L'albero delle ciliegie
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Anteprima del libro
L'albero delle ciliegie - Giancarlo Piubelli
cani.
Introduzione
Dicembre 2014
Quando mi è stato chiesto di scrivere l’introduzione a questo libro, L’albero delle ciliegie
, la prima immagine che mi è apparsa davanti agli occhi è stata quella di Giancarlo, mio vecchio amico dalla personalità solare e vulcanica, svelto di sorriso. Ho cercato poi di visualizzare le valli occitane, le selve e le foreste così ben descritte nel suo libro attraverso i racconti e le immagini, per commentarne l’aspetto poetico, naturalistico e ambientale, ma ancora una volta riaffiorava l’immagine di Giancarlo. Un uomo felice, positivo, dalla vitalità accesa e contagiosa.
Perché, mi sono chiesto, perché questa sovrapposizione?
La risposta è venuta da sé: perché Giancarlo è quelle valli, è quei boschi, è quella terra stretto a lei in un legame indissolubile, necessario e simbiotico.
Giancarlo è un uomo speciale così come speciale è la sua terra. Sincera e schietta. Generosa. È uno degli ultimi orsi
che ha scelto di vivere ritirato in una baita per vivere la sua
montagna a 360°, apprezzandone la semplicità e l’umiltà, in totale armonia con la natura.
Ma attenzione: ritirato non significa isolato o indifferente. Anzi. Giancarlo è attivissimo, attento agli altri, solidale e sensibile alle cause umanitarie e naturalistiche. Nutre la sua anima e il suo pensiero di silenzi, di tempi lenti, di respiri pieni e profondi fuori dalle gabbie
che imprigionano e fuori da quel ritmo incessante e disumano che costringe
ad arrancare per stare al passo. Lontano da un modello di società che sfrutta e depreda, che svuota sempre più le cose di bellezza e armonia in una corsa senza senso e senza direzione.
Una scelta di vita personalissima, la sua, la risposta di un autentico sognatore a un mondo che non contempla scelte di vita alternative, un tentativo di porre un freno all’avidità e alla distruzione che ne consegue.
Perciò è importante leggere le sue parole, quello che ha da dirci e guardare le sue immagini.
Sicuramente saprà offrirci altri
sguardi, altri punti di vista, insoliti e fuori dal coro.
Ma solo se sapremo fermarci un momento a riflettere e ad ascoltare.
Fausto De Stefani
Sul sentiero della meisun.
L’albero delle ciliegie
Nella metà del secolo scorso, in un minuscolo paese adagiato nel mezzo di una verde valle, era fiorente la coltura del baco da seta e una filanda assorbiva i bozzoli di questo bruco dipanandoli in fili di seta di grande qualità. Per alimentare gli insetti si usavano le foglie e il gelso era il fornitore di quel cibo.
I bachi venivano custoditi in magazzini, soffitte o granai sopra stuoie costruite con canne di bambù e sostenute da cavalletti di legno. Le foglie erano raccolte in sacchi e poi trasportate e sparse direttamente sui bruchi che con gran fragore di mandibole le divoravano. Spostando dall’alto in basso la testa ghermivano la foglia dai bordi eseguendo dei perfetti cerchi e semicerchi e altri arabeschi finché della foglia nulla rimaneva e un intenso profumo, come d’erba tagliata, si sentiva entrando in quelle stanze.
Sul finire dell’estate i bruchi, diventati adulti, si preparavano alla metamorfosi e il segnale era nelle foglie del gelso che rimanevano intatte: i bruchi smettevano di mangiare. Si agevolava la trasformazione appoggiando alle stuoie grandi fasci di rami con la base sul pavimento, sui quali i bachi in processione si trasferivano e iniziavano a produrre fili dorati, tessendo bozzoli ovali e richiudendosi sempre più all’interno, finché lo spessore li escludeva dalla vista. Là attendevano la trasformazione in farfalla, falena di abitudini notturne.
Tutte quelle fascine di rami nei grandi solai e quelle migliaia di fili e bozzoli multicolori, cangianti dal giallo al bianco all’arancio, contribuivano a trasformare quegli ambienti in luoghi magici. Il brusìo, creato da fruscii continui, ritmati, armonici o caotici, produceva allegria nella gente che duramente aveva lavorato. Così sulle stuoie, liberate dai loro ospiti, apparivano bicchieri e fiaschi colmi di vino durelo
(o durello) per festeggiare la fine del faticoso lavoro.
I gelsi in quel paese venivano perciò coltivati ovunque e il loro verde scuro dava un aspetto particolare alla campagna di quei tempi.
Al fondo di un grande cortile c’era un capannone di tegole e colonne di mattoni che ospitava una segheria. Il cortile era attraversato da una roggia che muoveva le pale di una grande ruota di legno: questa azionava ingranaggi e pulegge per tagliare i tronchi e produrre le assi che venivano poi disposte in alte cataste.
Il cortile era contornato da un filare di gelsi e uno di questi, il più rigoglioso di foglie scure, mostrava un acceso rossore di penduli frutti che non erano i suoi, ma tonde ciliegie appese alla base dei gambi delle foglie! Le ciliegie facevano bella mostra di sé nel lucido colore amaranto o rosso vivo mentre le more, i veri frutti del gelso, non apparivano perché nascoste dalle foglie. Molli e delicate, scure o giallastre, le more rapidamente maturavano cadendo di continuo ai piedi della pianta.
Lassù, nei rami alti del gelso, sulle foglie esposte al vento e al pieno sole