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L'oceano nel pozzo
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L'oceano nel pozzo
E-book202 pagine3 ore

L'oceano nel pozzo

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Info su questo ebook

Cosa succede quando un giovane seminarista s’innamora follemente d’una ragazza? quando un sogno si trasforma in incubo? In questo nuovo romanzo di Nino Famà, Stefano, il protagonista, viene messo alla prova in una serie di eventi che lo sballottano dal seminario a una grande storia d’amore, dall’Italia a New York, da un umile lavoro alle grinfie dellamalavita americana.
L’alterazione emotiva che si viene a creare nella mente di Stefano, lo spinge a rivalutare il senso delle cose, della vita stessa. Sono tempi di profonde ed accorate riflessioni sui rapporti umani, sulla propria esistenza, sul prima e sul dopo, sull’io e sull’altro. “Sono il criminale che giace in questa cella o il ragazzo timido, generoso e altruista del seminario?”,si chiede il giovane.
Sebbene il rapporto sentimentale tra Stefano e Milena fornisca l’argomento trainante sul quale s’intesse la struttura, il romanzo, tramite personaggi secondari, esplora temi che scandiscono la vita del ghetto, della politica americana e del grande esodo emigratorio italiano del secondo dopoguerra.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2013
ISBN9788868220662
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    Anteprima del libro

    L'oceano nel pozzo - Nino Famà

    NINO FAMà

    L’oceano nel pozzo

    (romanzo)

    Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2013

    Isbn: 978-88-6822-

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Maria, Melissa, Laura e Livia

    My innocence doesn’t make the matter any simpler.

    Franz Kafka, Il processo

    Tutta la questione è questa: sono io un mostro, o una vittima?

    Ebbene, e se sono una vittima?

    Proponendo all’oggetto del mio amore di fuggire

    con me in America o in Svizzera,

    nutrivo forse i sentimenti più rispettosi,

    e pensavo inoltre ad assicurare la felicità di entrambi!

    La ragione, vedete, è schiava della passione.

    Dostoevskij, Delitto e castigo

    Credo anzi che uno non possa in nessun caso cambiare patria.

    Si possono cambiare solo i documenti.

    Sandor Marai, Le braci

    L’OCEANO NEL POZZO

    Il lungo viaggio e la stanchezza avevano scosso il suo animo. Ma ora, al vedere nella distanza la città, provò un groppo alla gola. Finalmente poteva ammirare i grattacieli, quei miraggi che da sempre avevano alimentato la fantasia d’un intero popolo. La sua generazione aveva dimenticato le partenze di navi gremite di contadini dallo sguardo smarrito che in tempi non molto remoti erano approdati a Ellis Island. Invece, immagini di mitici grattacieli, di luccicanti negozi, di strade ampie e parchi accoglienti erano ora le lusinghe delle nuove generazioni. Qui non vi erano limiti al possibile, anche il più stravagante desiderio era realizzabile. Uscì dall’aeroporto e spostò le lancette dell’orologio portandole indietro di sei ore. Un selciato di macchine si estendeva davanti ai suoi occhi fino a dove gli arrivava la vista. Fece alcuni passi e poi girò a destra. Era tardo pomeriggio, il sole declinava dietro i grattacieli. L’orizzonte si dipingeva di color amaranto, come l’aveva spesso visto raffigurato nelle cartoline. Attraversò la strada e si avvicinò ad uno dei tanti taxi parcheggiati in fila. Senza dire niente porse all’autista un foglio di carta sul quale era scritto un indirizzo. Questi uscì dalla macchina, si occupò della valigia e quindi fece segno a Stefano di accomodarsi sul sedile posteriore.

    Il taxi sgusciò dal parcheggio a tutta velocità e si riversò sull’autostrada mentre lui guardava dal finestrino la città imbrunita dai colori del tramonto. Di tanto in tanto il tassista dallo specchietto retrovisore sbirciava il passeggero mentre questi, con gli occhi incollati al vetro, cercava di riconciliare quanto osservava con le immagini della città che portava immagazzinate nella sua mente. In centro sotto ai grattacieli, una marea di automobili lastricavano le strade, moltitudini di persone correvano in una direzione e nell’altra, repentinamente si ammassavano di fronte ad un semaforo per poi dilagare sull’altra sponda. Stefano si lasciava ammaliare da questo primo incontro con la città. Non poteva credere ai propri occhi, stava percorrendo le strade della città che aveva alimentato i sogni di un’intera generazione.

