le vacanze dell’anno prossimo.
Quello che Learco vuole trasmettere al lettore è la voglia di conoscere, un poco meno superficialmente, il Brasile. I suoi romanzi, che sotto le stelle della croce del sud sono ambientati, fanno sì che il lettore possa immaginarsi immerso sia nella realtà romanzesca, sia nei luoghi nei quali i fatti narrati si svolgono.
Il ricorso a parole e, talvolta, intere frasi in lingua portoghese del Brasile, completano l’atmosfera tropicale di Pau Brasil
.
Per agevolarne la comprensione, nelle ultime pagine è stato inserito un glossario
di facile ed istruttiva consultazione - quale complemento - al quale fare ricorso, ogni qualvolta, non appaia chiaro il senso della lettura.
Elisa Savarese
Presidente dell’Università Avalon
In Brasile, la terra del pau brasil
,
l’albero che il nome gli ha dato, esiste
un popolo d’italiani e di discendenti,
la cui dimensione sfiora i quaranta
milioni di individui: il venti per cento
della popolazione globale del Paese.
Alle persone, che hanno scelto
di vivere lontano dall’Italia dedico
questo mio fantasioso romanzo dove
personaggi e situazioni sono inventati,
Il ritorno a scoprire le radici avite è,
per molti di loro, l’illusione di un sogno.
A coloro che avranno la fortuna di
tornare, da ricchi turisti, va il sincero
augurio, che le loro aspettative, non
vengano deluse da una Patria che, nel
frattempo, è profondamente cambiata.
(Learco Learchi d’Auria)
Nota:
I personaggi del presente romanzo ed anche l’autore, tal quale si descrive, sono stati ideati dalla fantasia. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti sono puramente casuali.
Prologo
Era passato diverso tempo dalla conclusione del romanzoDa quello virtuale ad un mondo irreale
. Il finale di quella storia aveva lasciato perplessi molti lettori che, insoddisfatti, reclamavano un seguito, magari, con un lieto fine. Così gli aveva riferito l’editore, sventagliandoli in faccia un consistente pacchetto di lettere.
Aveva scritto due romanzi della serie Avventure in Brasile
, di getto e quasi per gioco, popolati da personaggi, ai quali molte persone si erano affezionate. Portare avanti quel serial fortunato rischiava di diventare l’incubo persistente di Learco: un artista un po’ bislacco con la sua mania di voler dipingere sensazioni sul cuore della gente
con i suoi versi buttati giù a rotta di collo.
Il suo pubblico, continuava ad apprezzare le sue descrizioni del Brasile che portavano a conoscere la storia di un Paese, ai più noto solo per lo Sport del Calcio, per il Carnevale, per la Musica, nonché le Belle Donne.
Con la lettura dei suoi romanzi, molti avevano scoperto un Brasile differente, lontano dagli stereotipi imposti da un certo turismo mondano, che non rivela la vera essenza delle persone che lo popola. Questo fatto, pareva aver incontrato un indice di gradimento elevato. La cosa cominciava a divenir seria: come soddisfarli, ancora una volta?
L’editore gli aveva imposto un aut, aut: o scriveva una nuova storia oppure l’agente editoriale di Learco avrebbe avuto il suo bel da fare. La minaccia sottintendeva che il contratto con la casa editrice si sarebbe concluso lì.
Com’era possibile bissare il successo dei precedenti romanzi e soddisfare tutti? Questa e ad altre domande s’era poste cercando di non cadere nella banalità con la quale si è portati, parlandosi addosso, in situazioni similari.
Parlarsi addosso
: un’espressione che può dir poco ma anche molto. È come dire: farla fuori
. Talvolta, quando ci si prende troppo sul serio, può accadere anche questo. A Genova, nella città d’origine di Learco hanno un altro modo di dire, che è altrettanto esemplificativo: sbulaccare
ovvero farla fuori del bulacco, dove per bulacco
s’intende il bugliolo
ovvero il contenitore di metallo che, anticamente, serviva a bordo dei legni a vela ed a remi
per soddisfare i bisogni corporali dei galeotti, restando incatenati al remo sul quale scontavano la pena destinati a viverci, talvolta, fino alla fine dei loro giorni, fornendo la forza motrice alle famigerate galee. Erano le prigioni galleggianti
: le navi da guerra di quel tempo e la catena fissata al remo era la condanna di poveracci destinati a morire comunque: o di fatica oppure affondando con la nave.
