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La vita di un uomo qualunque
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E-book308 pagine3 ore

La vita di un uomo qualunque

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Info su questo ebook

La storia narrata da Ugo Cabbi è incredibilmente vera. È la testimonianza preziosa di un uomo, nato negli anni ’30 in Eritrea, che per necessità connesse al suo lavoro ha avuto l’opportunità di viaggiare in molti Paesi del mondo, soprattutto arabi, quando essi, negli anni ’60 e ’70, erano ancora poco conosciuti da molti occidentali.

Tra cantieri da portare a termine con gente non sempre affidabile e le difficoltà di territori aspri e inospitali per l’uomo, come il deserto di Rub’ al-Khali, in Arabia Saudita, può accadere anche di fare incontri inaspettati. E poi di rimanere così estasiati da una figura femminile da non dimenticarla al ritorno in Italia.

Se poi al caso fortunato (un nuovo incarico di lavoro in quelle zone) si unisce il proprio desiderio, ecco che ritrovare quella donna di nome Leila, la “perla del deserto”, non sarà così difficile. Ma Leila è una beduina, cresciuta con un carattere forte nonostante le violenze subite dal “Bedù” e la miseria che accompagna la sua vita quotidianamente.

Il racconto di Cabbi nella seconda parte è sì in gran parte frutto di eventi reali, ma il fascino del deserto e del suo fiore più bello cedono il passo anche a una dose di fantasia, un tributo a un evento raro nella vita come l’amore.

LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2016
ISBN9788856779738
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    La vita di un uomo qualunque - Ugo Cabbi

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-7973-8

    I edizione elettronica agosto 2016

    Prologo

    Non rinunciare mai alla stupenda opportunità di essere unico:

    Etiam capillus unus habet umbram suam.

    In questo scritto, vi è il racconto di una parte della mia vita. Non c’è stato bisogno di ricorrere a fantasie di alcun tipo, anche se qualche volta, lo confesso, ne ho avuto la tentazione.

    Tutta vita vissuta da un uomo qualunque quindi, condizionata, a parte i primi 20 anni della mia esistenza trascorsi in Eritrea, dal mio lungo girovagare per il mondo, trasportato prima dalle necessità connesse con il mio lavoro e poi per diporto, spinto dalla grande sete di conoscenza di mondi tanto diversi dal nostro e l’uno dall’altro.

    Un episodio però, su tutti, mi ha colpito particolarmente. Fu quando incontrai una ragazzina beduina, Leila, ai confini del grande deserto del Rub’ al-Khali, nella regione sud-orientale dell’Arabia Saudita. È accertato che quel posto infernale sia il più ostile e pericoloso del pianeta, affrontando il quale si perde ogni cognizione di orientamento e del tempo, ragion per cui la gente che ha osato addentrarvisi vi ha lasciato la vita. Ecco: nei pressi di quel luogo assurdo ho incontrato Leila all’interno di una tenda tutta nera in mezzo al nulla dove il padre mi fece una proposta assurda che rifiutai. Era l’anno 1965.

    Da allora, ho cercato di immaginarmi come sarebbe potuta evolvere la situazione se avessi accettato quella richiesta. Un romanzo, mi dissi, devo scrivere un romanzo.

    Circa cinque anni dopo quell’evento, il destino mi ha realmente messo di fronte all’incredibile e sorprendente occasione per poter attuare ciò che quel beduino mi aveva proposto nel corso del primo incontro. Ma l’intero evolversi di questo episodio realmente accaduto, ho scelto di raccontarlo e svilupparlo nella seconda parte di questo libro, cioè nella Fantastica storia di Leila, dove la fantasia e la realtà credo che si intreccino armoniosamente nello sviluppo del romanzo.

    Tornando al racconto autobiografico ho pensato fosse utile cominciare con un breve cenno storico riguardante il periodo del colonialismo italiano in quella parte di Africa orientale dove sono nato e ho vissuto per quasi 21 anni della mia vita, cioè l’Eritrea, e dove, inoltre, ho mosso i miei primi passi cercando di diventare una persona adulta, cioè l’Etiopia.