    Il taxi si fermò. Era una strada con antiche case a schiera da ambedue le parti. Dal finestrino, Stefano poté osservare che il numero della casa di fronte alla quale il taxi si era fermato corrispondeva a quello che lui portava scritto in un pezzo di carta. Era una casa rivestita di mattoni color arancione e con una piccola veranda antistante all’entrata che a primo impatto lui giudicò fatiscente e decrepita. Scese dall’automobile e andò a bussare alla porta. La donna che venne ad aprire era di statura media, ma robusta e dall’aspetto piuttosto trascurato. Le mostrò un altro pezzo di carta sul quale vi era scritto il suo nome ed altre informazioni necessarie. La donna forzò un mezzo sorriso e con la mano destra gli fece segno di entrare. Un lungo corridoio conduceva alle camere del pianoterra, mentre una scala in legno portava al piano superiore, dove vi erano altre camere per gli ospiti della pensione. Stefano seguì la donna lungo il corridoio corredato da un tappeto il cui colore originale non era più discernibile. Poi la donna lo accompagnò al piano superiore, dove si trovava la camera assegnatagli. Il ragazzo entrò e ringraziò la donna. "De nada," rispose lei mentre Stefano chiudeva la porta.

    Nonostante la stanchezza del viaggio e del cambio del fuso orario, non riuscì a prendere sonno. Supino sul letto, chiuso in quella camera, di tanto in tanto un ricordo illuminava la sua mente e lì dove prima vi era buio ora appariva un volto. In realtà, erano tanti i pensieri che venivano a disturbare la sua sonnolenza. Immagini confuse si affastellavano nella sua testa mentre lui meditava su quella che era stata la sua vita. Rimase insonne fino all’alba.

    Quando il sole cominciò a filtrare attraverso la finestra Stefano si guardò attorno, era una camera piccola la cui superficie era quasi totalmente occupata dal lettino, da un minuscolo tavolino rotondo e da una sedia. Il bagno, in comune con gli altri residenti, era situato in fondo al corridoio. Si affacciò alla finestra, il frastuono dei motori e dei clacson delle macchine gli scosse i nervi. Nonostante la sua determinazione di puntare lo sguardo sempre in avanti, la sua testa era popolata di personaggi che erano rimasti dall’altra parte dell’oceano. Pensò a Milena, del cui affetto sentiva ora un urgente bisogno.

    Scese al seminterrato per fare colazione. Il clamore che udì prima ancora di arrivare alla sala lo intimorì, ma proseguì con passo deciso. Era un luogo semibuio dove, oltre alla saletta allestita con tavolini, vi era una piccola cucina, una stanza che fungeva da lavanderia e in fondo un’altra camera dove viveva la donna. Stefano scoprì poi che la signora Conchita non era la proprietaria della casa ma una portoricana impiegata per fare le pulizie, preparare i pasti ed accudire i clienti. Entrò, il posto era gremito di persone e dovette aspettare che qualcuno andasse via. Un tavolino si liberò in un angolo buio della sala e lui andò subito ad occuparlo. Il brusio di voci, il continuo biascicare di parole incomprensibili creava un bailamme nell’angusta sala. Gli odori di bacon, di salsicce, di uova fritte, si mescolavano nell’aria stagnante della sala. Bicchieri di succo d’arancia e gigantesche tazze di caffè aiutavano a mandare giù quel cibo, ma i rutti inverosimili dei clienti tuonavano al di sopra del costante mormorio. Stefano ordinò due toast ed il caffè. Mentre aspettava che gli portassero la colazione osservò che i clienti seduti ai tavoli erano uomini cenciosi ma di buon umore. Scherzavano tra di loro e ridevano fragorosamente. Tutti portavano un berretto da baseball che non si toglievano nemmeno nell’insopportabile caldo del seminterrato. Stefano rimaneva taciturno seduto a quel tavolo mentre gli altri clienti lasciavano la sala. Non era questa l’America che mi portavo in mente, pensò.

    Un giovane dalla lunga e incolta barba nera che passava per ritirare i piatti sporchi si fermò davanti al suo tavolo e quando seppe che era italiano si sedette accanto a lui.