«Questa parte del prologo sarà meglio metterla da parte, prima che l’editore la censuri, riempiendomi d’improperi…» pensò Learco mentre digitava, uno dopo l’altro, i propri pensieri sulla tastiera del computer, così come gli venivano in mente.
L’inizio di un nuovo romanzo è, sempre, la parte più difficoltosa ed anche questa volta la cosa non appariva differente dalle altre volte. In medio stat virtus
diceva il suo vecchio insegnante di lettere -il buon Professor Renato Santorini- quando gli suggeriva d’iniziare i suoi temi partendo dall’argomento principale evitando rigiri ed arzigogoli inutili.
«Sarà meglio rivolgersi al Cielo! È sempre stata, in fin dei conti, la soluzione migliore…» Si disse, mordicchiando il bocchino della pipa, tenuta in bocca più per vezzo, giacché ormai la teneva spenta da oltre vent’anni.Via Lattea Parallela – Martedì 17 maggio 2011
Sede dell’Animo Universale
Il Signore dell’Universo, quasi a raccogliere l’invocazione di Learco si mise a leggere nel suo pensiero. Osservando ciò che lo scrittore stava tentando di fare e quel suo modo di paragonare il parlarsi addosso
alla soddisfazione di un umano bisogno corporale non era, poi, del tutto erroneo. Anche Pietro che si trovava lì presente, in quel preciso istante, stava annuendo concorde.
«Cosa ne dici, Pietro! Sei d’accordo anche tu con quello che asserisce il nostro cronista preferito?»
«Beh, Capo! Non sarebbe molto ortodosso, ma un fondo di verità, in quel che scrive, c’è…» rispose il buon custode delle chiavi delle porte del Cielo.
«A sì? Dimmi in cosa consiste questo fondo di verità» l’apostrofò il Presidente della celeste realtà.
«Mi riferisco a quello che, in più di un’occasione, hai detto a proposito dell’abitudine che gli umani hanno nel parlare a vanvera.»
«Ho detto questo, mio buon Pietro?» chiese con aria da burbero benevolo.
«Veramente la tua espressione è stata invereconda: quasi a livello del linguaggio di Lucifero.»
«Ho forse detto che gli uomini, sovente, dicono e fanno delle stronzate
?» chiese, ridendo.
«Beh, si! Hai usato proprio quella parolaccia» confermò Pietro, un poco arrossendo.
«Non è una parolaccia! Ho, semplicemente, stigmatizzato un certo modo che le mie imperfette creature hanno di parlarsi addosso
, lo fanno con le parole così come con gli escrementi che da loro fuoriescono.»
«Infatti! È per questo motivo che concordo con Te e con Learco» confermò il Mastro di Chiavi.
«Anch’io concordo con lui. D’altra parte quello scrittorucolo, col suo modo diretto di dire le cose, mi è risultato simpatico sin dall’inizio. Penso che dovremmo aiutarlo anche questa volta: non può restare senza lavoro!»
«Dovremmo? Mi stai dando un nuovo incarico?» chiese Pietro con un sottile filo di speranza di tornare, ancora una volta, in missione sul pianeta Terra.
«No, Pietro! Mi sei troppo prezioso qui nella Via Lattea Parallela. Il mio era un plurale maiestatis
, se me lo consenti. Stavo piuttosto pensando ad un altro, dei nostri, da mandar laggiù su quell’infelice pianeta.»
«Più che un plurale maiestatis, penso che si debba dire plurale Domini: a Te tutto è dovuto! Chi sarebbe quel fortunello che manderai sul pianeta Terra?» chiese Pietro, con un poco di benevola invidia e, latentemente, un filo di speranza per un ripensamento del proprio Capo.
«Me lo domandi? Se ci pensi bene ci arrivi da solo» lo invogliò il Signore dell’Universo.
«Non ci scommetterei, ma penso che l’unico adatto, a parte me, sia Attilio» rispose, quasi certo d’aver visto giusto. Attilio, che il Signore aveva voluto accanto a se e la cui anima aveva benedetto in extremis era, dopo un anno, ancora nelle Sue grazie, nonostante il peccataccio da lui commesso in vita.