    Rileggendo il mio diario che scrissi circa 55 anni fa, del quale riporto qui sotto un breve stralcio, mi sono reso conto di quanto profondi e importanti fossero i miei sentimenti che riguardavano e riguardano, ancora oggi, temi dell’esistenza così impegnativi e misteriosi. Avevo 20 anni, un’età cioè così immatura per quell’epoca perché non ancora contaminata dalla tecnologia moderna, grazie alla quale però, oggi, con il semplice movimento di un dito, possiamo portare a casa tutto il mondo.

    Io sono ateo, nonostante ciò credo che l’inferno ed il paradiso esistano davvero. Essi sono proprio qui, sotto i nostri piedi, sulla Terra. Il primo non lo vediamo ma sta dentro di noi nel dolore e nelle grandi sofferenze umane che a volte lacerano la nostra esistenza. Il paradiso, invece, lo vediamo e sta nella stupenda natura che ci circonda, ma sopratutto, in quei brevi, pieni e meravigliosi appagamenti dell’anima, che anch’essi non si vedono, ma ci sono, però fuggono via veloci… troppo veloci.

    Sono tutt’ora ateo ma forse ciò mi porta a sentire che c’è un vuoto in me che mai nessuno è riuscito a colmare.

    1

    L’Eritrea

    L’Eritrea fu la prima colonia creata dal Regno d’Italia. Dopo l’iniziale occupazione della costa (la baia di Assab) da parte dell’armatore genovese Rubattino, truppe italiane vi si stabilirono ingrandendo i territori limitrofi e nel 1890 l’Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana per cui furono riorganizzati i settori della vita civile, giuridica, economica dal primo governatore civile Ferdinando Martini, il quale tracciò programmi di studi del territorio e delle popolazioni, progetti di opere pubbliche e strutturazione di servizi statali, per l’avvaloramento e il progresso, programmi che furono realizzati nei decenni successivi e che hanno dato al paese una struttura civile che è ancora oggi vigente. Negli anni Trenta l’Eritrea, di cui Asmara ne è la capitale, fu colonia maggiormente ammodernata: furono costruiti migliaia di chilometri di strade, ponti, dighe, la ferrovia e la strada Massawa-Asmara, la teleferica, considerata per molti anni la più ardita del mondo, adibita al trasporto delle merci dal porto di Massawa, sul Mar Rosso, ad Asmara superando un dislivello di 2.450 m. su un percorso di circa 100 Km., molte altre innumerevoli infrastrutture oltre a centinaia fra industrie e attività commerciali.

    Nel censimento del 1939 solo ad Asmara fu accertata la presenza di 53.000 italiani su una popolazione complessiva di 98.000 abitanti mentre in tutta la colonia Eritrea gli italiani erano 80.000, in un paese di appena 870.000 anime. Oggi in Eritrea vivono circa sei milioni di persone.

    2

    L’Abissinia

    L’Abissinia (l’odierna Etiopia), fu conquistata dalle truppe italiane comandate dal generale Badoglio, dopo la guerra, voluta da Mussolini, che durò un anno o poco più. La vittoria fu annunciata il 9 maggio del 1936 e il re d’Italia Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Imperatore d’Etiopia, Mussolini quello di Fondatore dell’Impero e a Badoglio fu concesso il titolo di Duca di Addis Abeba. Con l’annessione dell’Etiopia, le colonie italiane (Etiopia, Eritrea e Somalia), furono unificate sotto il nome di A.O.I., Africa Orientale Italiana, e poste sotto il governo di un Viceré. L’Etiopia, confinante con L’Eritrea, popolo straordinariamente affine, fu molto interessata dalla migrazione italiana, dalla costruzione di grandi infrastrutture e anche dalla sistemazione delle città, sopratutto della capitale Addis Abeba, secondo un piano regolatore prestabilito. Ma la breve presenza italiana di soli cinque anni, permise una sistemazione parziale della città che sarebbe dovuta essere il fiore all’occhiello del colonialismo italiano sopratutto perché l’Etiopia, rispetto all’Eritrea, è un paese notevolmente più grande (circa 60 milioni di abitanti contro i quasi sei milioni dell’Eritrea), più ricco e più rigoglioso, oltre che dal punto di vista delle risorse, anche da quello faunistico.

