La fine dell'uomo: Una controapocalisse femminista
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Anteprima del libro
La fine dell'uomo - Joanna Zylinska
Introduzione - di Gabriela Galati
La traduzione del presente volume, insieme al capitolo critico introduttivo sul lavoro di Joanna Zylinska, nascono dalla convinzione che in Italia da tempo temi quali il rapporto dell’umano con il vivente, con la tecnologia, l’antropocene e il postumanesimo in generale raccolgano interesse nell’opinione pubblica e nei media nonché presentino sviluppi di rilievo in ambito accademico [1] . Quindi sembra necessaria l’introduzione a un pubblico italiano dei lavori più attuali e contemporanei sul tema del postumanesimo critico e le discussioni sull’Antropocene, molto lontane dall’essere univoche, che sono al momento in corso nel mondo anglosassone. Autori come Zylinska, Cary Wolfe, Claire Colebrooke, Karen Barad e Anna Lowenhaupt-Tsing sono stati poco e per nulla tradotti a ll’ italiano, e sono quindi sconosciuti al pubblico che non legg e in lingua inglese. La possibilità di approfondire questi autori, e in particolare il volume proposto, si offre come fondamentale per aggiornare un dibattito oggi necessario su questi temi.
Anche se non risulta possibile analizzare tutte le opere di Joanna Zylinska in questa sede, mi propongo di offrire un panorama generale considerando brevemente le opere che possono essere lette in continuità con il presente volume, ovvero Bioethics in the Age of New Media (2009), Nonhuman Photography (2017) e Minimal Ethics for the Anthropocene (2014) [2] , quest’ultimo considerato dall’autrice come il diretto antecedente de La fine dell’uomo. In particolare, vorrei segnalare come il fil rouge che lega queste opere sia un interesse da parte di Zylinska a sviluppare un’etica, nel senso di una assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro, umano, non umano o inorganico che sia. Il suo pensiero si situa nel contesto del postumanesimo critico con base femminista. Zylinska combina la filosofia continentale con autrici come Donna Haraway, Karen Barad e Rosi Braidotti, tra molte altre.
Uno dei punti di contatto più significativi che trovo nell’opera di Zylinska con la visione del postumanesimo critico di Braidotti è quella di arricchire, direi in quasi tutti i suoi lavori, il ragionamento puramente filosofico con un’analisi di opere di altri artisti; inoltre, poiché Zylinska è anche un’artista, spesso propone le proprie opere come una riflessione complementare alle sue riflessioni teoriche. E, in effetti, Braidotti propone «una nuova alleanza (…) della filosofia con l’arte» come una delle componenti fondamentali del pensiero critico che permetterà di pensare in maniere diverse e in ultima istanza di creare nuova conoscenza [3] . In questo senso, come Zylinska ha dichiarato e come è evidente nelle sue opere, l’autrice spesso concepisce il fare filosofia come una pratica artistica e il fare arte come modo di fare filosofia [4] .
Partendo dai lavori di Emanuel Lévinas, Bernard Stiegler e Jacques Derrida, già in Bioethics Zylinska propone che «la concettualizzazione dell’etica in termini di ospitalità e apertura verso l’alterità (differenza) degli altri offre un modello produttivo per pensare la vita e l’umano, nella sua configurazione sia sociale sia biologica» [5] . È importante segnalare che anche se Zylinska parte dagli sviluppi teorici fondamentali di un insieme di «maschi bianchi occidentali», i suoi lavori lasciano sempre spazio agli interventi femministi in filosofia e media studies «in maniera da consentire una riflessione sulla materialità del corpo e una rielaborazione della metodologia tradizionale e dello stile di scrittura della filosofia» [6] .
Si può considerare che gli obiettivi proposti in questo libro riguardo una rilettura della bioetica intesa in senso ampio come una «etica della vita» [7] dal punto di vista di una soggettività postumana si ritrovano in tutte le opere dell’autrice, e in particolare quelle qui segnalate. La filosofia della differenza, in questa prospettiva, è quella che dà la possibilità di pensare l’umano nella sua specificità e di allontanarsi dall’eccezionalismo. Quindi, in Bioethics, Zylinska problematizza dall’inizio il valore de «la vita umana» come un valore a priori che viene messo al di sopra di qualsiasi altro vivente [8] , e così dichiara «la mia unità analitica consiste […] nella differenza differenziale tra l’umano e il non umano, con l’umano che emerge attraverso e in rapporto con la tecnologia» [9] , intendendo questo rapporto come sempre già costitutivo dell’umano, così come anche di alcuni altri viventi.
Un po’ più avanti, seguendo il ragionamento di Rosi Braidotti per rispondere alla domanda di Spinoza «Cosa può fare un corpo?» (alla quale Braidotti risponderà «Tanto») [10] , Zylinska afferma che una delle domande etiche centrali oggi è il modo in cui si sceglie di vivere la relazionalità ibrida tra umano e non umano [11] .
Il libro sottopone poi a indagine «quelli che sono interessati a vivere una buona vita
», e di conseguenza si pongono la domanda su cosa possa essere considerato vita, o vivente, in questo momento [12] . Questa domanda tornerà come tema centrale in Minimal Ethics for the Anthropocene, libro nel quale l’autrice eviterà di postulare che cosa sia vivere una buona vita prendendo una posizione etica non normativa, né tanto meno moralista, che lasci spazio a ogni soggetto di decidere per sé stesso.
Bioethics finisce con un appello a «essere-in-differenza» che implicherebbe l’apertura del soggetto vivente e senziente verso la tecnologia, ma anche a una forma di passività o di ospitalità in cui lasciarsi «essere-insieme-con-la-differenza», o «essere-mediato» [13] . Anche l’appello alla passività come appellativo (e non imperativo) etico tornerà nel presente volume con il concetto di precarietà che Zylinska prende in prestito da Anna Tsing, come si vedrà di seguito.
Nel più recente Nonhuman Photography, Zylinska descrive la fotografia come «una tecnologia della vita» [14] , nel senso che la fotografia, con la sua agentività congiunta, o complessa, umana e non umana, non solo «rappresenta» la vita, ma la controlla e le dà forma [15] almeno in parte.
L’autrice si allontana dalle canoniche letture accademiche della fotografia sia come arte sia come pratica sociologica. Il primo caso rientra nel campo di studio della storia dell’arte, che si concentra «sull’evoluzione» del medium, e le diverse pratiche dei singoli artisti; mentre la seconda lettura indaga «non solo come le persone scattano e fanno fotografie, ma anche quello che fanno con le fotografie» [16] , cioè le pratiche sociali intorno a questa tecnologia. L’approccio di Nonhuman Photography si allontana anche dalla celebre concezione di Roland Barthes della fotografia come uno strumento di memoria, lutto e morte [17] . Per contro, il libro analizza la fotografia da una prospettiva della teoria dei media postumanista, smarcandosi da una teoria dei media che