«Hai fatto bene a non scommettere: come tu sai, qui è proibito il gioco d’azzardo. Ma avresti vinto! Non devi farti prendere dall’invidia: è un vizio, una mancanza grave ed anch’essa è proibita» lo ammonì, agitando il dito indice, della sua mano destra, verso di lui.
«La mia, è un’invidia benevola: quasi a significare che è fortunato» spiegò discolpandosi con ostentata umiltà.
«Sta bene, sta bene! Avrai modo di complimentarti con lui durante l’addestramento e le istruzioni che dovrai impartirgli prima di spedirlo da Elisangela.»
«Lo mandi da Elisangela? Lei, ancora non sa nulla di ciò» disse, allarmato.
«Non sa nulla, come non sa che ho deciso di ridarle il dono della telepatia e più tardi… chissà!» Disse il Signore, facendo sottintendere la restituzione delle ali perdute, o qualcosa del genere.
«È un bel dono quello della comunicazione telepatica! Le darai anche la lettura del pensiero ed il potere divinatorio?»
«La lettura del pensiero e la divinazione: no! Per ora, soltanto il dono della telepatia per rendere più pratici ed immediati i collegamenti…» precisò il Signore dell’Universo che poi aggiunse: «…ora va! Porta Attilio in laboratorio per dotarlo del suo nuovo aspetto, una nuova identità fornendolo anche di alcuni poteri celesti, compresi quelli telepatici e la lettura del pensiero altrui: lui sì che ne avrà bisogno.» Con questa frase il colloquio era terminato.
«Obbedisco mio Signore!» rispose Pietro congedandosi ossequiosamente.
Brasile, Stato di São Paulo. Città di Campinas – Martedì 17 maggio 2011. Studio dello scrittore Learco Learchi
Ancora una volta si stava proiettando all’interno della realtà romanzesca con la duplice veste: quella di cronista
così come stato definito dal Cielo e quella di personaggio
del proprio racconto.
L’ultima espressione, di obbedienza, messa in bocca a San Pietro, fece balenare in mente a Learco un’idea nuova.
«Se ben ricordo, Obbedisco
, è stata la storica risposta di Giuseppe Garibaldi, nel 1866, al Generale La Marmora . A quell’epoca fu costretto, a malincuore, a fermare la sua avanzata vittoriosa contro gli austriaci, dopo le battaglie di Monte Suello e Bezzecca, per volere del Re» si disse lo scrittore, che già stava pensando alla trama del suo nuovo racconto.
«Peppineddu Garibbaldo, come lo chiamavano nel Regno delle due Sicilie, ed anche l’eroe dei due mondi
in quello savoiardo. Quest’ultimo appellativo gli derivava dal fatto d’aver preso parte a diverse lotte in più Stati del Sud America. Era stato anche chiamato a ricoprire il grado di generale nelle forze armate degli Stati Uniti del Nord. A quella profferta Garibaldi rispose che avrebbe accettato solamente se gli si fosse dato il comando dello Stato Maggiore: fu un modo per dire no grazie e… amici come prima!
Nella guerra degli indipendentisti del Rio Grande do Sul contro l’imperatore del Brasile era, invece, chiamato, amichevolmente José
oppure companheiro José
. È una bella storia, quella di un nizzardo-italiano, sempre in cerca di rogne
ed occasioni per menare le mani in nome della libertà. Sì, si può fare!» concluse Learco, soddisfatto d’aver trovato uno dei due filoni da seguire nel suo racconto legato più ai luoghi che ai personaggi.
Italia - Roma, Mercoledì 18 maggio 2011. Studio Medico Associato. Elisangela e Raffaele Fiorilli
Da poco meno di dieci mesi erano tornati dal Brasile, Elisangela e Lele. Avevano celebrato il loro matrimonio alla chetichella
a Roma, in forma molto privata e lontano da sguardi indiscreti.
