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I partiti politici italiani dall'Unità ad oggi
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I partiti politici italiani dall'Unità ad oggi
E-book343 pagine4 ore

I partiti politici italiani dall'Unità ad oggi

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Dall'Unità ad oggi, la storia dei partiti italiani viene qui ripercorsa, nei suoi passaggi fondamentali, attraverso lo svolgimento cronologico delle diverse fasi politiche: dai problemi e le questioni emerse all'indomani dell'unificazione, passando attraverso la crisi del liberalismo e l'avvento dei partiti di massa, superando la soppressione della vita democratica messa in atto dal regime fascista, e arrivando, infine, alla creazione, al consolidamento e alla crisi del sistema dei partiti dell'Italia repubblicana. Un percorso difficile e tortuoso, caratterizzato, dall'irrisolto nodo della creazione di un reale spirito di appartenenza comune. Ripercorrendo questo iter e affrontando una disamina delle interpretazioni e delle metodologie di ricerca storiografica, il volume intende fornire un contributo per un rinnovato dibattito (aperto agli specialisti del settore, nonché al vasto campo di studiosi di scienze sociali) relativo al “caso italiano” e a quei caratteri peculiari che continuano a determinare l’assoluta specificità nel panorama dei sistemi politici europei.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2016
ISBN9788838244544
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    Anteprima del libro

    I partiti politici italiani dall'Unità ad oggi - Paolo Carusi

    nomi

    Prefazione alla terza edizione

    A quattordici anni dalla pubblicazione della prima edizione di questo volume, sarà forse sorprendente per il lettore constatare come il titolo dell’ultimo capitolo della prima parte (Una transizione ancora in corso) sia rimasto invariato; aveva dunque ragione Gabriele De Rosa, il quale nel 1997 già parlava di «transizione infinita»?

    Certo, non vi è alcun dubbio sul fatto che il percorso di assestamento della seconda repubblica sia stato decisamente travagliato e non abbia portato a risultati certi e consolidati; sarebbe lecito attendersi, dunque, solo un minimo aggiornamento (come accadde, infatti, per la seconda edizione) della parte relativa alla ricostruzione storica. Alcuni elementi di dirompente novità, però, hanno imposto a chi scrive di prendere in esame più approfonditamente gli avvenimenti di questi ultimi anni: il lettore, dunque, troverà un discreto ampliamento della parte storica, seppure in chiave di individuazione di quelle che appaiono come tendenziali linee di sviluppo dello scenario politico.

    Non si è tralasciato, ovviamente, anche l’aggiornamento della seconda e della terza parte, nelle quali viene dato conto delle più significative tendenze della storiografia politica negli ultimi anni. In tal senso, specie dal punto di vista dell’analisi fattuale, si è segnalata la volontà di molti studiosi di confrontarsi con gli anni ’80 – decennio sospeso tra la visione ottimistica di gran parte della classe dirigente ed i primi segnali della crisi della prima repubblica – anche alla luce della recente acquisizione e sistemazione archivistica di fondi personali di figure di primo piano di quegli anni: come quelli di Giulio Andreotti o di Bettino Craxi.

    Nel licenziare la terza edizione del volume desidero ringraziare innanzitutto coloro che sono stati per me – negli anni – Maestri e costanti punti di riferimento scientifico: Fausto Fonzi e Mario Belardinelli.

    Ringrazio poi le Edizioni Studium, nelle persone del presidente onorario Vincenzo Cappelletti e del presidente Giuseppe Dalla Torre: le tre edizioni di questo volume sono un premio non solo per l’autore, ma anche per chi ha creduto in questo progetto fin dall’ormai lontano 2001.

    Un ringraziamento, unito ad un pensiero affettuoso, va infine alla mia famiglia, che sostiene con amorevole presenza il mio lavoro: ad Alicia, a Francesco e a Federico.