    Tuttavia quale membro della Lega delle Nazioni, l’Italia ricevette la condanna internazionale per l’occupazione dell’Etiopia che era uno stato membro. Ne conseguì che le truppe inglesi, nei primi mesi del ’41, sconfissero gli italiani, occuparono l’Etiopia e reinsediarono il deposto negus Hailé Selassié esattamente 5 anni dopo la sua cacciata per mano degli italiani i quali, fra le tante atrocità commesse nello sforzo bellico prodotto per la conquista, non avevano lesinato l’uso delle armi chimiche.

    Nella primavera del 1941, dopo avere sconfitto le forze della resistenza italiana, anche l’Eritrea venne occupata dall’esercito britannico che vi restò fino al 1951, quando l’assemblea generale dell’ONU la dichiarò federata all’Etiopia. Gli italiani allora residenti temettero di essere espulsi dal paese, invece, il negus neghesti (Re dei Re) Hailé Selassié, dopo avere constatato l’alto livello di industrializzazione e la qualità della vita raggiunta in Eritrea, grazie al lavoro ed all’ingegno degli italiani e, nonostante avesse subìto una feroce guerra di colonizzazione da parte nostra, così si espresse: «Abbiamo sempre dichiarato la Nostra amicizia con il popolo italiano e disponiamo che essi possano vivere e lavorare liberamente in questo paese». Fu una buona novella per quasi tutti noi che però non capimmo subito la pericolosità del periodo storico al quale saremmo andati incontro. Il vero problema che ci colpì fu il fatto che non si voleva accettare l’irreversibilità di certe svolte preferendo l’antico approccio. Si invocava l’arrivo dall’Italia di 200.000 ulteriori connazionali, che naturalmente non arrivarono mai, in una Asmara nostalgica, nevrotizzante e lentamente tagliata fuori dal mondo. Dopo una iniziale euforia da parte degli eritrei per la definitiva liberazione dalle ingerenze coloniali, l’oppressione etiopica su di essi diede inizio ad una inarrestabile demolizione della federazione con la conseguente guerra d’indipendenza che durò circa 29 anni (dal 1962 al 1991). Ma non vissi quel lungo periodo bellico poiché quando iniziò, io e tutta la mia famiglia, poco alla volta, per motivi e contingenze diverse, avevamo già lasciato l’Eritrea.

    3

    La mia vita

    Era un po’ che pensavo di scrivere qualcosa che riguardasse la mia semplice esistenza, ma mi sono astenuto dal farlo poiché ho sempre avuto il timore che la vita di un uomo qualunque non potesse interessare chicchessia ma, forse un giorno, per qualche strana coincidenza capiterà che mio figlio si ritrovi fra le mani questo scritto e avrà la curiosità e la pazienza di leggere quella che è stata una parte importante della vita di suo padre. Ho molti ricordi annebbiati ma altri sono rimasti vivi e indelebili, quindi per poter cominciare a scrivere qualcosa dovrei mettere un po’ d’ordine nella mia memoria, piano piano, giorno dopo giorno, come fosse un progetto da pensare e realizzare di volta in volta. Un passatempo interessante, affascinante, che mi fa sentire vivo, nonostante i miei 76 anni, regalandomi la meravigliosa sensazione che nulla sia trascorso invano.

    Quando sono nato era una meravigliosa giornata di novembre del 1938 con un cielo azzurro da morire come può esserlo solo in quel posto unico a 2.500 metri di quota, in mezzo ai boschi di eucalipti, che si chiama Asmara, in Eritrea. Unico per il suo clima sempre primaverile, per la sua gente, i suoi inconfondibili odori, i suoi colori, per la semplicità delle sue genti, diverse da altri luoghi. I traumi della guerra che incombevano sull’Europa, Italia compresa, nella nostra colonia si avvertivano solo di striscio, come si dice, poiché erano relativi unicamente all’occupazione britannica avvenuta nel 1941, successiva alla nostra cacciata dall’Etiopia, quando cioè io avevo tre anni.