Gli unici invitati furono alcuni companheiros della passata avventura brasiliana: Licia e Giannetto Giannini, giunti da Sorrento; Gano Garagnone e Natascia Reggiani, nonché Learco Learchi, che si trovavano, in quel periodo, in Italia e Francesca Salvadori che lavorava, come giornalista, di Eco della Capitale
ed abitava nella città eterna
. Quanto ad Heloísa de Souza e Fra Giacomo non ne avevano saputo più nulla dopo la scomparsa del povero Attilio Sannito. Elisangela e Learco sapevano bene dov’era andato a finire il buon frate, ma si guardarono bene dal rivelarlo a chicchessia. Il Professor Raffaele Fiorilli, Lele per gli amici, aveva deciso di ritornare all’antica professione di strizza-cervelli
che esercitava nello studio, che era stato già suo e poi ceduto alla collega che doveva diventare all’attuale moglie.
«È stato un matrimonio d’interresse: mi sono riappropriato di ciò che mi apparteneva, sebbene pagatomi, prima, molto… ma molto profumatamente!» così rispondeva, celiando, a chi si complimentava con lui sia per il matrimonio sia per il ritorno alla propria attività professionale.
La vita aveva ripreso a scorrere normalmente: forse un po’ troppo. I giorni si susseguivano gli uni agli altri, sempre uguali con monotonia. Dopo aver vissuto qualche mese in Brasile è difficile riadattarsi ai ritmi ed allo stile di vita europei. A volte, la sera, quando dalla terrazza di casa loro osservavano lo spettacolo di Roma illuminata, Elisangela e Lele sorseggiavano una batida de coco e cachaça
ed il loro ricordo andava all’altro capo del globo. Un sottile malessere malinconico faceva emergere la saudade: il mal del Brasile, molto simile al mal d’Africa, più facile ad immaginarlo per chi, laggiù, ci è stato veramente. Il quel Mercoledì mattina, mentre pensava a tutte le cose accadute nell’ultimo anno, Elisangela percepì una chiamata telepatica dal Cielo.
«Non è possibile, non ho più quel dono celeste!» Si disse pensierosa.
Poco dopo risentì, nuovamente, l’impulso di chiamata: esattamente come ai vecchi tempi e le parve di riconoscere la voce di Pietro, in lontananza. Fece un grande sforzo di concentrazione e provò a comunicare.
«Non so se è vero… Pietro, sei tu che mi stai chiamando?»
«Sì, Elisangela, son proprio io: Pietro detto Fra Giacomo» le rispose dal cielo, ridacchiando.
«Com’è possibile che io possa comunicare con te? Di questo potere ero stata privata!»
«Lo eri! Ora non più: ce l’hai di nuovo. Il Capo ha voluto ridartelo.»
«Mi ha ridato, anche il dono, della lettura del pensiero e quello della divinazione?»
«No! Quelli non ti sono stati concessi, ma puoi ritenerti soddisfatta così.»
«Da cosa nasce tanta grazia?»
«Non è un dono disinteressato. Presto entrerai, di nuovo, nel grande gioco
.»
«Di quale partita si tratta, questa volta?»
«È sempre la stessa, contro l’eterno avversario.»
«Dove si svolgerà l’incontro?»
«Nuovamente in campo neutro: in trasferta nella terra brasiliana.»
«Sai dirmi qualcosa di più?»
«Per ora ho l’incarico di preannunciarti quel che ti ho detto ed anche il fatto che, presto giungerà da te Attilio.»
«Attilio Sannito, il bancario?»
«Sì, ma con altro nome ed altro aspetto: ci stiamo lavorando sopra. Quando giungerà il momento, ti comunicheremo tutti i particolari.»
Con questa rivelazione, la comunicazione telepatica cessò. Doveva bollire, in pentola, qualcosa di grosso e la cosa non faceva che stuzzicare la sua voglia di una vita movimentata: finalmente un po’ di azione e poi…il Brasile, oh sì, il meraviglioso Brasile, nuovamente a portata di mano.
Porte degli Inferi – Giovedì 19 maggio 2011. Sede della Bolgia di Lato Oscuro
Il principe nero, stava guatando, con lo sguardo torvo, il corpo inerte del suo ultimo collaboratore, coperto di mosche che, ferocemente, si accanivano sui brandelli di materia pendente dai bulbi oculari. Era già la seconda volta che era stato costretto a ricorrere alla condanna del palo
. Non che la cosa gli dispiacesse: anzi! Infliggere quella punizione soddisfaceva, particolarmente, le proprie inclinazioni per il sadismo. Quella dell’impalamento era una tortura che aveva appreso da un fantasioso mortale della Transilvania che si chiamava Vlad III di Valacchia ed era passato alla storia anche come Vlad Ţepeş
, in lingua rumena: Vlad l’impalatore. Quell’uomo geniale aveva, tuttavia, un solo grande un difetto: era entrato, come i suoi avi, nel famoso Ordine del Dragone: l’antico -ordo draconistarum
- creato nel 1408 da Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria, con lo scopo di proteggere la Cristianità contro i Turchi.
