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Immagini Mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità
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E-book186 pagine2 ore

Immagini Mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità

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Info su questo ebook

Il documentario torna oggi a interessare gli autori, la produzione e il pubblico perché in esso è possibile trovare un laboratorio di sperimentazione del linguaggio dei nuovi media. Registi, tra gli altri, come Delbono, Di Costanzo, Marazzi, Marcello, Minervini, Quatriglio, Rosi tra gli italiani, o Oppenheimer e Panh tra gli stranieri, non si limitano a raccontare la realtà, ma ci mostrano gli usi possibili delle nuove tecnologie intermediali e interattive, nella misura in cui queste non ci allontanano, bensì ci rimettono in contatto in modo rinnovato con il mondo che ci circonda. Il documentario contemporaneo – per il quale l’autore propone la definizione di “cinema di testimonianza”, più adatta a descrivere il documentario contemporaneo di quella classica di “cinema del reale” – ci insegna a incontrare il mondo attraverso la mediazione digitale, che definisce ormai l’orizzonte di ogni nostra esperienza. A tale scopo, il saggio mette a lavoro alcune ipotesi filosofiche novecentesche sull’immagine (tra le altre, quelle di Ricoeur, Gadamer, Merleau-Ponty, Lyotard) riferendone in modo originale i risultati ai nuovi usi dell’audiovisivo che qui sono trattati. Ai capitoli teorici si affiancano analisi di sequenze o di immagini, definite “iconologie”, tratte da film di alcuni degli autori sopra menzionati.
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2016
ISBN9788868225049
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    Anteprima del libro

    Immagini Mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità - Dario Cecchi

    cinéphile

    INTRODUZIONE

    Per introdurre la questione se sia possibile parlare di un’estetica del documentario, orientata a rendere conto di parte della più recente produzione in questo campo, vorrei partire dall’indicare tre fenomeni, a mio parere significativi per comprendere il contesto entro cui si colloca oggi il lavoro del cinema di documentario. Da una parte assistiamo all’intreccio crescente tra forme della narrazione fortemente incentrate sul compito di attestare la realtà (un fatto, un evento, un luogo, un territorio, ecc.) quale essa è e dispositivi schiettamente finzionali. La dialettica tra i due poli, realtà e finzione, si gioca a diversi livelli di senso e di complessità. Come tensione tra una realtà di cui mancano i documenti (distrutti o mai esistiti) e una messa in scena esplicitamente di finzione, la quale supplisce a tale assenza o ne configura il senso: è il caso, come vedremo, de L’immagine mancante (2013) di Rithy Panh o anche quello di L’atto di uccidere (2012) di Joshua Oppenheimer. Oppure il dispositivo documentario integra al suo interno forme di rielaborazione narrativa classica – un racconto basato su fatti reali – facendo lavorare insieme due diversi modi di intendere la ricerca della realtà attraverso lo strumento del cinema: è il caso di Con il fiato sospeso (2013) di Costanza Quatriglio.