    Allora abitavamo in un bel palazzo storico composto da tre soli grandi appartamenti. La città era sottoposta ai bombardamenti inglesi quasi esclusivamente su obiettivi militari che in seguito si estesero anche su varie zone della città con lo scopo di fiaccare la volontà della resistenza italiana. Ricordo nitidamente quando, in seguito all’urlo delle sirene, che sinistramente annunciavano un imminente bombarda- mento, nonna mi prendeva frettolosamente in braccio per portarmi in una specie di rifugio situato nel cortile del palazzo, seguiti da papà e mamma con le mie sorelle. Le truppe inglesi, vittoriose dopo la sanguinosa battaglia di Keren, occuparono Asmara e imposero agli italiani di dotarsi del Bollo di sicurezza per poter circolare liberamente. Coloro che non ottenevano il Bollo erano considerati pericolosi e quindi, una volta beccati, venivano arrestati, messi nei campi di prigionia e poi deportati nelle colonie inglesi (India, Sudan, Kenia). Molti di loro morirono soprattutto, ricordo, si parlò con insistenza dell’affondamento della nave Nuova Scotia piena di prigionieri italiani, silurata da un U-Boot tedesco che costò la vita a 651 di essi.

    In quell’epoca l’esercito inglese faceva numerose e improvvise retate con irruzioni anche nelle case private per catturare gli eversori senza Bollo per poi deportarli. Papà, che non poteva avere quel lasciapassare in quanto ex radiotelegrafista dell’esercito italiano, si era costruito un rifugio ricavato sotto la tettoia del terrazzo dove si nascondeva ogni volta che si accendevano le lampadine-spia che aveva disposto in ogni stanza dell’appartamento, le quali segnalavano l’accesso di qualcuno dal portone dell’edificio. Un sistema di allarme che si era inventato e costruito lui stesso. Papà, grazie al suo ingegno si salvò, poiché i militari inglesi che irruppero più volte in casa, non riuscirono mai a scovarlo. Questo è stato l’unico trauma della guerra che io ricordi. Però non è durato a lungo. Tutto si placò dopo la resa della resistenza italiana.

    Col passare degli anni, andammo ad abitare in una villa che aveva un giardino molto grande con fiori, alberi e palme: un paradiso. Niente di lussuoso però, ma semplice e molto naturale. Ce la potevamo permettere perché si trovava in periferia e quindi con un affitto abbordabile.

    Una mattina, avevo circa otto anni o poco più, mi trovavo nel bel mezzo di quel giardino sotto a un albero e con il mio fucile a pallini cercavo di catturare qualche uccelletto (cosa che oggi mi farebbe inorridire). A un certo punto mirai a un passerotto posato sul ramo di un albero. Cinguettava, e tra il fogliame lo distinguevo con difficoltà, ma vedevo chiaramente quel cielo azzurro sullo sfondo tra il verde. Abbassai il fucile d’istinto e dissi a me stesso: Quanto è bella la vita!… sono felice, conquisterò il mondo. Quel semplice sentimento di intensa felicità non l’ho mai più provato e ancora mi chiedo perché, dopo tanto tempo, questo ricordo sia così presente. Il passerotto lo risparmiai.

    La mia famiglia era composta da mio padre, nativo di Pistoia, orfano di entrambi i genitori deceduti a causa della terribile pandemia detta influenza spagnola, mia madre di Livorno e le mie due sorelle alle quali ero molto legato. La più grande, Laura, era nata a Firenze, e Vera, la più piccola, ad Asmara come me.

    C’era in città una nutrita comunità di americani, oltre 5.000 tra militari e le loro famiglie che vivevano all’interno di un’area protetta di circa 14 km² denominata Kagnew Station: una stazione dell’esercito americano nata nel 1943 rimodernando e intensificando la preesistente Radio Navale Italiana. Era un centro di intelligence deputato sopratutto alla raccolta di intercettazioni da decriptare e decifrare. L’altitudine di Asmara permetteva loro un vasto ed agevolato controllo su vari territori internazionali.