    Roma 2015

    PC

    Prefazione alla seconda edizione

    Aggiornare, a distanza di alcuni anni, un lavoro di sintesi sulla storia dei partiti italiani è opera tanto stimolante quanto ricca di insidie; il convulso processo di transizione apertosi al principio degli anni ’90 non sembra trovare una chiara ed univoca via di risoluzione, aprendo l’orizzonte ad una serie di scenari possibili, perduranti alle volte il solo espace d’un matin: tanto la prospettiva del quadro istituzionale (a cominciare dalla legge elettorale), quanto lo scenario delle forze partitiche (con l’ipotesi di un partito unico del centro-destra da contrapporre al costituendo Partito Democratico), infatti, mutano e si diversificano continuamente. Tale incertezza -che conferma che allo storico poco si addice il confrontarsi con processi non ancora conclusi- non permette di individuare delle precise linee di sviluppo nell’evoluzione del quadro politico e costringe, dunque, chi scrive a muoversi con grande cautela anche nell’elaborazione di giudizi di corto respiro.

    A differenza del quadro storico-politico, il panorama storiografico e metodologico offre invece alcune chiare ed individuabili prospettive di analisi. Negli ultimi anni, infatti, diverse linee di ricerca, che si erano andate affermando al volgere del secolo XX, hanno preso corpo e si sono felicemente sviluppate. Il progressivo superamento della storiografia dei partiti ha favorito l’affermarsi di una ricerca più libera da pregiudizi ideologici e più disponibile a confrontarsi con nuovi approcci e metodologie.

    Rispetto all’edizione del 2001, dunque, la prima parte del volume è rimasta sostanzialmente immutata, salvo piccoli ritocchi, alcuni aggiornamenti dell’apparato critico e qualche cenno relativo agli avvenimenti dell’ultimo lustro. La seconda e la terza parte si sono invece arricchite, potendo dare conto di diversi fiorenti filoni di ricerca (come ad esempio quello sulla figura di Alcide De Gasperi o quello sull’evoluzione e la crisi del partito comunista), di alcune stimolanti suggestioni metodologiche, nonché di specifici oggetti di studio che hanno ricevuto, in questi ultimi anni, un vigoroso impulso grazie alla recente disponibilità di nuovo materiale archivistico e documentario.

    Roma, 2008

    PC

    Introduzione

    Nel panorama degli studi storici è sempre difficile tracciare delle linee di demarcazione che segnino il terreno di settori di ricerca detentori di una propria autonomia scientifica; ciononostante, il tentativo di delineare i confini di una materia di studio non è certo un compito ozioso o fine a se stesso: è grazie al tenace ed appassionato lavoro degli studiosi, infatti, se oggi possiamo parlare di alcuni campi della ricerca storica assurti al ruolo di discipline scientifiche autonome, come nel caso della storia economica o della storia sociale.

    Nel corso dell’ultimo cinquantennio anche la storia dei partiti politici si è ritagliata una propria dignità scientifica: dai pionieristici lavori di Perticone, Corpaci, Morandi e Valeri, infatti, si è giunti, con approcci metodologici diversi, a delineare i contorni di un’autonoma disciplina storiografica.

    Non sono mancati, in effetti, i tentativi di fare un bilancio delle ricerche compiute e di tracciare, quindi, un quadro complessivo della materia. In molti casi, però, gli studiosi hanno preferito limitare il campo alla storia repubblicana, scegliendo come termine a quo la rinascita dei partiti all’indomani della caduta del regime fascista (si pensi, ad esempio, ai lavori di Carlo Vallauri e di Pietro Scoppola, o, successivamente, alle opere di Simona Colarizi e Luigi Lotti); l’età liberale e quella del fascismo, dunque, pur oggetto di numerose ricerche, sono state spesso considerate, nelle opere di sintesi, come slegate dagli anni successivi, quasi a non voler riconoscere una linea di sviluppo nella storia politica italiana.

    È significativo rimarcare come, a questa generale tendenza della storiografia, abbiano fatto eccezione gli studiosi più interessati alla genesi e alla maturazione della forma-partito, i quali, servendosi di strumenti mutuati dalla sociologia e dalla politologia (come, ad esempio, Giorgio Galli) o utilizzando categorie proprie della scienza politica (come nel caso di Paolo Pombeni), hanno fatto luce sull’assoluta necessità di individuare i mali congeniti, emersi all’indomani dell’unificazione, per comprendere a fondo i successivi sviluppi del nostro sistema politico.

