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Le ricette per il piacere di una vita sbagliata
Le ricette per il piacere di una vita sbagliata
Le ricette per il piacere di una vita sbagliata
E-book456 pagine3 ore

Le ricette per il piacere di una vita sbagliata

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Info su questo ebook

Con “Le ricette per il piacere di una vita sbagliata” - un libro scritto dopo il precedente intitolato “Il passato ritorna” - l’autore prosegue la sua serie di racconti brasiliani. Questa volta il romanzo è incentrato su un uomo la cui vita egli si accorge essere stata senza senso: “una vita sbagliata ma vissuta con piacere” come spesso dice di se stesso Emanuele Russo, il protagonista italiano di queste pagine colme di ricordi e riflessioni talvolta un poco amari addolciti, solamente, dalle ricette della cucina tramandategli dalla famiglia di origine. Quali siano gli ingredienti giusti sarà il lettore a deciderlo leggendo le pagine che Learco ha voluto scrivere per lui. Più che un ricettario di cucina, come apparentemente potrebbe sembrare, il romanzo rappresenta un insieme di vivaci colori spremuti sulla tavolozza di una seconda vita brasiliana di Emanuele, pittore per vocazione missionaria a fin di bene, che Learco ha voluto raccontarci dalla cucina del protagonista, sotto forma di diario. Per Emanuele Russo, personaggio immaginario, il Brasile rappresenta l’ultima opportunità d’essere, se non felice, almeno un pensionato sereno lontano dagli assilli di un mondo europeo lasciato alle proprie spalle senza troppi rimpianti ma un appuntamento, inderogabile, con il destino lo attende. Il finale del romanzo non potrà che stupire il lettore che dovrà attendere di leggerlo nelle ultime pagine ed è questo il consiglio dell’editore
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2015
ISBN9788899001483
Le ricette per il piacere di una vita sbagliata

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    Anteprima del libro

    Le ricette per il piacere di una vita sbagliata - Learco Learchi d'Auria

    el.dorado.44@hotmail.com

    Prefazione

    Con questo libro, scritto dopo il precedente intitolato Il passato ritorna, l’autore prosegue la sua serie di racconti brasiliani. Questa volta il romanzo è incentrato su un uomo la cui vita egli si accorge essere stata senza senso: una vita sbagliata ma vissuta con piacere come spesso dice di se stesso Emanuele Russo, il protagonista italiano di queste pagine colme di ricordi e riflessioni talvolta un poco amari addolciti, solamente, dalle ricette della cucina tramandategli dalla famiglia di origine.

    Quali siano gli ingredienti giusti sarà il lettore a deciderlo leggendo le pagine che Learco ha voluto scrivere per lui. Più che un ricettario di cucina, come apparentemente potrebbe sembrare, il romanzo rappresenta un insieme di vivaci colori spremuti sulla tavolozza di una seconda vita brasiliana di Emanuele, pittore per vocazione missionaria a fin di bene, che Learco ha voluto raccontarci dalla cucina del protagonista, sotto forma di diario.

    Per Emanuele Russo, personaggio immaginario, il Brasile rappresenta l’ultima opportunità d’essere, se non felice, almeno un pensionato sereno lontano dagli assilli di un mondo europeo lasciato alle proprie spalle senza troppi rimpianti ma un appuntamento, inderogabile, con il destino lo attende.

    Il finale del romanzo non potrà che stupire il lettore che potrà leggerlo nelle ultime pagine ed è questo il consiglio che mi sento di dare.

    Elisa Savarese

    Presidente dell’Università Avalon

    Poter avere la possibilità d’ottenere una

    una seconda opportunità non è da tutti.

    Poter riscrivere la bella copia della

    propria vita - dopo la brutta - è una

    utopia che affascinerebbe chiunque ma,

    c’è sempre un ma in tutte le cose.

    Dedico queste pagine a tutti coloro che

    avvedendosi, sul finire della propria

    esistenza, della futilità di molte illusioni

    giovanili, hanno voluto scoprire un raro

    piacere: quello del riscatto da una vita

    sbagliata, sebbene gaudente.