Il Padre di Vlad si chiamava Dracul e siccome il significato di questo nome, in rumeno, può essere tradotto con la parola Diavolo
Vlad III venne presto soprannominato Figlio del Diavolo
. Per tutti divenne il figlio del Diavolo, salito dalle viscere della terra, per impalare i propri nemici.
Quel suo omonimo e presunto figlio, a parte l’appartenenza religiosa, gli era simpatico ed in suo ricordo aveva adottato il sistema del palo per punire i collaboratori che si dimostravano inetti ed incapaci. La tortura consisteva nell’inserire un palo appuntito in mezzo alle natiche, su per lo sfintere del malcapitato. Il palo veniva interrato alla base ed il peso del corpo del condannato faceva il resto: dopo molte ore di spasmi ed atroci sofferenze per quella dolorosa sodomizzazione, la punta aguzza del palo fuoriusciva all’altezza delle scapole. Inutile dire che a quel momento era giunta la fine e, purtroppo, cessava anche il divertimento di chi vi assisteva. Il nero Satanasso aveva perfezionato la tecnica e, tentando di rallentare il passaggio del palo attraverso il corpo. Aveva utilizzato dei pali molto secchi e scheggiosi, ma nonostante il diametro maggiorato, il sangue finiva col fare da lubrificante. Tra i suoi collaboratori era stato impalato, per primo, Mefisto e dopo di lui Pluton. Ora il suo nuovo portaborse si chiamava Malacoda, ma anche su di questo c’era poco da contare: anch’egli avrebbe avuto, prima o poi, il suo bel palo aguzzo tra le natiche. All’origine di tutto quel impalare
c’era stata la contesa per il possesso di un’anima, già a suo tempo dannata e poi redenta: quella di Gano Garagnone, che era stata recuperata da quei signorini con le alette azzurre di Lassù
. A dire il vero le anime erano state due se si conta anche quella di Attilio Sannito già, teoricamente, condannata per tentato suicidio. Nel caso di quell’Attilio era intervenuto l’odiato concorrente dei piani superiori e per il tramite di Pietro, Attilio era stato indotto al pentimento, alla confessione, alla comunione e quindi era avvenuto il recupero dell’anima sua per via dell’estrema unzione somministrata in punto di morte.
«Figli di puttana!» Stava pensando Lucifero guardando verso il Cielo: gli erano state sottratte delle anime già condannate alla dannazione eterna e delle quali si riteneva l’unico padrone.
«Sleali e maledetti!» Continuò ad inveire mentalmente il satanasso.
«Mi avete fregato un’altra volta… ma non pensate d’aver vinto.» Questo era il pensiero assillante che animava di revanscismo la sua volontà infernale. Era giunto il momento di agire: avrebbe mandato il suo nuovo portaborse per tentare, almeno, l’accalappiamento dell’anima di Gano Garagnone. Voleva che, a tutti i costi ritornasse in suo potere: era una questione di prestigio!
Italia, Roma – Venerdì 20 maggio 2011. Natascia Reggiani e Gino Gargano
Gino stava rigirando tra le mani il documento che sanciva definitivamente il cambio di parte della sua identità. Vi fu un tempo in cui il suo nome era quello di Daniele
. Quel Daniele, tuttavia risultava deceduto a seguito di omicidio da parte di un marito attempato, ma gelosissimo, di una donna molto giovane che, disinvoltamente, concedeva le proprie grazie a chiunque fosse in grado di soddisfarne gli appetiti sessuali di una ninfomane. Fu così che Daniele venne sorpreso in fragrante copula con la giovanissima ed avvenente Silvana e venne assassinato, con cinque colpi di revolver, dal marito tradito. Poco dopo, il suo viaggio nel nulla lo fece approdare alle Porte degl’Inferi dove conobbe Lucifero che volle cambiargli l’identità. Ricordava ancora le parole del nero Principe della Bolgia di Lato Oscuro, che risuonavano alle sue orecchie:«…si chiamerà Gano come il traditore che ospitiamo nell’Antenora della nona cerchia. Sì, Gano di nome e Garagnone di cognome in ricordo delle sue passate gesta tra le lenzuola perché in un’altra lingua vuol dire stallone
come l’attore italo-americano cresciuto nella zona, non proprio residenziale, di Hell’s Kitchen di New York.»