    I diversi approcci di stampo sociologico e politologico, pur ricchi di stimoli per tutti gli studiosi, non possono, però, esaurire il campo della ricerca: per una più approfondita analisi del caso politico italiano, infatti, gli storici dei partiti devono inserirsi nel dibattito, portando il loro contributo interpretativo e facendo un bilancio ed una valutazione della storiografia esistente.

    Alla luce di queste considerazioni, dunque, si è ritenuto opportuno suddividere il lavoro in tre distinte sezioni: una prima, incentrata su di una ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo delle forze politiche italiane; una seconda, relativa alla produzione e al dibattito storiografico; una terza, infine, concernente le diverse metodologie di studio della materia.

    Per quel che riguarda la prima parte, si è cercato di limitare all’essenziale l’apparato critico, inserendo un esiguo numero di note al solo fine di fornire i riferimenti bibliografici fondamentali riguardo ai passaggi più significativi.

    Nella seconda sezione, infatti, viene dato conto dello sviluppo della storiografia sui partiti, soffermandosi su alcune delle opere più rilevanti, relative tanto al quadro generale quanto alle singole formazioni politiche.

    Nella terza parte, quindi, si cercherà di delineare i fondamenti delle varie scuole storiografiche: prendendo in esame alcuni studi campione, infatti, sarà possibile osservare i diversi criteri metodologici e le differenti tipologie di fonti utilizzate dagli studiosi.

    Roma, 2001

    PC

    PARTE PRIMA - LA STORIA

    I. 1861-1890: La rappresentanza individuale

    Quando il 17 marzo 1861 veniva proclamata ufficialmente la nascita del Regno d’Italia, il nuovo Stato poteva già contare, nonostante i recenti avvenimenti bellici, su di un parlamento nazionale, eletto, sulla base della legge elettorale sarda del 1848, nella consultazione del 23 gennaio-3 febbraio 1861. Nella nuova Camera, su un totale di 443 deputati, sedevano poco più di 300 uomini della Destra, contro un centinaio della Sinistra; apparentemente, dunque, la vita politica della nuova Italia nasceva sui binari di una sana dialettica parlamentare: la maggioranza cavouriana, che aveva guidato il moto risorgimentale, disponeva dei tre quarti dell’assemblea, l’opposizione di Sinistra deteneva il restante quarto dei seggi.

    Questa situazione era la risultanza di quella strategia della continuità fortemente perseguita dal conte di Cavour: strategia imperniata sulla linea parlamentare seguita durante la guerra, sul netto rifiuto di eleggere un’assemblea costituente e sulla decisione di contare le legislature come se fossero la prosecuzione di quelle del parlamento subalpino (ricordo, inoltre, che il sovrano mantenne la denominazione di Vittorio Emanuele II).

    Nonostante l’adozione di questa strategia della continuità, comunque, i partiti parlamentari che sedevano nella nuova Camera non potevano, per forza di cose, costituire una semplice propaggine di quelle che erano state la Destra e la Sinistra subalpine: con la raggiunta unità nuovi uomini entravano in parlamento e, con essi, nuove istanze provenienti dalle diverse zone della penisola. Se il conte di Cavour aveva voluto fare della Camera elettiva il centro della vita politica del Piemonte sabaudo, si trattava, ora, di allargare questo centro nevralgico delle istituzioni, assimilando e dando voce alle nuove componenti del paese.

    In quest’opera di assimilazione, la questione che si palesò subito come estremamente complessa fu quella dei partiti o, per usare una terminologia più appropriata alla situazione politica di quel tempo, degli schieramenti parlamentari. Non esistevano, infatti, delle formazioni politiche realmente organizzate: il deputato, uscito eletto da un ristretto collegio uninominale senza il sostegno di una struttura partitica, conservava una posizione di assoluta autonomia alla Camera; l’eventuale adesione ad un gruppo parlamentare, inoltre, non implicava alcun sostanziale impegno di militanza, ma comportava solo un generico sostegno ad un programma e ad una parte politica.