    Learco Learchi d’Auria)

    I personaggi del presente romanzo sono stati ideati dalla fantasia dell’autore.

    Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti sono puramente casuali.

    Prologo

    La giornata non prometteva nulla di buono: infatti pioveva ed il freddo, proveniente dal Sud, penetrava fin nel midollo delle ossa. Almeno questa era la sensazione che Emanuele, ingegnere da un anno in pensione, percepiva. Ogni tanto, nei periodi dell’inverno australe, accadeva che le correnti fredde del Polo Sud spazzassero il litorale di São Paulo. Per una decina di giorni la temperatura cadeva di diversi gradi ed il clima, inizialmente molto mite, somigliava a quello freddo del Sud dell’Europa. La sola differenza della parola sud è data dal fatto che mentre al di sopra della linea dell’Equatore a questa viene associato il caldo, al di sotto di tale linea di demarcazione viene, invece, richiamata all’epidermide la sensazione del freddo.

    «Tempo da lupi… tempo di polenta!» si disse l’uomo, tirando su il colletto del giaccone da marinaio ed infilando le mani, infreddolite, nelle tasche poste sulla pettorina. Quel giaccone di lana blu gli aveva dato da pensare nel momento di spedire i propri indumenti dalla lontana Italia al Brasile. Era un bel giaccone con i bottoni di metallo dorato che era costato un occhio e per tale motivo non se l’era sentita di regalarlo. Anche altri capi di lana pesante erano stati, infine, spediti stipati nel container con i mobili e con tutto il resto. Ora che Emanuele aveva scoperto il comportamento di quello strano clima brasiliano, era contento di non avere rinunziato ad una parte del suo guardaroba. E poi… un capo di sartoria italiana è sempre un bel capo elegante: uno di quelli che a Peruíbe non lo si poteva reperire in nessun negozio del centro. La stessa cosa era valsa per la mobilia di famiglia fatta si buon legno e per i dipinti con i quali aveva arredato la casa. La spedizione era costata un po’ ma, alla fine Emanuele non si era pentito della scelta che aveva fatto. Era stata una scelta dettata dal volersi portare dietro un pezzo delle proprie radici. Cambiar di casa, di città, di Stato, di continente, di abitudini e di idioma è già un grande choc anche per chi è avvezzo ai lunghi viaggi ed ai cambiamenti. Emanuele aveva pensato che ricostituendo un pezzettino dell’ambiente familiare, nella nuova casa in terra straniera, l’avrebbe aiutato a sopportare meglio il trauma del trasferimento e così era stato.

    «Sì il freddo durerà per almeno una settimana. È proprio tempo di polenta e bacalhau… ne cucinerò un bel po’ Giovedì e, già che ci sono, inviterò a pranzo Paulo.» si disse l’ingegnere, affrettando il passo.

    Brasile – Stato di São Paulo, Litoral Sul Paulista -Città di Peruíbe – Martedì 17 maggio 2011 - L’amico Paulo, mediatore immobiliare

    L’amicizia con Paulo dos Santos era iniziata con l’acquisto della casa in Peruíbe. Paulo era il classico corretor simpatico, furbastro ed un poco scavezzacollo. Aveva 40 anni, un anno di più di Vittorio - il figlio che Emanuele aveva avuto dalla prima moglie, ma per l’ingegnere italiano, che ne aveva compiuti 66, quell’uomo era divenuto il punto di riferimento per ogni informazione su ogni cosa locale.

    Quando, nel mese di novembre del 2010, Emanuele Russo era giunto con l’aereo a Guarulhos, nell’aeroporto internazionale di São Paulo, si era trasferito - ospite pagante- in casa di una famiglia di amici conosciuti due anni prima, durante una vacanza nello Stato di Bahia dove aveva deciso il trasferimento definitivo dall’Italia in Brasile. Presso quella famiglia aveva soggiornato per cinque mesi ed aveva migliorato la conoscenza del luso-brasileiro. Da São Paulo partiva ogni settimana, in onibus, per prendere visione di case ed appartamenti posti in vendita tramite Internet. Durante ogni spedizione sul Litoral Sul Paulista aveva visitato decine di immobili a Santos, São Vicente, Praia Grande, Mongaguá ed Itanhaém ma nessuna casa era risultata di suo gradimento o sufficientemente sicura. Era, infine, giunto a Peruíbe solamente per caso e poco convinto di poter trovare quello che cercava da tempo.