Con quel nuovo nome accettò di ritornare sulla Terra, quale emissario delle Forze del Male, con l’incarico di circuire la bella Elisangela. Non sapendo che la giovane psichiatra era un angelo in missione segreta anch’essa, ma per conto delle Forze del Bene. Ne fu affascinato, rapito dall’eterea bellezza di quella donna -risultata, poi, essere priva di sesso- e nel di lei studio conobbe Fra Giacomo che divenne il suo padre spirituale operando la sua definitiva conversione dopo aver esorcizzato la presenza malefica di Mefisto, che albergava nel suo corpo. Da quel momento la sua vita cambiò: lasciò la sua professione di insegnante di ballo per quella meno redditizia di Missionario Laico nei Paesi del Terzo Mondo. Il suo ultimo incarico si era svolto a Salvador de Bahia dove, con una collega divenuta la sua compagna di vita, aveva portato a termine la ristrutturazione della Sede della Missione Laica che si occupava dei meninos de rua in quella città del Brasile. Il fabbricato era stato acquistato con i soldi raccolti con una sottoscrizione del quotidiano presso il quale lavorava Francesca Salvadori, una giornalista amica di Learco, conosciuti ambedue in Brasile, nel corso di una rocambolesca avventura dove c’era scappato, ahimè, anche il morto: un certo Attilio Sannito.
«Gino e non più Gano!» si disse, mentalmente, considerando come la mutazione di una semplice vocale potesse cambiare, completamente, il senso di un nome. Il nome di Gano era associato, nell’Inferno Dantesco, a quello dei grandi traditori della Patria: Bocca degli Abati, Buoso da Duera, Tesauro Beccheria, Gianni Soldanieri, Tebaldello Zambrasi, Ugolino della Gherardesca e Ruggieri degli Ubaldini. Erano tutti relegati nella Zona dell’Antenora della Nona Cerchia e condannati a stare sommersi, fino al collo, nelle acque ghiacciate del Cocito. Ricordava inoltre che Gano di Maganza nella Chanson de Roland
nell’anno 778 era stato il traditore che aveva tramato con il principe saraceno, signore di Saragozza, per provocare la morte di Orlando del quale era geloso, in quanto il paladino favorito di Re Carlo Magno. Si narra, infatti, che dopo la ritirata dell’esercito franco dal fallito assedio di Saragozza, la retroguardia degli armati di Carlo Magno, capeggiati per l’appunto da Orlando, mentre valicava i Pirenei venne assalita dai saraceni sul Passo di Roncisvalle nel territorio della Navarra. Fu su istigazione di Gano di Maganza, che si era venduto al nemico, che avvenne la carneficina di quei valorosi e del paladino prediletto dal Re. Tutti i soldati franchi si batterono da leoni ma caddero uno ad uno compreso l’eroico Orlando.
Gino riprese a leggere, nuovamente, il dispositivo del Provvedimento Legale che l’Avvocato Ernesto Farini, avvocato dell’amica Licia Giannini, gli aveva consegnato:
...per i motivi suddetti ed avendo preso atto dell’abbinamento infamante dell’attuale appellativo di
Gano Garagnone" e della domanda rivolta all’ Illustrissimo Signor Presidente della Repubblica Italiana, in carica pro tempore, esaminata la documentazione acquisita in atti, accoglie l’istanza della Parte interessata, affinché siano modificati i propri dati relativamente al nome e cognome, fermo restando tutti gli altri già acquisiti dall’ufficio anagrafico.
A U T O R I Z Z A
La modifica del nome in quello di Gino
sostitutivo di Gano
ed il cognome patronimico in quello di Gargano
sostitutivo di Garagnone
. Si dispone che i suddetti dati vengano acquisiti dal registro anagrafico del Comune di Nascita nonché in quello di Residenza con l’obbligo di notifica alla Prefettura ed alla Questura nonché agli Organi di Polizia Amministrativa, Tributaria e Giudiziaria del territorio della Repubblica ed inoltre ..."
