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Charlie's Good Tonight: La biografia autorizzata e ufficiale di Charlie Watts dei Rolling Stones
Charlie's Good Tonight: La biografia autorizzata e ufficiale di Charlie Watts dei Rolling Stones
Charlie's Good Tonight: La biografia autorizzata e ufficiale di Charlie Watts dei Rolling Stones
E-book354 pagine5 ore

Charlie's Good Tonight: La biografia autorizzata e ufficiale di Charlie Watts dei Rolling Stones

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Info su questo ebook

Charlie era ciò che vedevi, ossia Charlie. Una delle persone più autentiche che abbia mai conosciuto.KEITH RICHARDS

Ridevamo come matti. Mi manca, sotto moltissimi aspetti.MICK JAGGER

Londra, estate del 1962.

Poco dopo aver formato la band, i Rolling Stones sono a caccia di un batterista fisso. Ne hanno individuato uno che fa al caso loro, un musicista jazz già noto sulla scena dei locali in cui si suona RnB. È Charlie Watts, e per fortuna – loro e dei fan degli Stones in tutto il mondo – lo convincono a entrare nel gruppo.

Dal momento in cui si siede alla batteria, Charlie non manca un colpo per il resto della sua vita: è lì nel periodo della Swinging London, quando gli Stones raggiungono l’apice della celebrità, e con loro cavalca gli eccessi degli anni Settanta, rappresentati dall’iconico album Exile on Main St.
E ancora, dopo aver combattuto con i propri demoni, emerge dagli anni Ottanta illeso, consolidando la sua reputazione di controparte riflessiva e colta, ma non meno affascinante, dei suoi ben più turbolenti compagni.

Per quasi sessant’anni – tra lutti, litigi e avvicendamenti sia sul palco che fuori – Charlie è sempre stato la roccia su cui poggiavano i Rolling Stones pur essendo l’antitesi della classica rockstar: un uomo estremamente riservato e molto legato alla propria famiglia.

Arricchito da interviste inedite ai famigliari, agli amici e agli altri membri della band, Charlie’s Good Tonight racconta la straordinaria storia di Charlie Watts come nessuno aveva mai fatto prima.

Con le prefazioni di Mick Jagger e Keith Richards.

LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2023
ISBN9788830592407
Charlie's Good Tonight: La biografia autorizzata e ufficiale di Charlie Watts dei Rolling Stones
Autore

Paul Sexton

Paul Sexton ha iniziato a scrivere di musica da adolescente, nel 1977. I suoi lavori sono apparsi sul Times, Daily Telegraph, il Guardian,il Billboard e numerose altre testate. Ha realizzato molti documentari e spettacoli come presentatore e produttore per BBC Radio 2. Oltre alla biografia di Charlie Watts, è anche autore di Prince: A Portrait of the Artist in Memories & Memorabilia (2021). Vive nel sud di Londra.

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    Anteprima del libro

    Charlie's Good Tonight - Paul Sexton

    PREFAZIONE

    DI MICK JAGGER

    Charlie era un musicista dalle vedute incredibilmente larghe e con un modo di suonare raffinatissimo. Aveva gusti universali, dal Jazz al Boogie-Woogie, dal Blues alla musica classica, dalla musica africana alla Dance, fino al Reggae e alle sciocche canzonette pop che, per uno strano caso, erano anche belle. Si cita sempre la sua grande passione per il Jazz, ma non si limitava soltanto a quello. È un’eccessiva semplificazione dei suoi gusti musicali e di ciò che gli piaceva suonare.

    È un po’ una leggenda il fatto che Charlie non uscisse mai. Certo che usciva. Insieme andavamo sempre a un sacco di eventi sportivi e in giro per locali di tendenza, a mangiare e ad ascoltare musica. In studio, quando tutti erano tornati a casa o prima che arrivassero, io e lui di solito ci mettevamo a suonare un po’, ogni genere di musica. Di tanto in tanto Charlie eseguiva dei beat africani e alcuni erano incredibili. Non era super tecnico, ma era molto versatile, così quando trovava un nuovo beat si entusiasmava parecchio.