    Emanuele aveva preso visione di una casa non lontana dal mare, che si prestava bene per quello che gli necessitava: una bella sala-ingresso, cucina spaziosa dove cucinare i suoi piatti preferiti, un’annessa lavanderia, bagno con doccia, due camere matrimoniali e, sul fondo, la churrasqueira, una doccia esterna per l’estate, un altro servizio igienico adiacente ad una piccola camera dove poter dipingere i propri quadri. Era la casa ideale nonostante qualche inconveniente all’impianto elettrico ed ai pavimenti le cui piastrelle risultarono, poi, molto fragili. Nel cortile posto sul davanti c’erano due comodi posti-autovettura, per gli ospiti, visto che Emanuele non ne possedeva. Quello che aveva fatto pendere l’ago della bilancia per l’acquisto era stata la vicinanza di un grande supermercato e di molti negozi. Il quartiere era limitrofo alla spiaggia ed a quello del Centro, raggiungibili anche a piedi. Il prezzo spuntato era accettabile, specie, considerando che non era indispensabile l’acquisto di un’autovettura, giacché Emanuele detestava guidare.

    Paulo aveva il proprio ufficio prospiciente la strada posta di fronte alla casa dove abitava Emanuele e fu così che, passando di lì giorno dopo giorno, facendo quattro chiacchiere nacque l’amicizia tra l’ingegnere italiano ed il mediatore brasiliano. Il mezzo che cementò tale rapporto era stata la moka, una caffettiera portata dall’Italia per fare il caffè espresso in casa. Paulo, ghiotto di tale bevanda, si affacciava spesso al cancello di Emanuele autoinvitandosi per bere una tazza di buon caffè e, talvolta, veniva sollecitato per fermarsi a pranzo e sperimentare la culinaria italiana nella quale Emanuele si dilettava essendo uno chef molto bravo.

    Brasile – Stato di São Paulo, Litoral Sul Paulista Città di Peruíbe – Giovedì 19 maggio 2011 - Il solito invito a pranzo del Giovedì

    Era divenuta, ormai, un’abitudine l’invito a pranzo del Giovedì ma Paulo dos Santos aspettava quel giorno con la curiosità di scoprire quale nuovo piatto l’ingegnere italiano avrebbe cucinato.

    Ogni volta era una sorpresa, soprattutto quando Paulo scopriva che determinate cose per lui abitualmente disgustose diventavano, nelle pentole di Emanuele, delle prelibatezze indescrivibili. La cosa iniziò con un sughetto di pummarola fatto in casa secondo la ricetta tradizionale napoletana, dove Emanuele aveva messo un paio di melanzane sbucciate e preventivamente insaporite in padella con aglio e prezzemolo tritati. Fu così che Paulo mangiò, senza saperlo, le famigerate berinjelas.

    «Come lo hai trovato il sughetto che ho preparato per le pennette?» chiese l’italiano con noncuranza come se fosse una domanda fatta, lì per lì, senza soverchia importanza.

    «Uma gostosura, come sempre, quando assaporo una comida cucinata da te» rispose il brasiliano.

    «Lo sai che cosa hai mangiato nel sugo di pomodoro?» chiese, sornione, Emanuele.

    «No… ma qualsiasi cosa ci fosse stata, era semplicemente deliziosa...» rispose Paulo che però si affrettò a chiedere: «… che cosa ci hai messo?»

    «Melanzane.» disse, laconico, Emanuele.

    «Berinjelas? È impossibile! Io odio le melanzane… non le posso soffrire.»

    «Invece sì… le hai mangiate e, a quanto vedo, hai anche pulito il piatto facendo la scarpetta con il pane.» confermò l’ingegnere, ridendo.

    «Mi hai fatto mangiare una cosa che mia madre e neppure mia moglie sono mai riuscite a farmi ingoiare così come la cipolla cotta che a me piace solo cruda messa nell’insalata.» disse Paulo, rimanendo un poco perplesso per il buon sapore di quella melanzana cotta nel sugo di pomodoro.