    Com’è noto, nel Piemonte sabaudo, grazie alla paziente ed astuta opera del Cavour, i partiti parlamentari si erano venuti raggruppando intorno ad una Destra, che aveva progressivamente perduto ogni caratteristica ultraconservatrice, e ad una Sinistra col tempo sempre più scevra da pregiudiziali repubblicane o sovversive; se questi due schieramenti avevano potuto convivere e cooperare grazie al «connubio» del 1852, è bene sottolineare che la loro comunanza d’intenti non dipendeva solo dallo sforzo per la realizzazione dell’ideale nazionale, ma anche da una sorta di compatibilità socio-economica dei 204 deputati della Camera subalpina.

    Con l’inaugurazione del primo parlamento nazionale, ovviamente, la situazione veniva a mutare radicalmente: se l’impeto risorgimentale non poteva dirsi esaurito, permanendo ancora le fondamentali questioni di Venezia e di Roma, la relativa omogeneità sociopolitica della Camera subalpina lasciava il posto ad un caleidoscopio di posizioni politiche diverse, rispondenti ai nuovi scenari sociali ed economici ora rappresentati alla Camera. Si può notare, dunque, come un vero steccato tra Destra e Sinistra permanesse solo per quel che concerneva la questione del completamento dell’unità nazionale, mentre, su altri terreni, per quanto i due schieramenti continuassero ad ispirarsi ai rispettivi programmi storici, i partiti parlamentari avrebbero iniziato a meglio definirsi come schieramenti regionali.

    Questo processo di localizzazione veniva accentuato dalla legge elettorale vigente, la quale, oltre a prevedere un suffragio decisamente ristretto, era basata su un sistema maggioritario con collegio uninominale: ad una situazione già fortemente influenzata dai particolarismi, quindi, si aggiungeva il mantenimento di un sistema elettorale, basato sulla rappresentanza individuale, il quale non faceva che accentuare la tendenza municipalista ereditata da secoli di divisioni e di contrasti.

    Il problema del localismo si manifestava dunque, immediatamente, come male congenito del nostro sistema politico: in effetti, per comprendere la reale dialettica politica dei primi anni postunitari, occorre tenere ben presente l’esistenza, oltre che degli schieramenti di Destra e di Sinistra, dei sottoschieramenti regionali. Mentre a Destra, ad esempio, spiccavano il gruppo piemontese di Lanza e Sella, quello lombardo di Jacini e Visconti Venosta, quello emiliano di Minghetti, quello toscano di Ricasoli e Peruzzi e quello campano di Spaventa e Bonghi; a Sinistra emergevano, oltre al gruppo piemontese di Rattazzi e Depretis, quello lombardo di Cairoli e Zanardelli, quello calabro-campano di Nicotera e quello siciliano di Crispi[1].

    Questi schieramenti regionali trovavano la propria ragion d’essere nella difesa degli interessi delle rispettive zone di provenienza dall’incontro con il nuovo Stato: la classe dirigente piemontese, infatti, nella primavera del 1861, si oppose ad un progetto decentralista (basato sul self-government inglese) presentato dal ministro degli Interni Minghetti, proveniente, non a caso, da una delle province annesse. Nell’ottobre di quello stesso anno, difatti, si decise di estendere a tutto il regno la legge comunale e provinciale del 1859, imponendo, dunque, un sistema accentrato e unificando la figura del capo della provincia (prefetto).

