La Trilogia Del Glicine
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Anteprima del libro
La Trilogia Del Glicine - Stefano Pazzaglia
1948
Nota dell'autore
In questi racconti si intrecciano realtà e immaginazione, personaggi esistiti e di fantasia, storie realmente accadute e altre immaginate. Il Novecento è lo sfondo in cui si muovono i personaggi e la locanda di Piedeldosso il punto di intersezione di questi brevi segmenti di vite. Si tratta quindi di un'opera d’immaginazione e ogni riferimento a persone esistite o esistenti è del tutto casuale.
Introduzione
Lo conobbi nel duemilanove. Ero indaffarato a sistemare la trattoria, era estate e lui mi osservava nel mio convulso andirivieni. Le cose da fare erano tante, e anche i dubbi, quindi non gli prestai un’attenzione particolare. Notai quei vecchi pali consumati dalle intemperie che con fatica sostenevano quel gigante dalle mille braccia e la chioma spettinata.
Da circa un mese frequentavo quell’angolo di Mondo, perso tra le Prealpi e le morene franciacortine, dove la vita mi aveva trascinato. Una mattina mi soffermai ad ammirarlo e mi chiesi:
«Quanti anni avrà?»
E lui, il grande glicine di Piedeldosso, cominciò a raccontarmi.
Mi spiegò che era del sessantuno, nell’Ottocento, e che aveva visto il sole per la prima volta in primavera. Sua madre stava nel brolo vicino e non c’era più. Mi raccontò di quel signore che lo accudiva come un figlio perché era nato nell’anno dell’Unità e lui ci teneva all’Italia. Quell’uomo gli spiegò delle peripezie per arrivarci, all’Unità, e così aveva imparato a parlare. Era strano quel signore, gli parlava come a un cristiano, ma lui era un glicine. E io ascoltavo un glicine che mi raccontava come fosse un uomo. Si diventa strani a Piedeldosso. Eppure in questi anni di storie me ne ha narrate.
Mi ha detto dei suoi primi anni e di Steno, quel ragazzo che aveva visto nascere e che poi se ne era andato in guerra e di suo figlio che aveva lo stesso nome e di Nella, moglie e madre, della sua bellezza e di Mario e di tanti altri che conoscerete se avrò modo di raccontarli.
Per ora mi limito a questi tre episodi che spero vi siano graditi.
Paisà
Capitolo primo
La Balilla musone varcò il portone in legno della stazione di posta, con locanda, di Piedeldosso; era il millenovecentoquarantasei, autunno tardo e il sole tramontava. Nella udì il crepitio generato dall’attrito degli pneumatici sul brecciolino del piazzale mentre in cucina irrorava di burro le carni che rosolavano al calore della brace. Scostò la tenda, lavorata al tombolo, della porta a vetri e vide l’automobile compiere una lenta veronica arrestandosi dinanzi al portico del casale seicentesco. Il frontale antropomorfo della Fiat, con i fanali accesi poggiati sui grandi parafanghi, l’imponente calandra e il paraurti cromato, sorrideva. Dalla parte posteriore destra uscì un giovane moro, di media statura con ciuffo impomatato e viso familiare, che solerte aprì la portiera anteriore da cui scese una bella ragazza castana. Nel frattempo il conducente, un distinto signore in grisaglia, con movimenti lenti, posava piede sul suolo gussaghese. L’uomo, non molto alto e leggermente stempiato, si sistemò la camicia mentre osservava l’imponente glicine, ormai spoglio, che lo sovrastava, quindi si chinò all’interno della macchina uscendone con un soprabito sull’avambraccio sinistro e il borsalino in capo. La signorina, aiutata dal giovane, indossò un cappotto sciancrato che ne sottolineava il portamento slanciato. Dopo un breve conciliabolo si diressero verso la porta d’ingresso con alla testa, a far da guida, il giovanotto. «Permesso? ... Signora, sono Bruno» disse entrando il giovane con unevidente accento toscano e rivolgendosi alla donna che si era spostata dalla cucina alla sala attigua in cui dominava un vecchio bancone in rovere con copertina in marmo Botticino bulinato a far da appoggio, accompagnato da quattro tavoli di faggio con le sedie della stessa essenza e seduta in raffia. Dietro alla mescita, sopra uno scaffale basso in legno, foderato nella parte superiore con una tela cerata color mattone e coperto nelle sue vergogne da una tendina a piccoli quadri bianchi e rossi, stavano in bella mostra alcune bottiglie di grappe e liquori, di succo di tamarindo e menta, di spuma bianca e nera e il bottiglione da un litro e mezzo di vino rosso da calice. Sulla parete, leggermente inclinato in avanti, incombeva un grande specchio quadrato, molato ai lati, con la scritta Campari serigrafata al centro. Due appendiabiti in ferro battuto occupavano la parete dirimpetto. Un grande telefono nero, fissato al muro a lato del bancone e protetto da un piccolo paravento di tessuto damascato, attendeva chiamate. La locandiera guardò perplessa il giovane che le sorrideva e d’improvviso il ricordo le sovvenne: «Ah, sì,