    Anch’io sono italiano, farfugliò l’uomo, al quale mentalmente Stefano affibbiò l’epiteto di Barbanera. Sono nato qui, ma i miei genitori sono venuti dal Molise, aggiunse. Si esprimeva bene in italiano, grazie a dei corsi di lingua che aveva seguito durante i suoi anni universitari, ma aveva abbandonato gli studi prima di arrivare alla laurea per seguire un gruppo di amici che si erano dati alla vita degli hippy. Ora aiutava la signora portoricana nella gestione della pensione: apparecchiava e sparecchiava i tavoli, lavava i piatti e puliva i pavimenti per guadagnarsi vitto e alloggio nella pensione. Stefano trovò ironica la situazione del connazionale, poiché aveva sempre creduto che una delle ragioni per cui gli emigranti avevano lasciato la loro terra era stata proprio quella di provvedere un futuro migliore ai propri figli. Gino, così si chiamava Barbanera, disse che un giorno, una volta messo da parte del danaro, avrebbe voluto visitare il luogo dove erano nati i suoi genitori, ma per adesso quel giorno sembrava lontanissimo. Stefano gli chiese informazioni sulla città. L’inserviente gli spiegò che era composta da cinque distretti: Bronx, Columbia, Brooklyn, Staten Island e Manhattan. Poi aggiunse che per gli stranieri New York era solo quest’ultima. È l’ombelico del mondo, la capitale della civiltà occidentale moderna. Qui, oltre ad una cospicua presenza portoricana, vivevano molti italiani, asiatici, neri, ebrei; non vi era né paese né razza che non avesse una presenza in quella città. Era un autentico microcosmo, il perfetto esempio della melting pot americana. Stefano ascoltava attento, interessato, ma non aveva ancora visto le cose di cui gli parlava Gino.

    "More coffee, un altro caffè?"

    No, grazie, rispose Stefano, mentre guardava le pareti grigie di quel seminterrato.

    Perché sei venuto a New York?

    Molti la considerano una specie di mecca della cultura occidentale e dicono che almeno una volta nella vita è obbligatorio venirci, concluse l’Ospite.

    Stefano avrebbe voluto rivelare il suo passato, raccontare la sua storia, parlare del vero motivo di questo viaggio, della fuga dal suo paese. Invece rispose che era venuto per fare un’esperienza all’estero. Ora devo trovare un lavoro per provvedere al mio sostentamento, concluse.

    Gino si alzò. Doveva finire di sparecchiare i tavoli, disse. Se hai bisogno di qualsiasi cosa puoi contare su di me, aggiunse mentre ritirava la tazza ed il piatto dal tavolo. Stefano tornò in camera, si distese sul letto, e di nuovo cercò di prendere sonno.

    La decisione era stata proprio angosciosa, straziante. Avrebbe dovuto scegliere tra l’amore per una donna e l’amore verso Dio! Stefano aveva trascorso la sua gioventù nel seminario sebbene la sua non fosse stata la tipica chiamata alla vocazione, il desiderio profondo di una vita spirituale. Erano state le circostanze di famiglia, le condizioni sociali a spingerlo alla vita religiosa. Era la dolente storia della sua famiglia, di quelli che dipendevano dalla terra, per i quali sopravvivere era sempre stata un’operazione di rinunce. Era stata una fuga dalla vita contadina per andare incontro ad una vita più agiata, a detta dei familiari. Stefano pensò agli obblighi, alle esigenze e ai cambiamenti che questa decisione avrebbe comportato. Aveva tentennato, ma alla fine aveva accettato la decisione della famiglia. Una volta dentro, però, si era conformato di buon grado alla vita del seminario. Si era immerso nello studio di teologia, filosofia tomista e letture approfondite di libri sacri, per i quali sin dall’inizio aveva provato una profonda affinità di pensiero. In essi il giovane aveva trovato anche un modello di vita confacente al suo carattere e temperamento. Vi passò i primi anni nel più placido compiacimento. Nel suo ultimo anno, quando credeva di essersi immedesimato totalmente alla vita religiosa, di aver definitivamente sbarrato le porte alle tentazioni, incominciarono a sorprenderlo momenti d’incertezza e di smarrimento. Stefano interpretò i dubbi che ora tormentavano la sua testa come incursioni del diavolo. Così, ogni qualvolta che nella sua mente iniziavano a pullulare idee inquietanti, recitava una preghiera e se ne andava a letto per far dissipare quei pensieri che sconvolgevano la sua vita. Ma con il passare del tempo le inquietudini del giovane, al contrario di come lui aveva sperato, si erano intensificate.

    Cosa gli stava accadendo? Sentiva uno struggente bisogno di parlare con qualcuno di quella fatidica domenica d’aprile quando si recò alla messa di mezzogiorno nella chiesa del paese. Dopo la consacrazione eucaristica, Padre Tindaro iniziò a distribuire la comunione.