L’avvocato aveva aggiunto, scherzosamente: «…adesso può chiedere l’emissione della nuova Carta d’Identità e del Passaporto con dei dati meno anomali di quelli precedenti.»
Non immaginava che il suo precedente nome, al quale si era abituato senza soffermarsi troppo sull’abbinamento infamante, potesse essere collegato, come aveva fatto Natascia -la sua attuale compagna di vita- all’infelicità che effettivamente c’era stata nella propria infanzia. Il nome della sua precedente vita terrena era stato scelto dal suo patrigno, il quale aveva sposato sua madre, nonostante aspettasse il figlio di un altro: un rivale che, messa incinta la donna, s’era poi dileguato. Il suo nome non era stato, quindi, la crudele vendetta ricaduta sul bastardo
come spesso veniva apostrofato, quando veniva selvaggiamente picchiato da quell’uomo in preda all’alcool. Non fu mai accettato come figlio ed il matrimonio contratto solo per orgoglio ferito, altro non era stato che il certificato di possesso d’un corpo avvenente
. Non era stato, dunque, amore ma una vendetta verso la donna alla quale quel figlio doveva ricordare la propria colpa: quella del tradimento.
«Uno strano modo d’amare una donna» si era detto Gino, più d’una volta, ed anche: «…carità pelosa
nei confronti d’un bimbo non voluto.»
Con questi ricordi era cresciuto abbandonato a se stesso privo d’affetti e di una guida paterna. Era finito nel giro di cattive compagnie: qualche scippo, i primi furti con destrezza poi quelli con scasso ed in fine la condanna al riformatorio dove aveva conosciuto, anche, la droga. Uscito dalla casa di pena, a vent’anni, batteva le strade offrendosi a chi potesse pagare di più. Non gl’importava il sesso delle persone con le quali si accompagnava… purché pagassero. Con fatica, con i proventi di più d’un lavoro ed anche con molti denari regalatigli delle sue amanti attempate, era riuscito a diventare ballerino quindi maestro ed in fine ad aprire una scuola di danza. Tutto pareva filare liscio: belle donne non gli mancavano e, dopo il patto con l’inferno, i denari nemmeno ma poi… era accaduto il fatto sconvolgente con Elisangela, l’amicizia con quel sant’uomo di Fra Giacomo, ed infine, l’incontro con la dolce Natascia Reggiani: una donna nelle cui vene scorreva il sangue focoso della madre magiara. Era stato per l’insistenza di Natascia che aveva accettato di inoltrare la domanda al Capo dello Stato, chiedendo che gli fosse cambiata l’identità in quella di Gino Gargano
.
Italia, Sorrento – Sabato 21 maggio 2011, Licia e Giannetto Giannini
Con Lidiane e Roseane, le due bimbe che avevano adottato in Brasile, avevano dovuto importare, anche, qualche abitudine alimentare. Dopo il loro rientro nella casa di Sorrento le piccole non mangiavano nulla e, non toccando cibo, smagrivano a vista d’occhio. Licia presa dalla disperazione tentò, un giorno, di telefonare a Dona Luiza. Lo fece tramite il programma di skype
che aveva scaricato da Internet sul suo computer. L’intenzione era quella di chiederle consiglio. La madre di Vagner, il loro avvocato di Rio de Janeiro, fu felice di sentire la voce amica di Licia.
«Oi Licia, tudo bem com você?» la salutò alla maniera brasiliana.
«Tudo bem!» rispose in luso-brasileiro, ma poi proseguì in italiano: «… ho qualche problema con la dieta delle piccole che non mi mangiano nulla!»
«Uhm… è molto strano. Il cibo italiano è molto saporito e quello della nostra regione di origine è simile alla comida baiana.»
Anche se non sono campana di nascita, ho imparato a preparare molti piatti di qui. Lidiane e Roseane, sembra, quasi, che si divertano a farmi impazzire nel dar loro da mangiare. Assumono solo latte zuccherato e dolci!» Dall’altro capo del filo il silenzio faceva pensare ad una riflessione mentale di Dona Luiza. Poco dopo un barlume parve squarciare nella memoria dell’anziana signora ed un’idea fu subito espressa riprendendo a parlare con quel suo simpatico accento partenopeo ma con la cadenza brasiliana.