    Era anche un appassionato di musica classica. Gli piacevano Dvořák, Debussy, Mozart e insieme ascoltavamo sempre Stockhausen e Mahler. Quanto ai compositori moderni, cercavamo di comprendere che diamine volessero dire.

    Era intelligente e parlava in maniera pacata, ma sapeva essere diretto e diceva ciò che pensava. Riguardo alla sua vita privata era riservato, ma comprendevamo i rispettivi modi di ragionare. E anche se era una persona molto tranquilla, aveva un gran senso dell’umorismo e ridevamo come matti. Mi manca, sotto moltissimi aspetti.

    Mick Jagger

    Giugno 2022

    PREFAZIONE

    DI KEITH RICHARDS

    Ogni volta che penso Adesso parlo di Charlie Watts, mi rendo conto che la sua essenza non si può descrivere a parole. Charlie era una presenza, e quando ti trovavi in sua compagnia non c’era altro.

    Il mio rapporto con lui era fondamentalmente incentrato sullo humour. Prendevamo per il culo le persone senza proferire parola. Avevamo una specie di linguaggio visivo dei segni, necessario tra un chitarrista ritmico e un batterista, perché bisogna comunicare in determinati modi. Ma quel linguaggio lo avevamo elevato ad arte sopraffina che poteva includere l’ironia, l’incazzatura oppure, sul palco, un Ok, stiamo volando, ora come atterriamo?.

    Charlie aveva un senso dell’umorismo incredibilmente caustico e sobrio, però io conoscevo alcune parole chiave, che non rivelerò. Non lo facevo spesso, ma se avessi pronunciato quelle due parole, diciamo nel bel mezzo di un aeroporto, Charlie si sarebbe steso sul pavimento piegandosi in due dalle risate. Le rare volte in cui l’ho messo in una situazione del genere per fortuna ci trovavamo sempre in una stanza d’albergo, perché talvolta gli scappava una risata sguaiata. E Dio solo sa qual era la battuta. In genere, a dirla tutta, qualsiasi cosa l’avesse provocata non era poi neanche così esilarante.

    Charlie era un uomo molto riservato. Ho sempre avuto la sensazione che non fosse necessario andare da lui a chiedergli di parlare, a meno che non fosse lui ad aver voglia di farlo. Non aveva lati nascosti, con lui non esistevano artifici. Charlie era ciò che vedevi, ossia Charlie. Una delle persone più autentiche che abbia mai conosciuto.

    Keith Richards

    Giugno 2022

    PRELUDIO

    Ho incontrato Charlie per la prima volta a Eel Pie Island. Era un mercoledì, il 1° maggio. Avevo visto il mio primo concerto degli Stones la domenica precedente allo Station Hotel di Richmond. Non ci avevo parlato, avevo forse fatto un cenno con il capo a Mick e Keith, ma avevo chiacchierato solo con Brian Jones, all’epoca il portavoce designato del gruppo.

    Allo Station Hotel la band mi aveva travolto. In realtà non avevo la minima idea del perché, sapevo solo che mi aveva fatto cambiare idea su molte cose e volevo farne parte. Il mercoledì successivo avevo già messo su un’attività a nome mio e del mio proprietario di casa, l’agente Eric Easton, che mi aveva affittato una stanza e un telefono a Regent Street. Il concerto era terminato e io ero rimasto nei paraggi, nervoso, con l’intenzione di passare il provino e andare avanti.

    Ero in piedi accanto a Charlie e alla sua batteria. Non avevo idea di cosa dire, così mi offrii di aiutarlo a trasportare il kit. Lui sorrise e declinò la mia offerta; sapeva già che le mie capacità erano ben altre. Mi aveva incantato allo Station Hotel, come mi aveva incantato tutta la band.