    Un secondo fenomeno di grande interesse sta nella capacità che il cinema di documentario sta dimostrando di integrare al suo interno i nuovi formati dell’immagine e i nuovi dispositivi della produzione, postproduzione e condivisione dell’immagine, tipici delle nuove tecnologie interattive e dei media organizzati secondo una logica di rete. Sembrerebbe quasi che il documentario attuale sia il frutto particolarmente avanzato e raffinato della nuova tendenza intermediale e interattiva, tipica della cultura di massa. Non intendo ovviamente sostenere la tesi di un così marcato causalismo e continuismo tra pratiche mediali e cinema di documentario. Si tratta piuttosto di mettere in luce come, di fronte a un contesto mediale dotato di certi caratteri, il documentario pare essere la forma di cinema che più e meglio si candida ad approntare il laboratorio di verifica, perfino di avanguardia, sperimentale di tali pratiche. I film girati con il telefonino da Pippo Delbono, con risultati a volte assai significativi sul piano del potere che ha l’immagine di risignificare la nostra interazione con realtà, come nel caso della sequenza del funerale ne La paura (2009), costituiscono un buon esempio di come il documentario non si limiti ad appropriarsi dello strumento tecnico e di un certo modo di praticarlo, ma si proponga anche di definire la grammatica e la sintassi possibili di un nuovo linguaggio dell’immagine, che non passa più attraverso la camera, ma attraverso questi nuovi dispositivi. È il caso anche dei web documentari che si stanno producendo in misura crescente e con un sempre maggiore interesse per il piano formale, oltre che per quello contenutistico, collegato a un immediato bisogno comunicativo. Non dimentichiamo, infatti, che i web documentari sono spesso prodotti nell’ambito di contesti sociali, politici e culturali come movimenti di protesta, occupazioni e così via. Si profila qui l’emergere di un nuovo filone di cinema, non riconducibile a pieno titolo al cinema documentario in senso stretto[1], ma alternativo a un cinema di pura mimesis, intendendo con ciò la rappresentazione libera (per quanto fedele e capace di ricaricare di senso l’esperienza) della realtà in genere, o di un fatto preciso ma fortemente trasfigurato dal dispositivo narrativo, non di una realtà determinata. Propongo di chiamare questo nuovo filone di cinema, per delle ragioni che spiegherò più avanti, cinema di testimonianza. Sebbene uno studioso del calibro di Jacques Aumont sia piuttosto scettico a proposito della natura del montaggio di questa nuova forma del documentario[2], bisogna riconoscere che in queste produzioni sembra prevalere l’istanza non di un impoverimento del montaggio, ma semmai di una sua maggiore complessità. Sebbene si tratti di una forma che necessita di essere ulteriormente messa alla prova, il web documentario avanza l’esigenza che la correlazione tra processi del pensiero e procedimenti di montaggio, sostenuta dallo stesso Aumont, non si muova solo lungo l’asse della resa narrativa attraverso una sequenza di immagini. In altre parole il montaggio cinematografico può oggi, più di quanto non potesse fare in passato, svincolarsi da un rapporto con l’istanza narrativa intesa in senso stretto, la diegesi realizzata attraverso la composizione di immagini. Ciò si manifesta, se non altro sotto forma di sintomo, nel web documentario, in quanto questa forma di cinema tende a privilegiare un uso molteplice, potremmo dire polifonico, del montaggio. In esso, infatti, accanto al montaggio diegetico, il quale riguarda a volte porzioni specifiche del lavoro complessivo di messa in immagine, troviamo un montaggio ipertestuale avanzato, che consente all’utente di questi siti internet di muoversi all’interno del sito non solo a scopo informativo, ma anche per fare un’autentica esperienza attraverso le immagini.