    Se in questa situazione, quindi, il deputato tendeva a perdere la propria caratterizzazione di Destra o di Sinistra per identificarsi semplicemente con la difesa degli interessi della propria zona di appartenenza, a maggior ragione questo processo di localizzazione politica si operava nei deputati di provenienza meridionale. Per il Mezzogiorno, infatti, l’impatto con la nuova realtà unitaria era stato particolarmente traumatico: dati i problemi legati al fenomeno del brigantaggio, infatti, già dopo l’abolizione del regime luogotenenziale, era stato inviato il generale La Marmora con l’incarico di prefetto e di comandante dell’esercito per le province meridionali; i poteri speciali concessi all’alto ufficiale piemontese vennero convertiti, l’anno successivo, in assoluti, con il decreto di stato d’assedio, valido per tutto il Mezzogiorno e per la Sicilia. Abolito lo stato d’assedio, venne, poi, introdotta una legislazione eccezionale per il Mezzogiorno che sarebbe durata sostanzialmente fino a tutto il 1865.

    È facile immaginare, dunque, come, specie per i rappresentanti delle province meridionali, la dialettica parlamentare venisse intesa principalmente come mezzo per rivendicare i diritti e gli interessi locali, dimenticando ogni disciplina di partito o, per meglio dire, ogni spirito di schieramento. È necessario rilevare, inoltre, come questo scarso senso di appartenenza ad una parte politica fosse accentuato dal clima di unanimismo dovuto alla mancata risoluzione delle questioni di Venezia e di Roma: seppur non concordi sulle modalità di raggiungimento di tali obiettivi, infatti, i due partiti storici si trovarono sostanzialmente uniti nell’opera di completamento dell’unità nazionale. È importante tener presente questa fase di convergenza parlamentare: la collaborazione di Destra e Sinistra contro filolegittimisti da un lato e insurrezionalisti garibaldini dall’altro, infatti, seppur superata dopo il 20 settembre 1870, sarebbe rimasta come modello politico di riferimento nell’animo di molti uomini di quella generazione.

    Non c’è da stupirsi, dunque, se, in quegli anni, l’appartenenza regionale si rivelasse, in parlamento, come altrettanto significativa dell’appartenenza politica; i governi della Destra non trovarono infatti, fino al ’70, una reale opposizione della parte avversa: gli intermezzi ministeriali del partito di Corte (La Marmora 1864-1866 e Menabrea 1867-1869) si rivelarono, in verità, più significativi di quelli della Sinistra di Rattazzi nel 1862 e nel 1867.

    Risolta, con la terza guerra d’indipendenza, la questione di Venezia (1866) ed entrati i bersaglieri in Roma il 20 settembre 1870, si apriva, per la vita politica italiana, una fase completamente nuova: esaurita la fase risorgimentale, infatti, si passava, come ebbe a dire con una felice espressione Benedetto Croce, «dalla poesia alla prosa». In sostanza, una volta raggiunto il supremo obiettivo di un’Italia unita con Roma capitale, ai partiti parlamentari si imponeva un confronto con la realtà del paese e la conseguente elaborazione di una seria piattaforma programmatica per la nuova stagione politica di ordinaria amministrazione che sarebbe seguita a quella eroica dell’unificazione nazionale.

    Conquistata Roma, infatti, assistiamo in breve tempo alla definizione di rinnovati programmi da parte dei due partiti storici e, con essa, ad una repentina rinascita di spirito di appartenenza nei rappresentanti dei due schieramenti parlamentari.

    Le prime questioni sulle quali cominciò a definirsi il programma della Destra[2] furono la sistemazione dei rapporti con la S. Sede, il risanamento del bilancio e la statalizzazione delle ferrovie; i liberali moderati, in sostanza, regolata unilateralmente, ma non senza contrasti, la questione romana con la legge delle guarentigie (1871), concentrarono i loro sforzi su di una severa politica finanziaria, capace di contenere gli squilibri di bilancio, nonostante le ingenti spese per l’acquisizione e la razionalizzazione della rete ferroviaria. Queste linee guida del programma della Destra trovarono immediatamente opposizione da parte del partito avverso: da Sinistra, infatti, non solo si rimproverava una condotta troppo benevola nei confronti del pontefice nella stesura della legge delle guarentigie, ma si accusava la Destra di eccessivo accentramento nella gestione del potere, nonché di un esagerato ricorso all’imposizione fiscale.