    Nella mia prima autobiografia, Stoned. Come s’inventa la più grande rock’n’roll band del mondo, ho scritto: Il batterista sembrava essere stato teletrasportato sul palco e si aveva l’impressione di percepirlo più che ascoltarlo. Apprezzavo la sua presenza nella band e le sue esecuzioni. A differenza degli altri cinque, che non la portavano proprio, aveva la giacca abbottonata meticolosamente fino al collo, ultimi due bottoni inclusi, e la indossava su una camicia e una cravatta altrettanto curate, per nulla intaccate dalle condizioni climatiche in sala. Il corpo dietro la batteria e la testa rivolta a destra in un distante, affettato disprezzo per l’esibizione di mani che gli si agitavano davanti a settantotto battiti al minuto. Era con gli Stones, ma non apparteneva agli Stones, e mostrava un velo di malinconia, come se fosse stato trasportato lì per la serata dal Ronnie Scott’s o dal Birdland, dove si era spinto in un altro tempo e spazio, simile a quello di Julian ‘Cannonball’ Adderley. Era l’unico e il solo, un uomo di mondo senza tempo, gran signore del tempo, dello spazio e del cuore. Il suo raro talento musicale è un’espressione del suo ancora più grande talento per la vita: avevo appena conosciuto Charlie Watts.

    We Love You e Dandelion furono le ultime sessioni in cui lavorammo insieme. Come accadeva per molti brani degli Stones in corso d’opera, non esisteva un finale prestabilito: meglio vedere se la carne e le patate erano cotte prima di aggiungere le verdure. Il finale era un mélange di Nicky Hopkins e Brian Jones alle tastiere e ai fiati, Keith e Mick alla voce e Charlie a guidare la mischia con fill improvvisati. All’epoca pensavo che li suonasse solo perché c’ero io. Mi sbagliavo, Charlie li riteneva appropriati e basta.

    Negli anni Ottanta Charlie passò a New York per un qualche impegno durante una delle sue escursioni jazz da solista. Feci l’errore di fargli ascoltare qualcosa a cui stavo lavorando. Non era interessato. «Andrew» mi disse, probabilmente a mo’ di spiegazione, «non mi interessa quello che fanno gli Stones. Mi interessa solo quello che suono io.» Fortunatamente il momento di difficoltà si affievolì, prevalse l’urlo fattela passare e andiamo avanti e la band continuò a suonare. L’ho visto per l’ultima volta a Seattle nel 2005: era esattamente la stessa persona a cui avevo detto ciao a Eel Pie Island.

    Nel mondo del cinema si parla di epoca d’oro. La nostra epoca d’oro è stata Charlie Watts. Tutte le grandi band hanno una cosa in comune: un batterista insolito.

    Andrew Loog Oldham

    Giugno 2022

    INTRODUZIONE

    UN UOMO SENZA TEMPO, SEMPRE A TEMPO

    Madison Square Garden, New York, novembre 1969. Mentre la più grande rock’n’roll band al mondo, così consacrata di recente dal maestro di cerimonie del tour, Sam Cutler, termina agilmente Little Queenie di Chuck Berry e attacca il suo più recente numero uno in classifica, Honky Tonk Women, con fare colloquiale Mick Jagger offre il suo punto di vista: «Charlie’s good tonight, innee?».

    Certo, Charlie era in gran forma, e lo sarebbe stato sempre. Il solo nominare Charlie Watts, nel contesto di questa biografia o in qualsiasi punto di una conversazione, basta a far scattare sull’attenti i colleghi musicisti e i fan. Che è poi proprio il tipo di elogio a cui si sarebbe sottratto fuggendo a gambe levate, come ha fatto nel corso di una vita del tutto singolare e inverosimile.