    Mio padre era un radiotelegrafista alle loro dipendenze che operava in un grande centro importante di ricetrasmittenza situato al di fuori della Kagnew Station. Oltre a ciò riparava gli apparecchi radio e aveva trovato il sistema per produrre le candeline colorate di cera, che forniva a tutta la città, per gli alberi di Natale e le torte di compleanno. Laura, Vera e io davamo una mano a papà divertendoci. Più tardi, smise la produzione delle candeline e aprì un negozio di filatelia, vendita radio e sopratutto gioco del Totocalcio, del Totip e del Lotto. Lavorava molto, per cui spesso dovevo andare ad aiutarlo con mio sommo dispiacere perché ciò mi portava a delle rinunce importanti sopratutto quando avevo un impegno con qualche ragazza.

    Gli italiani, che avevano in mano tutta l’economia del paese, non erano ben visti dai nativi per i privilegi di cui godevano. Nacque così, grazie sopratutto alle sostenute spinte degli inglesi, una corrente di ribelli, chiamati Sciftà, i quali iniziarono diverse azioni di vera e propria guerriglia mordi e fuggi che costò la vita a molti italiani. Quei terroristi non colpivano solo gli isolati agricoltori del bassopiano ma uccidevano anche nelle ville, nelle strade urbane, lungo tutte le strade asfaltate dell’Eritrea percorse sopratutto da numerose corriere e camion guidati dai nostri connazionali. La loro azione era vasta, incessante, distruttiva. Erano circa duemila ribelli divisi in una trentina di bande composte ognuna dai trenta ai cinquanta elementi. Cominciarono depredando e distruggendo le floride piantagioni degli agricoltori italiani che erano costate anni di fatiche, per poi arrivare, più tardi, ad uccidere crudelmente. Ricordo lo sgomento e la paura che ci assaliva quando venivamo a sapere che un conoscente o un amico era stato ammazzato. Brutti tempi, che durarono a lungo (1941-1951), a parte alcuni periodi di tregua.

    Un giorno, una ventina di terroristi tirarono 11 granate nei pressi di un bar nel quartiere che si chiamava Bivio 78, situato nei pressi della villa dove abitavamo, ferendo sette nostri connazionali. Io stavo aiutando mio padre in negozio che distava un paio di chilometri, ma sentii chiaramente il cupo echeggiare delle bombe tanto che le contai. Appena intuita la provenienza dell’attentato, io e papà ci precipitammo a raggiungere casa e trovammo mamma e le due mie sorelle terrorizzate sotto il tavolo della cucina.

    La stessa cosa succedeva in Kenia dove i ribelli, che lottavano contro gli inglesi, erano chiamati Mau-Mau. I giornali e le numerose riviste che arrivavano settimanalmente dall’Italia parlavano, di tanto in tanto, di questi avvenimenti che riguardavano sia gli Sciftà che i Mau-Mau, ma da quel che mi ricordo, senza troppa enfasi.

    4

    Dick

    Avevamo un dolcissimo cane lupo di nome Dick, al quale volevamo molto bene e, abitando in una villa in periferia, con lui ci sentivamo un po’ più protetti. Infatti ci salvò la vita. Successe che, durante quel periodo infernale dei ribelli, una mattina quando ci alzammo trovammo Dick ancora vivo ma pieno di sangue e di ferite su tutto il corpo. Aveva ricevuto diverse pugnalate ma per fortuna nessuna mortale. Soffriva, povera bestia, e ci guardava con quegli occhioni teneri che solo un cane può avere, si lamentava appena. Dopo il primo momento di sbigottimento ci rendemmo conto di quanto Dick avesse lottato con gli assalitori. C’erano tracce di sangue ovunque, persino sul tronco di una delle palme del nostro giardino dove, sicuramente, uno dei ribelli aveva cercato di salire per sottrarsi dall’aggressione del cane, un pugnale abbandonato nell’aiuola sottostante e ancora tracce di sangue che arrivavano sino al cancello d’ingresso al giardino della villa, dal quale erano poi fuggiti. Gli Sciftà quando entravano di notte nelle ville isolate si servivano solo di pugnali e scimitarre per uccidere e non di armi da fuoco: potevano così operare in tranquillità, in silenzio e con il minimo rischio. Dick si salvò.