    «Dovrai rivedere molte opinioni su tante altre cose. La prossima volta, già che ne hai parlato, preparerò melanzane, zucchine e cipolle, ripiene e cotte nel forno.»

    «La prossima volta, temo che dovrò accontentarmi dell’insalata» concluse Paulo, restando dubbioso sulle cipolle cotte.

    La volta successiva si ripeté la stessa scena avvenuta per il sugo di pomodoro con la melanzana e Paulo rifece la scarpetta, pulendo il piatto con il pane, dopo aver divorato, golosamente, sia le

    melanzane sia le zucchine e, ovviamente, anche le cipolle ripiene.

    In quella fredda giornata di quinta-feira Emanuele aveva cucinato, com’era stata sua intenzione all’inizio del grande freddo la polenta con il baccalà alla vicentina. Quando Paulo lo raggiunse, un buon odore di pietanza calda si spandeva nella cucina dell’italiano.

    «Bom dia Seu Manoel… que bom cheiro!» disse il brasiliano modificando il nome dell’amico.

    Normalmente non si dovrebbero tradurre i nomi delle persone ma, facendolo, Paulo aveva inteso di naturalizzare brasiliano Emanuele, anzi tempo. La cosa non dispiacque all’ingegnere italiano che non si oppose a quel nuovo apelido e da quel giorno divenne per tutti Manoel.

    «Olá, Paulo, tudo bem com você? » rispose, sorridendo Emanuele.

    «Sim, querido Manoel, tudo bem… graças a Deus!» esclamò, di rimando, Paulo andando a scoperchiare la pentola che si trovava, in leggera ebollizione, sul fogão a gas.

    Poco dopo si misero a tavola e Paulo abbassando il naso, quasi a toccare la polenta condita con il baccalà alla vicentina, mise su un’espressione deliziata, al pensiero di quello che avrebbe mangiato.

    In Brasile il bacalhau viene importato dal Portogallo che, quando non viene pescato in Oceano Atlantico, a sua volta, lo importa dal Nord-Europa. Ha, di conseguenza, un prezzo elevato così come tutto ciò che è importato. La differenza tra il baccalà importato in Brasile e quello importato in Italia sta nella pezzatura e nella qualità. In Italia la pezzatura è maggiore e la qualità è decisamente migliore. Il baccalà ha una storia molto antica che risale a prima della scoperta del Brasile, avvenuta nel 1500. Il baccalà, così come lo stoccafisso, giunsero nella Serenissima Repubblica di Venezia solo casualmente quasi sei secoli fa a seguito di un fatto molto avventuroso.

    A Røst, una delle più sperdute fra le isole Lofoten, al largo della Norvegia, in una burrascosa e fredda giornata dell’anno 1431 naufragò la spedizione agli ordini del capitano veneziano Pietro Querini. è laggiù che per un singolare effetto a lungo termine, di quello sbarco avventuroso, oggi in alcuni villaggi si parla un dialetto molto simile al veneziano antico.

    Ma è bene raccontare la storia dal suo inizio così com’e riportata da Giovan Battista Ramusio nella raccolta Navigatione et viaggi.