    Charlie era la prova che non tutte le rockstar sono create uguali e che i cliché esistono per essere evitati. Come quello che, almeno secondo il suo modo di vedere, lui non era affatto una rockstar. Era una celebrità globale che odiava l’attenzione e una volta aveva dichiarato di preferire la compagnia dei cani a quella degli esseri umani; l’appassionato di automobili che non guidava; il cavallerizzo che non cavalcava; l’uomo di grandi mezzi e grande gusto che era cresciuto in un prefabbricato; il batterista che era stato in tour per cinque decenni e mezzo e li aveva trascorsi tutti a desiderare di tornare a casa; il musicista a chiamata convinto che gli Stones non sarebbero durati più di un anno e che finì per diventare la fiamma pilota del gruppo con una condanna a vita. Anche come personaggio di fantasia, in pochi crederebbero alla sua esistenza.

    Scrivere di lui al passato è, per sua natura, triste ma probabilmente Charlie avrebbe evitato la lettura di questo libro in ogni caso. Immagino che al massimo avrebbe potuto dargli un’occhiata per vedere quali fotografie, tra tutte quelle che lo ritraevano nella sua formale eleganza, avessimo scelto ma niente di più. Charlie’s Good Tonight è, spero, il racconto delicato di una vita ben vissuta e di sicuro ben apprezzata. Se siete alla ricerca di un personaggio controverso, state guardando allo Stones sbagliato.

    Dopo la grande gioia di trent’anni di interviste a lui e a tutti i Rolling Stones, nel 2020 mi è stata proposta l’idea di lavorare con Charlie alla sua autobiografia. Era un’idea al tempo stesso entusiasmante e destinata al fallimento: il concetto stesso che lui scrivesse di sé era fondamentalmente sbagliato.

    Charlie ammetteva apertamente che la musica dei Rolling Stones non era proprio il suo genere e che non la riascoltava quasi mai, a meno che non dovesse dare l’approvazione per una ristampa o cose simili. Ma era sempre la personificazione del garbo ogni volta che veniva chiamato a svolgere i suoi doveri promozionali. Con il tempo, s’imparava a entrare e uscire dai suoi imprevedibili meccanismi di pensiero e dal suo modo di esprimersi e ad attendere con impazienza quel suo sorriso caldo e radioso. Tutto ciò, nonostante il fatto che a volte il suo cervello e la sua bocca corressero a velocità diverse e che a volte avesse lo sguardo distratto di un uomo che sta cercando di ricordare se ha lasciato una pentola sul fornello.

    Documentare la sua vita in terza persona sembra del tutto più appropriato e la rapidità con cui i suoi amici e i suoi familiari hanno offerto la propria approvazione e il proprio contributo dice tutto di lui. La sua esistenza ha rispecchiato la prolungata e adorante acclamazione che, a ogni concerto degli Stones che si ricordi, seguiva la sua presentazione da parte di Mick Jagger e la cascata globale di affetto suscitata dalla sua morte, avvenuta all’età di ottant’anni nell’agosto del 2021.

    Da giovane musicista a contratto al batterista dalle mani ferme e un’aura che ne travalicava l’età biologica, da colonna portante degli anni di gloria a icona di stile dai capelli color argento, Charlie Watts ha vissuto tutte queste vite, ma ha lasciato ad altri il compito di fare rumore in sua vece. L’esibizionismo? Non faceva per lui. Desiderava solo starsene a casa e si chiedeva cosa fosse tutto quel chiasso.

    Alla sua morte, quasi tutti i tributi e i necrologi hanno fatto riferimento allo Stones silenzioso, alla spina dorsale della band, all’uomo che in cinquantasette anni non ha mai saltato un concerto (cosa non del tutto vera: ne ha saltato almeno uno, nel 1964, perché aveva sbagliato giorno, come scopriremo). Ma si è parlato molto meno del collezionista incallito, della sua magnanimità e generosità nel fare regali, dell’uomo con un senso dello stile d’altri tempi che spesso gli lasciava la sensazione di essere nato nel secolo sbagliato.