    Posso dire che quell’episodio ha cambiato il mio rapporto affettivo verso gli animali in genere. Gli occhi dolcissimi di quel cane li ho ancora oggi impressi nella mia mente. Dick, sappi che ti voglio bene non come allora, ma molto di più, perché dopo tanti anni ho ancora il rimorso pensando a quando ti dovetti far sopprimere: lo feci senza tenerti fra le mie braccia facendoti capire che ero lì con te. Ti fecero, a tradimento, una iniezione e tu corresti sconvolto per andare a morire lontano, da solo.

    Gli avvenimenti tragici e dolorosi di quel periodo mi colpirono profondamente quando ero ancora un ragazzino. Fu terribile, tanto che i miei genitori pensarono più volte di lasciare l’Eritrea per tornare in Italia, ma rinunciarono all’idea poiché in patria non avevano più nessuno e non avrebbero saputo dove andare e tanto meno cosa fare. Ci sarebbe voluto molto coraggio per fare quel passo, ma non lo ebbero.

    Il tempo passò, e nel 1951, inaspettatamente, il generale inglese Duncan Cameron prese finalmente una duplice decisione. Da una parte rafforzò gli organismi repressivi contro i terroristi e dall’altra concesse a questi ultimi, in cambio della resa e della conseguente consegna delle armi, una amnistia collettiva, la quale diventò esecutiva quando fu deciso che la stessa avrebbe incluso anche coloro i quali si erano macchiati di gravi episodi di sangue a danno di inermi cittadini italiani.

    Tornò la serenità nel nostro paradiso terrestre dove cristiani, musulmani, ebrei e copti si rispettavano e si accettavano con una tale spontaneità che poi, col passare degli anni, non ho più ritrovato in giro per il mondo. Ma, come ho accennato prima, nel 1951, con la federazione dell’Eritrea all’Etiopia cominciò il periodo lento del non ritorno. Noi, allora felici giovanotti di belle speranze, pensavamo soltanto alle ragazze, alle serate danzanti, alle escursioni nei bassipiani eritrei e a goderci la vita, semplice, ma che ci appagava moltissimo.

    5

    Il razzismo

    Questa è una questione che mi tocca veramente nel vivo poiché l’ho vissuta dall’origine della mia vita sino a oggi attraversando le varie sfumature, le contraddizioni e le ambiguità che essa comporta. Sono cioè passato dal razzi-smo più radicale ad una stima profonda verso quel popolo eritreo in mezzo al quale sono nato e col quale ho convissuto per più di venti anni. Un popolo che ha sopportato la nostra intrusione ma che, dopo il periodo di influenza britannica, pian piano ha cercato di capirci e ha infine riconosciuto lo sforzo che abbiamo prodotto nel costruire il loro paese, al contrario delle altre nostre ex colonie, Libia e Somalia che, forse a ragione, si sono sempre dimostrate ostili e rancorose nei nostri confronti tanto che ancora oggi, le nuove generazioni, ci rinfacciano, in maniera più o meno manifesta, quel disgraziato e lungo periodo coloniale. Un popolo, dicevo, militarmente contrapposto, nello sforzo bellico per la liberazione della loro terra dal regime etiopico enormemente più potente il quale, oltretutto, ricevette negli anni ’70 un importante aiuto logistico dalla Russia e anche il diretto appoggio sul campo di soldati cubani; un popolo che ha combattuto l’intero e interminabile periodo delle ostilità in perfetta solitudine, senza cioè l’appoggio militare, politico o economico di alcun altro paese, senza armi se non quelle catturate al nemico, senza munizioni se

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