«Insieme a quello che preparate, avete messo in tavola arroz e feijão?» chiese Dona Luiza, dandole del voi
secondo l’uso campano.
«Riso e fagioli? Certo che no… non li ho cucinati!» rispose Licia un poco esterrefatta da quella strana domanda.
«Mia cara, forse non ci avrete fatto caso, ma in Brasile non mancano mai in tavola: sono come il pane per gli italiani. Le vostre piccole ne avevano a disposizione in gran quantità, quand’erano qui in Brasile, ma adesso…»
«Lei dice che è questo il motivo del loro digiuno?» chiese, ancora perplessa.
«Non posso esserne certa, ma tentar non nuoce! Mi raccomando, i fagioli devono essere quelli brasiliani, piccoli e neri con l’occhio bianco: li troverete, di certo, in ogni negozio di erboristeria.»
«Scendo subito a comprarli! Grazie Dona Luiza, mi saluti Vagner, suo marito e tutti gli amici cariocas.» Non aveva terminato di parlare, che già imboccava la porta di casa seguita dalle due bimbe che, trotterellando, stavano ridendo.
A mezzogiorno Lidiane e Roseane mangiarono tutto: tutto, tutto, ma proprio tutto, oltre il riso ed i fagioli, naturalmente. Licia pensò di richiamare Dona Luiza per ringraziarla di quel suggerimento risultato provvidenziale. A Sorrento erano le tre del pomeriggio mentre a Rio de Janeiro erano le sette di sera: Licia compose il numero dal proprio computer.
«Oì ?» La voce squillante di Dona Liza rispose alla chiamata.
«Desculpe, sono sempre io: Licia, dall’Italia.»
«Ha funzionato? Hanno mangiato le piccole?» La voce trafelata di Dona Luiza commosse Licia al punto di farle inumidire gli occhi.
«Sìm, graças a Deus! Hanno mangiato a crepapelle: avevano fame, povere piccole» rispose trattenendo, a stento, i singhiozzi di un’incipiente sfogo di pianto.
«Su, su, nun facite accussì! I nostri figli sono come dei diavoletti sempre dispettosi, in tema di cibo: sapeste con Vagner… quante ne ho passate!»
«Sì, sì, Dona Luiza, se non fosse stato per lei…» tentò di abbozzare un ringraziamento, ma fu subito interrotta.
«Prima che vi facciano un altro brutto scherzo, ricordate di cucinare, almeno una volta per settimana, la feijoada» si affrettò a dirle Dona Luiza.
«La feijoada, l’ho mangiata a Rio, ma non saprei come prepararla! La carne secca e quella salata non esistono qui a Sorrento» rispose sgomenta Licia.
«Per la ricetta, datemi tempo e ve la invierò per e-mail. Per quanto riguarda le carni, potete usare quelle normalmente macellate di fresco. L’essiccazione e la salagione, sono soltanto sistemi di conservazione, tant’è vero che le si debbono ammollare e dissalare in acqua, fin dal giorno precedente la cottura. L’importante è che ci siano tutti i vari tipi di carne.»
«Sono molti… quali sono?» chiese Licia allungando una mano verso il bloc-notes per prendere nota scrivendo.
«Non molti ma: carne grassa di maiale, quella polposa di manzo, la zampetta e le orecchie di maiale, un pezzo di testina unitamente alla linguiça: la salsiccia affumicata brasiliana, che potrete sostituire con il Bacon affumicato accompagnato da salsicce tagliate a rondelle... e poi gli immancabili feijão piccoli e neri» le spiegò con molta pazienza.
Dopo qualche giorno le giunse la ricetta completa e fu così che Licia iniziò a specializzarsi in quel piatto tipico del Brasile che, quando il Sabato lo cucinava, risvegliava in tutta la famiglia una certa saudade.
Anche questo Sabato il profumo della feijoada
stava spandendosi per la casa, uscendo dalla zuppiera che Licia aveva messo in tavola. Giannetto e le due bimbe aspettavano, con occhi golosi, che i piatti fossero colmati. Il riso bianco e fumante troneggiava in un piatto da portata che si trovava in centro tavola con quello della immancabile farofa
accanto alla verza sottilmente tagliata ed