    Charlie aveva la capacità, intenzionale e no, di riassumere una storia, una situazione o una vita con un uppercut netto che poteva essere eguagliato solo dal suo amico Ringo Starr con i suoi malapropismi come "hard day’s nights e tomorrow never knows". «Cinque anni di lavoro, vent’anni di ozio» era una delle battute più note di Charlie, ma ce n’erano molte altre. Averne ascoltate alcune in prima persona, essere stato testimone di quello stoicismo concentrato in una mascella squadrata, di quel volto granitico che si sgretolava in un sorriso smagliante, di quel modo di parlare frammentato e a raffica e di quelle digressioni spensierate, è valso ancora di più del prezzo del biglietto del regalo che gli Stones hanno fatto all’umanità: il più grande spettacolo del mondo.

    Non è raro incontrare musicisti rock di fama mondiale che provino un’insicurezza a volte straziante nonostante l’adulazione di milioni di persone. Ma è una rarità da collezionisti sentire uno di loro fare un commento specificamente autoironico. Quasi ogni volta che ci vedevamo, Charlie borbottava qualcosa sul fatto che non si considerava un batterista, o che non si avvicinava neanche lontanamente a uno dei suoi eroi delle percussioni.

    Un atteggiamento del genere potrebbe far pensare a una mancanza di consapevolezza di sé, ma si basava su un senso di riservatezza e umiltà tutto inglese molto più sviluppato rispetto a quello di altri colleghi. Brian Jones, anche all’inizio del suo slalom di deterioramento causato dalle droghe, descrisse Charlie come probabilmente la persona più distaccata ed equilibrata dell’intera scena pop.

    Nell’incipit di If You Can’t Rock Me, il primo brano di It’s Only Rock’n Roll, Mick canta: «The band is on stage and it’s one of those nights […] the drummer thinks [that] he’s dynamite». Di certo non parlava di Charlie. Per lui, l’arroganza era semplicemente grossolana. Charlie sapeva chi era e, a eccezione di un periodo relativamente breve di follia da stupefacenti negli anni Ottanta, che superò senza i drammi tipici della disintossicazione e dopo il quale rimase sempre sobrio, non cambiò.

    «La sua filosofia è: Mi basta pochissimo» ha detto di lui il manager degli Stones, Andrew Loog Oldham. «Si è accontentato di ciò che aveva e non ha divagato perdendosi in cazzate.» Già durante la prima esplosione di notorietà, Charlie diceva alla stampa musicale: «Do l’impressione di essere annoiato, ma in realtà non è così. Ho solo un volto incredibilmente noioso».

    Può sembrare poco plausibile citare le parole di un allenatore di pallacanestro americano, ma l’attuale firma in calce alle e-mail di Oldham, un omaggio alla saggezza del compianto John Wooden, sembra appropriata. «Il talento te lo regala Dio, sii umile» diceva. «La fama te la regala l’uomo, sii grato. La presunzione te la regali da solo, sii prudente.» Charlie era nato con il primo, gli avevano scagliato addosso la seconda ed era intrinsecamente incapace di esibire la terza.

    Questa biografia non vuole essere l’ennesima, estenuante rilettura della leggenda della più grande rock’n’roll band del mondo, ma un ritratto della vita e dei tempi di un uomo singolare che ha reso migliore la band in questione, come ha reso migliori tutti noi che lo abbiamo conosciuto. È raccontata in maniera cronologica, ma anche con periodici intermezzi, i Backbeat, per concentrare l’attenzione su aspetti specifici dell’universo di Charlie, in particolar modo il suo duraturo matrimonio con l’adorata Shirley.

    E, sì, è una storia di disobbedienza, ma anche la storia di un individuo come non ne vedremo più, che sembra quasi appartenere a un’altra epoca: un uomo fuori dal tempo, ma sempre perfettamente a tempo.

    1

    L’INFANZIA NEI PREFABBRICATI E LA MILITANZA NEL JAZZ

    Mozart sapeva il fatto suo.