    La Sinistra, espressione della piccola e media borghesia imprenditoriale, dunque, mal tollerava lo statalismo di scuola germanica tipico di molti settori della Destra e propugnava, da un lato, una maggiore libertà d’iniziativa per i privati e, dall’altro, un avanzamento democratico della politica del paese. La Sinistra, quindi, mentre richiedeva una minor ingerenza dello Stato nello sviluppo economico del paese (la Sinistra, ad esempio, sarà in generale favorevole alla gestione privata delle ferrovie), domandava anche un allargamento del suffragio elettorale, un ampliamento della scuola dell’obbligo ed un abbassamento dell’imposizione fiscale, specie per i ceti meno abbienti.

    Se, all’indomani del 1870, i due partiti storici cominciavano a ricompattarsi sulla base di nuovi programmi, è bene tener presente che in quel periodo iniziavano a delinearsi e a prendere forma, in conseguenza dei fatti del 20 settembre, anche altre formazioni politiche. A sinistra, ad esempio, i vecchi gruppi garibaldini e mazziniani[3], ormai raggiunto l’obiettivo Roma, cominciavano a strutturarsi come schieramento democratico avanzato, di marca repubblicana; forte di una battagliera, anche se non organizzata, rappresentanza parlamentare, il fronte democratico (guidato da Agostino Bertani) si distingueva, inoltre, in quegli anni, come il solo gruppo impegnato in un fervente associazionismo politico: già nel febbraio 1872, infatti, nasceva a Ravenna la Consociazione repubblicana delle società popolari della Romagna, la quale può rappresentare un primo esempio di reale struttura partitica nel nostro paese[4].

    Se i democratico-repubblicani si caratterizzavano come l’ala estrema del sistema politico italiano, un altro movimento, non esattamente politico, cominciava a prendere corpo, in quegli anni, distinguendosi a tutti gli effetti come forza antisistema: il movimento cattolico[5]. Anche per i cattolici, ovviamente, gli avvenimenti del ’70 rappresentarono un momento di svolta; se è vero che già dal 1866 le autorità vaticane si erano pronunciate contro l’opportunità che i cattolici italiani si recassero alle urne politiche, solo dopo Porta Pia questo consiglio si sarebbe tramutato in una vera e propria condanna dell’esercizio dell’elettorato attivo e passivo, con il pronunciamento papale dell’ottobre 1874 e, successivamente, con la circolare del Santo Uffizio del luglio 1886: in una simile situazione, quindi, la professione della fede cattolica finiva col coincidere con una negazione della legittimità degli ordinamenti dello Stato italiano. Assistiamo, dunque, intorno alla metà degli anni ’70, ad una frattura in seno ai cattolici italiani: se molti furono, infatti, coloro che seguirono senza indugi la parola del pontefice, altri optarono per una, più o meno palese, rivendicazione del proprio diritto elettorale. Il primo gruppo, i cosiddetti intransigenti, si sarebbe caratterizzato per il proprio attivismo in campo amministrativo (terreno sul quale non vigeva il non expedit) e sociale, impegnandosi, inoltre, in un fervente associazionismo che sarebbe culminato, nel 1875, con la fondazione dell’Opera dei Congressi[6]; il secondo gruppo, quello transigente, avrebbe, al contrario, imboccato la strada dell’impegno politico, accettando le istituzioni liberali e attestandosi alla destra del sistema politico italiano in posizione conservatrice. In ogni caso, a prescindere dagli sforzi dei transigenti, una buona parte dell’elettorato cattolico mostrava di attenersi alla prescrizione del non expedit e questo atteggiamento costituiva, indubbiamente, un grave problema di legittimità per le istituzioni italiane. Dal punto di vista liberale, comunque, non si avvertiva, se non in minima parte, la carica antisistema del nascente movimento cattolico intransigente; molto più timore incuteva l’ingrossarsi, a livello continentale, delle fila socialiste, specie ora che la Comune parigina (1871) aveva dimostrato come l’ordine sociale potesse essere totalmente sovvertito dall’irrompere delle forze popolari. Particolarmente sensibili a questo timore si dimostrarono alcuni settori della Destra liberale-moderata, i quali, tra la primavera e l’estate del 1871, avanzarono una interessante proposta politica[7]: convinti che il pericolo socialista avrebbe presto interessato anche il nostro paese, infatti, essi si attivarono per la costituzione di un partito conservatore a forte connotazione cattolica. Nato dalla mente di Pietro Sbarbaro, il progetto avrebbe presto trovato dei sostenitori in molti degli esponenti liberali-moderati più pensosi del problema religioso: tra i primi ad aderire al progetto di Sbarbaro troviamo, infatti, Alessandro Rossi, Carlo Alfieri di Sostegno, Cesare Cantù, Federico Sclopis e Paris Maria Salvago. Scorrendo questi nomi appare palese, però, quanto la componente cattolica fosse preponderante su quella liberale-moderata: il progetto, dunque, sarebbe in breve tempo naufragato a causa delle scarse adesioni da parte liberale e per il mancato sostegno delle gerarchie cattoliche, le quali, come abbiamo visto, si orientavano sempre più verso la condanna dell’impegno politico dei cattolici italiani.