    Il terzo fenomeno di interesse per comprendere l’uso di archivi e in genere di memorie depositate in un formato diverso dall’immagine (ad esempio memoriali in forma di libri) o comunque non organizzate secondo un principio organico dettato da un procedimento di montaggio. Anche queste aspetto incontra la pratica dei nuovi media, i quali si organizzano mediante logiche di rete. Tale logica, infatti, com’è stato suggerito da diversi studiosi[3], si basa in larga misura sulla capacità che questi media hanno, conservando le tracce degli utenti, di creare immensi archivi di informazioni, i quali alimentano a loro volta la vita e lo sviluppo dei media medesimi. In questo caso non si tratta tanto di sperimentare gli archivi della rete e dei media in genere, quanto di riconfigurare il significato che hanno per noi, non solo sotto il profilo della memoria che ne abbiamo, ma soprattutto sotto quello dell’esperienza che ne facciamo, le pratiche di archiviazione e di fruizione degli archivi. Alcuni documentari offrono limpidi esempi del fatto che gli archivi costituiscono per noi una memoria solo a patto di intervenire su di essi attraverso operazioni di montaggio, le quali stabiliscono di volta in volta quale profilo esemplare deve emergere da tali archivi, divenendo oggetto di una memoria vissuta, o per meglio dire rivissuta. In questa prospettiva memoria ed esperienza sono inseparabili, a patto di assumere la loro relazione non secondo il senso comune, ma secondo un paradigma che dalla psicoanalisi freudiana rifluisce nella riflessione filosofica sullo statuto dell’immagine di testimonianza; penso in particolare ai lavori di Paul Ricoeur e più di recente di Pietro Montani[4]. Il senso comune intende la memoria come il risultato, il deposito per così dire, di esperienze fatte. La psicoanalisi freudiana, attraverso il concetto di rielaborazione (Durcharbeitung), suggerisce alla riflessione filosofica sul testimoniare l’idea che l’esperienza sia piuttosto il risultato del recupero e del trattamento di tracce mnestiche depositate in archivi (l’inconscio, gli archivi digitali) che non costituiscono di per sé una memoria organizzata e consapevole e che lo possono divenire solo a patto di farne emergere, appunto attraverso un’esperienza di rielaborazione, possibili profili di senso. È il caso esemplare, come vedremo, di Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi, ma anche del più recente Terramatta (2012) di Costanza Quatriglio. Nessuno di questi due film elabora archivi digitali. Nel caso di Marazzi si tratta dei filmini di famiglia girati dal padre e dal nonno, insieme al diario della madre che fornisce la base per la sceneggiatura del film. Nel caso di Quatriglio il punto di partenza è addirittura il testo scritto – il memoriale scritto da un contadino, poi capo cantoniere, siciliano semianalfabeta, protagonista anonimo del Novecento – a partire dal quale la regista monta immagini di repertorio della guerra e del fascismo, insieme a immagini di oggi girate da lei stessa.

    L’aspetto interessante – ed è un punto su cui dovrò tornare quando formulerò un’ipotesi sul significato estetico del documentario nell’epoca dell’intermedialità – è che questi film sembrano lavorare in modo particolare sull’esperienza della temporalità che facciamo quando ricostruiamo una memoria a partire da immagini d’archivio. Pur non occupandosi di nuovi media e di tecnologie digitali, essi ci insegnano perciò qualcosa sul tipo di esperienza che facciamo quando assumiamo, come criterio di orientamento per muoverci nel mondo, la rielaborazione di tracce d’archivio. È l’esperienza che ciascuno di noi fa quando si affida a un motore di ricerca o a un dispositivo di localizzazione satellitare.

    I tre fenomeni sopra indicati ci consentono di individuare immediatamente i punti di contatto non immediatamente evidenti tra il lavoro del documentario, così come esso si configura spesso oggi, e l’intermedialità come tratto caratteristico delle odierne pratiche mediali. Parlare di intermedialità significa ricorrere a un cappello molto ampio. In esso rientra tanto il problema della pluralità di formati attraverso i quali le immagini navigano oggi, quella che Bolter e Grusin definiscono rimediazione[5] (concetto ulteriormente ripensato in chiave biopolitica da Grusin come premediazione[6] del reale attraverso i media), quanto la messa in comunicazione di diverse pratiche culturali ed estetiche, originariamente eterogenee tra loro (la televisione e i social media, ad esempio), che Jenkins chiama con il termine di convergenza[7]. Sullo sfondo si collocano i vari tentativi di trovare una razionalità delle rete, dall’intelligenza collettiva[8] di Pierre Lévy all’idea di rete come stanza intelligente[9] di David Weinberger, passando per il surplus cognitivo teorizzato da Clay Shirky[10].