    Ma avrebbe dovuto prendere un bravo batterista.

    Keith Richards, 2011

    In realtà Keith Richards, il Riff umano, mi stava spiegando la sintesi tra musica hillbilly e black music che personalizzò la ricetta del Rock’n’Roll, spianando il terreno per i nascenti Rolling Stones e per la generazione di speranzosi zoticoni che rappresentavano. Eppure quello slogan mi è sempre parso una sintesi giocosa dell’uomo che è stato seduto alle sue spalle per cinquantotto anni. In una linea temporale parallela, si potrebbe immaginare Wolfgang Amadeus che guarda con ammirazione Charlie Watts. Lo hanno fatto tutti.

    Charlie non solo era la star più riluttante di tutto il mondo della musica ma era anche il candidato meno probabile a prendere posto, per così tanti decenni, al fianco dei maggiori rappresentanti del Rock’n’Roll sulla faccia della Terra. Anche dopo aver accettato le ripetute proposte della band di unirsi a loro, né lui né nessun altro pensava che gli Stones o il loro baccano rhythm and blues sarebbero durati più di un anno.

    All’inizio di giugno del 1941, con la Bismarck sul fondo dell’Atlantico, la Germania si preparava a invadere l’Unione Sovietica con truppe di tre milioni di uomini. Come in un terribile presagio del 2022, si scatenarono presto battaglie tra carri armati nei pressi di Kiev. I Proms, gli eventi della stagione concertistica, avevano dovuto abbandonare la propria sede alla Queen’s Hall a causa dei bombardamenti ed erano stati ricollocati alla Royal Albert Hall, mentre il Board of Trade di Churchill annunciava l’introduzione di buoni per l’acquisto di capi d’abbigliamento. Poiché non erano ancora stati stampati, dovevano bastare i tagliandi per la margarina delle tessere annonarie: sedici per un impermeabile, sette per gli stivali. Ma allo University College Hospital di Bloomsbury, Lil Watts aveva altro a cui pensare.

    Appena ventenne, Lillian Charlotte Watts, nata a Islington e figlia di Charles ed Ellen Eaves, si era sposata nel 1939 con Charles Richard Watts, più grande di lei di un mese, che aveva prestato servizio nella RAF, la Royal Air Force, come membro dell’equipaggio di terra e come autista per gli ufficiali. Una volta congedato, Charles diventò autista di camion per la London, Midland and Scottish Railway, un lavoro che ancora svolgeva mentre gli Stones conquistavano la Gran Bretagna. Lunedì 2 giugno 1941 Lillian diede alla luce il loro primogenito: come Bill Wyman e Brian Jones, avrebbe portato il nome del padre. Charles Robert Watts suonò il suo primo beat.

    All’epoca mancava ancora un decennio alla nascita formale delle classifiche britanniche ma le Andrews Sisters facevano da tonico per le truppe con Boogie Woogie Bugle Boy. Ben presto, Glenn Miller e molti altri, tra cui la nostra Vera Lynn, preannunciarono uccelli azzurri sulle bianche scogliere di Dover.

    Gli apparecchi radio del periodo si riscaldavano anche con il programma comico It’s That Man Again, con il brano Waltzing in the Clouds di Deanna Durbin, con gli Ink Spots e Bing Crosby, mentre Noël Coward chiedeva gentile: «Potreste cortesemente fornirci una mitragliatrice Bren?». Al cinema, tra le nuove stelle del grande schermo c’erano Gianni e Pinotto con il loro terzo film appena uscito per la Universal, Allegri naviganti, in cui recitava anche Dick Powell. Joan Crawford, che in seguito apparirà nel collage di opere d’arte di Exile on Main St., riempiva ancora le sale con il nuovo film di George Cukor, Volto di donna.