    Il nobiluomo Querini, mercante, armatore e spericolato navigatore, verso la fine del 1431 salpò dall’isola di Candia, l’attuale Creta, facendo rotta per le Fiandre, dove intendeva fare buoni affari piazzando 800 barili di vino Malvasia. La sua cocca passò lo stretto di Gibilterra e giunse a Cadice. Nel piano di navigazione, superata la città spagnola, ci sarebbe dovuto essere lo scalo nel porto di Anversa, appartenente alla Lega Anseatica, ma a scombinare le carte ci pensò una terribile tempesta che arrivò a rompere gli alberi e le vele, e a rendere inutilizzabile il timone, mandando così i poveri Veneziani alla deriva e completamente fuori rotta. Dopo sei settimane in balìa della Corrente del Golfo, con la nave irrimediabilmente perduta, il nostro capitano prese la decisione di suddividere l’equipaggio su due scialuppe di soccorso, con la speranza di approdare sulle coste più vicine. Ma il mare s’ingoiò con il mezzo di salvataggio ben 47 uomini mentre l’imbarcazione superstite, con il capitano a bordo, fu sospinta fino all’arcipelago norvegese delle Lofoten, situato un centinaio di chilometri oltre il Circolo Polare Artico. Pietro Querini con i suoi luogotenenti Cristoforo Fioravante e Nicolò di Michiel ed i tredici marinai rimasti, ormai stremati, riuscirono finalmente a sbarcare a Sandoi, uno scoglio disabitato poco lontano dall’isola di Røst: in culo mundi, come il buon capitano scrisse nel suo diario rendendo quest’efficace espressione involontariamente celebre, tanto che lo presupponiamo sia tutt’ora in voga. Comunque, qualunque fossero le sue intenzioni, era la fine di dicembre del 1431 e le cose volgevano decisamente al meglio dato che i naufraghi furono raccolti e ospitati dai pescatori del luogo e dalle loro famiglie, e là rimasero, distribuiti nei capanni: Gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrarono molto benevoli et serviziosi, desiderosi di compiacere più per amore che per sperare alcun servitio o dono... vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che copron di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen. Gli abitanti di Røst saranno stati anche caritatevoli cattolici osservanti, ma di sicuro erano ingenui e privi di malizia come dei bambini. Infatti era loro costume coricarsi ignudi per il riposo notturno e non si dettero per inteso degli ospiti, che rimasero molto meravigliati di tale usanza. Alla mattina, poi, con il cielo ancora buio, gli uomini correvano alle barche e uscivano in mare per la pesca, lasciando dormire ancora per un paio d’ore le mogli e i figli e le figlie. Sembra che questa abitudine, assieme a quella di fare il bagno caldo tutti assieme, ospiti compresi, ogni giovedì, sia stata una tentazione troppo forte per i Veneziani, sicuramente cattolici senza incertezze, ma con ben altre abitudini, molto meno disinvolte. Si dice che, ancora adesso, alcuni norvegesi delle Lofoten abbiano caratteristiche somatiche piuttosto diverse da quelle delle altre genti del nord, almeno per quanto riguarda occhi e capelli, ma per noi è abbastanza facile pensare quale sia la soluzione di questo strano mistero. Pietro Querini nonostante le molte pratiche penitenziali ebbe anche il tempo di osservare il territorio che lo ospitava e gli usi dei suoi abitanti, annotando nel suo diario anche un bel passo dedicato all’affascinante fenomeno del …sole di mezzanotte per tre mesi all’anno… cioè da giugno a settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuna ora, sebbene resti visibile la luna. Dal 20 maggio al 20 agosto invece si vede sempre il sole o almeno il suo bagliore. Gli fu subito chiaro che in quelle isole si praticava un’agricoltura abbastanza limitata, giusto quel tanto per ricavare la segale, con la quale i Norvegesi producevano il pane e la birra; c’erano anche pochi animali da allevamento, probabilmente per la scarsità del foraggio, che la latitudine fredda e la mancanza di luce consentiva, e mentre l’attività principale non poteva che essere la pesca, favorita com’era dalla Corrente del Golfo che in quell’arcipelago non abbassa mai la temperatura dell’acqua marina sotto 15°C creando le condizioni ottimali per la riproduzione ittica, anche se a ben vedere le specie che andavano a riempire le reti erano solo di due tipi: i merluzzi e le platesse. Quello che lo colpì maggiormente fu il modo di conservare i merluzzi - che egli definisce stocfissi - annotando per primo che, dopo essere stati trattati nel modo già descritto, questi diventavano duri come il legno: Quando si vogliono mangiare li battono con il rovescio della mannara, che li fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butirro e specie per dargli sapore...". I naufraghi restarono ospiti sull’isola di Røst per quattro mesi, il 15 maggio 1432 una parte di questi furono finalmente trasferiti al porto di Bergen e, da qui, si recarono a Throndheim, dove s’imbarcarono su una nave diretta a Londra ma, stranamente, non vi giunsero mai.

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