    In quell’attimo, mentre si apprestava ad uscire dal banco, Stefano venne trafitto dallo sguardo travolgente della ragazza che gli stava accanto. Da quel momento in poi la sua vita non sarebbe più stata la stessa. Finita la messa, il giovane si trattenne davanti alla chiesa per salutare qualche amico. La ragazza uscì assieme alla madre e mentre scendeva per gli scalini si girò e gli sorrise. Stefano la guardò interdetto e poi la seguì con gli occhi giù per la strada fino a quando svoltò a sinistra e svanì dietro l’angolo. Si chiamava Milena. Stefano l’aveva vista crescere, come tanti altri bambini del paese. Ora era diventata una bella donna: era di statura media, aveva capelli castani, lunghi fino alle spalle e quando camminava, dimenava il corpo in modo tale da fare impazzire i giovanotti del paese.

    Quella sera tornò nel seminario stordito, come se l’avesse travolto un treno. Si distese sul letto con gli occhi fissi in un punto del soffitto e pensò tra sé che la vita è un cammino accidentato, che dietro l’angolo si nascondono sempre le nuove scorribande del diavolo. Aveva l’animo agitato e sentì l’urgenza di recitare preghiere ad alta voce fino a quando la sua mente stanca non lo fece cadere in un profondo sopore.

    Il mattino dopo si svegliò triste, accorato dal viavai di pensieri che si affastellavano nella sua mente. Passò la giornata perplesso, tormentato dall’angoscia. Ricordava le parole di Padre Adelmo sulle tentazioni che minano la nostra risolutezza: Come se Dio ci mettesse alla prova per vedere se siamo degni portatori della Sua parola, di spargere la Sua voce.

    Intanto, i weekend a casa erano sempre più frequenti e con ogni incontro s’intensificavano i rapporti con la ragazza. Stefano si era talmente invaghito che non riusciva ad espellere dalla sua mente l’immagine di Milena. Com’era possibile, pensava, che un sentimento così sincero, così naturale, potesse infrangere la legge divina? Se Cristo si era fatto uomo, non lo aveva fatto per capire le esigenze e i problemi dell’uomo?

    Andò da Padre Adelmo con la speranza che questi lo aiutasse a districare la vicenda. Il reverendo aveva sempre dimostrato indulgenza, umanità e una singolare comprensione del rapporto tra la vita spirituale e la natura umana. Aveva da poco celebrato il suo compleanno, mezzo secolo di vita su questa terra. Aveva i capelli ancora folti anche se totalmente canuti. Era di statura bassa, con la pancia protuberante, la faccia rotonda come la luna piena e manteneva una postura leggermente arcuata che lo faceva sembrare assai più anziano di quanto in realtà non lo fosse. Padre Adelmo sapeva ascoltare pazientemente i problemi altrui ed offriva sempre dei consigli, senza mai mettere in imbarazzo nessuno. Timoroso, tentennante, Stefano era entrato nella sala. Padre Adelmo era seduto alla scrivania, si alzò, offrì una sedia al giovane e ne tirò un’altra situandola accanto a quella del seminarista.

    A cosa devo l’onore di questa tua sorpresa, a qualche brutto sogno? chiese il maestro scherzosamente.

    Un vero incubo, ribadì il giovane, ma purtroppo non si tratta di qualcosa accaduta in un sogno.

    Padre Adelmo raddrizzò la schiena, guardò Stefano negli occhi e poté osservare l’angoscia stampata sul suo volto.

    Sono qui per ascoltare, figliolo.

    Stefano abbassò la testa, mortificato, non riusciva a guardare il superiore negli occhi: le parole non gli venivano fuori.

    Figliolo, non temere, sai che cercherò solo di esserti d’aiuto.

    Padre, la mia mente è un caos.

    Figlio mio, nella vita, una volta o l’altra, a tutti capita di dover attraversare foreste insidiose, di dover camminare in sentieri bui, ma sappiamo che si tratta sempre di cose temporanee, coscienti che prima o poi la luce del Signore risplenderà.

    Lo spero, Padre.

    Cosa significa lo spero? Noi che crediamo in Dio sappiamo che è così.

    Ha ragione, Padre, ma di recente non so cosa mi stia succedendo.

    Spiegati, dimmi, hai dei dubbi?

    Ho conosciuto una ragazza che mi ha capovolto la vita.

    Stammi a sentire, figliolo. Queste sono tentazioni che istigano la nostra risolutezza, il nostro impegno, come se Dio ci mettesse alla prova.

    Ma per me è cambiato tutto, Padre, non sono più quello di prima.

    Debolezze della carne, ma vedrai che tutto passerà.

    Il mio timore è proprio quello, nel mio animo non voglio che passi.

    Figliolo, le tue parole sono un affronto alla nostra fede, a Dio. Ti rendi conto?

    Il mio più profondo desiderio è quello di seguire il cammino della fede, ma senza dover rinunciare al mio amore per quella ragazza.

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