    Da bambino, Charlie visse per certo periodo con ciascuna delle sue nonne, mentre il padre prestava servizio nella RAF, ma ricorderà poco degli anni della guerra. Tempo dopo disse: «Sentivo le bombe esplodere nel quartiere. Ricordo la corsa precipitosa dalla casa ai rifugi antiaerei. Ero piccolissimo. Per me la guerra era una specie di gioco: non credo di aver mai provato realmente paura».

    Non solo il padre, ma anche il nonno (Charles A. Watts), lo zio e il cugino avevano il suo stesso nome, così la mamma e il papà lo chiamavano spesso Charlie Boy. Il Charles bambino frequentò la Fryent Way Infant School di Kingsbury, a nord-ovest di Londra, e alla fine della guerra conobbe Dave Green, di nove mesi più piccolo di lui. I due diventarono amici e furono compagni di band in molti progetti jazz di Charlie, sul palco e in studio, per il resto della vita.

    Nonostante Dave sia più giovane di nove mesi, i suoi ricordi del periodo della guerra sono più vividi. «Sono nato nel 1942 a Edgware e la mia famiglia viveva a Kingsbury. Mio padre era nei Royal Engineers. Andò in Germania durante il D-Day e ricordo – avrò avuto due anni – l’arrivo delle bombe volanti. Una cadde nella nostra strada, circa sessanta edifici più su del nostro, e rase al suolo la casa. Ricordo che mia madre mi nascose sotto le scale. Il governo consigliava di fare così, credo.»

    Dave ricorda che sua madre ascoltava Music while You Work alla radio e, in seguito, raccontò che lui cantava le linee di basso delle canzoni più famose, un segnale precoce di quella che sarebbe diventata la sua carriera di contrabbassista. Dave condivide i propri ricordi con tale calore e generosità che diventa subito una persona con cui si ha la sensazione di essere amici da sempre. In procinto di compiere ottant’anni quando abbiamo chiacchierato per questo libro, conserva una joie de vivre che a Charlie sarebbe piaciuta moltissimo.

    Nel 1946 diventarono vicini di casa e, presto, spiriti musicali siamesi.

    Per gentile concessione della Luftwaffe, le due famiglie stavano per ottenere un nuovo alloggio a Pilgrims Way, a Wembley, negli alloggi prefabbricati offerti a tante famiglie britanniche colpite dai bombardamenti. Guardati a posteriori, i moduli di case prefabbricate sembrano elementari, ma in tempi difficili erano una meraviglia per la famiglia Green.

    «Quando vivevamo a Brampton Road, a Kingsbury, i prefabbricati non erano molto distanti e ricordo che andavo a dare un’occhiata» racconta Dave. «La strada non era nemmeno una strada e c’erano mucchi di fango ovunque. Ma mia madre adorava quei prefabbricati. La cucina era fantastica, molto moderna, completa, con frigorifero e tutto il resto. Ne scelse uno e quando furono ultimati ci trasferimmo.» Charlie e i suoi genitori abitavano al numero 23, mentre i Green al 22.

    Nel 1944 Lillian diede alla luce la sorella di Charlie, Linda, alla quale Charlie fu sempre molto legato, soprattutto prima di andare via di casa. L’intervista che lei e suo marito Roy Rootes mi hanno concesso per questo libro è la prima che Linda abbia mai concesso sul fratello. In effetti, ha mantenuto un profilo così basso che molte persone non hanno idea che Charlie avesse una sorella.

    «No, non lo sanno, perché non mi sono mai spinta sotto i riflettori» dice con dolcezza, seduta insieme a me e Roy nella loro casa nel Buckinghamshire. «Non è nella mia natura e so che lui non lo avrebbe voluto. Ma poi ti ritrovavi in prima fila a un concerto e qualcuno diceva: Oh, sei la sorella di Charlie. Devi esserne molto orgogliosa, e io rispondevo: Sì, orgogliosissima. Charlie non è mai stato il tipo da esagerazioni. Per lui l’ideale erano i rapporti individuali, perché era un uomo piuttosto riservato. Assomigliava a mia madre mentre io più a mio padre. Si metteva a sedere e non apriva bocca.»