    È interessante notare come questo primo tentativo di costituzione di un partito conservatore fallisse per i veti incrociati degli esponenti della parte più schiettamente liberale e di quella più tipicamente cattolica: questa situazione, infatti, si sarebbe ripetuta, in futuro, ad ogni tentativo di aggregazione della parte liberal-conservatrice.

    Politicamente, quindi, si rivelò essere questa la principale risultanza di quella carica antisistema alla quale si accennava riguardo al movimento cattolico: l’indisponibilità delle autorità vaticane ad accettare una collaborazione dei cattolici italiani con gli usurpatori del 20 settembre, portò alla sostanziale impossibilità di costituzione di un partito conservatore. Più volte, in futuro, si sarebbe tentato di risolvere questa grave anomalia del nostro sistema politico; sebbene tanto alcuni settori del liberalismo moderato, quanto molti esponenti cattolico-transigenti, continuassero ad agire in direzione di un accordo capace di dar luogo ad una vasta formazione conservatrice, le resistenze dell’autorità ecclesiastica, unite ad un persistente anticlericalismo diffuso in vari settori della Destra, non permisero di arrivare ad un simile risultato.

    Con la Destra saldamente al potere, comunque, ai più non parve necessario adoperarsi per la formazione di un partito: i governi Lanza (1869-1873) e Minghetti (1873-1876), infatti, erano fortemente impegnati nel completamento del programma storico della Destra e ciò era sufficiente a garantire una discreta compattezza allo schieramento parlamentare moderato. Il conseguimento del proprio principale obiettivo programmatico, però, avrebbe paradossalmente segnato la fine della stagione di governo della Destra: nel marzo 1876, infatti, dopo aver annunciato il raggiungimento del pareggio del bilancio, il governo Minghetti presentò alla Camera il progetto di completa nazionalizzazione delle linee ferroviarie. Benché questo significasse il coronamento degli sforzi di Minghetti e Sella, il 18 marzo 1876 il governo veniva messo in minoranza dallo spostamento dei voti della deputazione toscana; abbiamo già rilevato l’importanza dei sottoschieramenti regionali e l’autonomia di questi rispetto ad una, pur vaga, disciplina di partito: ebbene, nel marzo 1876, la «rivoluzione parlamentare» (come la definirono i contemporanei) avvenne proprio in virtù di una fronda regionale. Ideologicamente su posizioni di stampo liberista e, in molti casi, finanziariamente interessati al mantenimento della gestione privata delle ferrovie, i moderati toscani votarono, dunque, insieme alla Sinistra, provocando così la caduta del governo.

    Con il voto parlamentare del 18 marzo 1876 e con l’incarico conferito ad Agostino Depretis[8], si apriva per i due partiti storici una nuova fase; la correttezza costituzionale con la quale il sovrano aveva incaricato il leader dell’opposizione di formare il nuovo governo, infatti, pose, per la prima volta in modo palese, il problema all’alternativa di governo: con una Sinistra ormai pienamente

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