    Il confronto tra il lavoro del documentario, così come esso si configura oggi in molti casi esemplari, e la pluralità di formati e di mezzi – caratteristica odierna della comunicazione, che può essere descritta empiricamente come una forma avanzata di multimedialità – conferisce tuttavia alla nozione di intermedialità un significato specifico. Riprendo il concetto di autenticazione, su cui lavora, relativamente alla capacità di rendere testimonianza propria delle immagini digitali, Pietro Montani ne L’immaginazione intermediale, e tento di darne una declinazione particolare, relativa al documentario. Nell’epoca in cui il supporto dell’immagine non attesta più alcuna sostanza ontologica dell’immagine, come avveniva invece nell’epoca della fotografia analogica e della pellicola, l’immagine si presta a infinite e incontrollabili manipolazioni. Vanno allora ripensate le categorie della testimonianza attraverso le immagini. L’immagine non va più adeguata al suo referente oggettivo secondo i criteri della fedeltà e dell’autenticità. Finché pensiamo così, restiamo all’interno del paradigma platonico, che considera l’immagine come copia (fedele o infedele) della cosa reale[11]. L’idea di riproducibilità tecnica non esce in fondo da questo paradigma, estendendone piuttosto l’ambito di competenza al campo di immagini prodotte meccanicamente e non più, per così dire, artigianalmente.

    Questa situazione non si ripropone con le immagini digitali, le quali chiedono pertanto altri criteri per valutarne il potere di testimonianza. Punto di partenza di Montani è uno sguardo critico e teorico sull’immagine che recupera l’istanza trascendentale della filosofia kantiana. L’immagine non è semplicemente copia o riproduzione del reale, né è pura invenzione fantastica elaborata dal soggetto. Va detto che la filosofia dell’immagine di Montani si rifà al criticismo kantiano nella versione che ne dà Emilio Garroni, in particolare nel suo ultimo libro Immagine, linguaggio, figura, ripensando e aggiornando il pensiero di Kant alla luce dei contributi moderni della linguistica, della semiotica e della psicologia della percezione[12]. Kant, almeno il Kant della Critica della ragione pura, mantiene una distinzione di principio tra lo schema, che è una regola mentale per rappresentarsi l’oggetto, e l’immagine, che è invece la riproduzione interna dell’oggetto dato in una rappresentazione mentale[13]. Garroni rimette in discussione questa distinzione, suggerendo che il soggetto umano non produce singole immagini di oggetti dati, che sommate danno la materia dell’esperienza. Il soggetto si forgia piuttosto una immagine interna ampiamente indeterminata, in cui emergono dinamicamente profili di senso riferiti a singoli porzioni dell’esperienza – ad esempio l’oggetto con cui il soggetto si intrattiene in quel momento – e collegabili ai significati determinati che è il linguaggio a fornire. In questa prospettiva l’aspetto fondamentale dell’immagine non sta tanto nel fatto di riprodurre il singolo oggetto, quanto nel fatto di orientare il soggetto nell’esperienza secondo profili di senso che possono essere correlati ai significati determinati dati dal linguaggio, ivi compreso il significato collegato all’esperienza di quell’oggetto. La dialettica caratteristica dell’immagine non è quella tra cosa e copia, bensì quella tra immagine-schema dell’oggetto e immagine interna dell’esperienza, o meglio tra immagine interna, immagine-schema e linguaggio.

    Da questo nuovo modo di rendere conto dell’immagine – il quale, come si vede bene, non taglia semplicemente i ponti con il paradigma platonico, ma ne ripensa dall’interno i presupposti – emerge il fatto, messo in luce da Montani, che la facoltà di produrre immagini si trova al centro del nostro commercio con il mondo e con il sensibile, facendone emergere sia i tratti ricostruttivi che i tratti schiettamente costruttivi. Incontrare la realtà dell’oggetto attraverso la percezione delle sue qualità significa, infatti, dare una regola a questa materia in modo da organizzarla, aggiungere un costrutto mentale al dato sensibile. Ne L’immaginazione intermediale Montani scrive che

    Quando è in gioco una definizione della (o una domanda sulla) prestazione referenziale dell’immagine, la prima cosa che dobbiamo fare è individuare, con la massima approssimazione possibile, il piano su cui l’immagine si è costituita e, se possibile, la regola che lo definisce. In che modo, cioè, si svolga l’azione reciproca tra l’opzione riproduttiva e l’opzione costruttiva[14].

    L’autenticazione è allora un modo di ricollocare il nostro modo di interrogare le immagini, a partire dal loro valore di testimonianza, all’interno di una

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