    Linda parla con calore nostalgico degli anni trascorsi a casa con il fratello e i genitori e del senso di comunità che condividevano in quella casa compatta. «Papà decise che, dal momento che a loro piacevano lo sport e il biliardo, avrebbero comprato un tavolo da snooker di dimensioni ridotte» racconta Linda. «Se volevi fare un tiro, dovevi aprire la finestra» dice Roy con tono ironico. «Quel tavolo riuniva tutti e a mio padre la cosa piaceva tantissimo» aggiunge Linda. «La mamma era un po’ più riservata, ma non le dava fastidio perché se ne rimaneva in cucina.» Roy, di un anno più grande di Charlie, sposò Linda nel 1965.

    «Credo di aver incontrato Charlie per la prima volta quando avevo quattro anni e ci siamo trasferiti nei prefabbricati» dice Dave. «Le nostre madri diventarono grandi amiche, fu quello il motivo, e crescendo ci siamo avvicinati molto. Era straordinario, in realtà, che avessimo lo stesso interesse per il Jazz e che lo coltivassimo in tandem.»

    «Fino all’età di dieci anni giocavamo in giardino» mi ha raccontato Charlie, «perché era tutto un’unica area divisa da una piccola recinzione sul retro, e noi ci avevamo aperto un buco in cui passare. I nostri genitori erano amici. Poi Dave iniziò a suonare con dei gruppi skiffle e lo feci anche io. Suonammo insieme nella nostra prima jazz band, suonammo insieme nel nostro primo disco e se realizzo qualche progetto al di fuori dei Rolling Stones lo ingaggio sempre.» Poi, la sua imperturbabile chiusa: «Non gli farei mai portare sulle spalle il peso degli Stones». «Mio padre strimpellava un po’ il pianoforte, ma non suonava Jazz» mi ha spiegato Dave. «Di solito suonava Les Paul & Mary Ford, roba del genere, e avevamo un radiogrammofono, quindi per me e Charlie è iniziato tutto da quel tipo di musica, quando avevamo circa nove o dieci anni. Naturalmente andavamo alla stessa scuola, la Fryent Junior, ma lui era un anno avanti a me. Poi andammo alle superiori, alla Tyler’s Croft a Kingsbury e vivevamo ancora nello stesso posto.» Una loro quasi coetanea era l’attrice Shirley Eaton, la Bond girl di Missione Goldfinger; un altro era William Woollard, per lungo tempo presentatore di Tomorrow’s World.

    «Stranamente» dice Dave, «non ricordo [Charlie] a scuola. Lì non lo vedevo molto. Ma iniziammo a collezionare 78 giri e ad andare insieme nei negozi di dischi e poi a comprare LP, di Charlie Parker e Jelly Roll Morton, musicisti che non avevo mai sentito. Li ascoltavamo nella sua cameretta o, a volte, nella mia.»

    In Rolling with the Stones, memoir splendidamente dettagliato, Bill Wyman colloca Charlie, all’età di sette anni, vestito di tutto punto con un completo di raso al matrimonio di suo zio Albert a Holloway. «Mio padre mi comprava dei completi e io li indossavo con la massima eleganza possibile» mi ha detto Charlie. «Un po’ alla Il piccolo Lord, immagino. Ma ricordo che a quell’epoca non mi piacevano i jeans e i maglioni. Pensavo che dessero un’idea di trasandato e in un certo senso non mi facevano sentire a mio agio come quei completi con i pantaloni larghi.» Certe cose non sono mai cambiate di una virgola.

    Quando il matrimonio dei suoi genitori fallì, Dave fu mandato a vivere con dei parenti a Yeovil, ma tornò a Londra dopo due anni di beatitudine bucolica e riallacciò i rapporti con Charlie nel 1953.

    «Mia madre aveva ottenuto una casa popolare mentre viveva ancora nei

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