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Elena d'Aosta: Una volontà senza confini
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E-book365 pagine4 ore

Elena d'Aosta: Una volontà senza confini

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Il lavoro qui svolto cerca innanzitutto di restituire alla storia – ed alla memoria storica contemporanea – il profilo di una figura che ricoprì nella sua epoca un ruolo da assoluta protagonista sui suoi caotici palcoscenici: Elena d’Aosta.
Partendo da una breve ma precisa analisi del contesto storico (1870-1918) e dei luoghi “vissuti” dalla duchessa Elena, si passa a tracciare anno per anno, fatto dopo fatto, tutto ciò che la principessa d’Orléans, andata in sposa al duca d’Aosta, condottiero della famosa III Armata, «ha dato all’altro» e alla società di cui faceva parte, e non si contano – anche per la sua discrezione ed umiltà nell’agire – gli “oggetti” da descrivere. Elena fu infatti una donna attivissima nella sua epoca, nonostante soffrisse di una forma di tubercolosi partecipò, come infermiera volontaria della Croce Rossa (prima volta per le donne italiane), prima al duro conflitto italo-turco in Libia (1911-1912) e poi, in qualità di Ispettrice Generale della Cri, alla Grande Guerra, destando stupore e sconcerto per i rischi corsi ed il rigore e la disciplina imposte alle volontarie e negli ospedali militari e civili. La si ritrova ad aiutare e rendersi utile al prossimo nel Cottolengo di Torino, fra le strade di Napoli durante la spaventosa eruzione vesuviana del 1906, in Calabria e Reggio durante il terribile terremoto del 1908, nel primo dopoguerra istituendo l’ONAIR (Opera Nazionale Assistenza Italia Redenta); di nuovo durante la seconda guerra mondiale, ormai anziana e vedova, a soccorrere malati, poveri, sfollati, mutilati, nei vicoli e negli ospedali di Napoli, dove visse gran parte della sua vita. Elena d’Aosta, «eterna camminante», fu anche un’instancabile viaggiatrice: il suo grande rifugio dalla civiltà delle macchine fu l’Africa.
Scandagliando pagina per pagina, riflessione dopo riflessione, i suoi intensi diari di viaggio, veniamo in contatto con un universo altro di straordinario interesse naturalistico, storico ed antropologico; unica costante della sua penna: la voglia di conoscere, di sperimentare, di vedere e toccare con mano il mondo e la realtà di questo sterminato continente in parte vergine ed in parte già “corrotto” e “trasformato” dai colonizzatori europei. Voglia di conoscere e di amare l’altro, poiché Elena con una solida formazione umanistica alle spalle e – nonostante l’ideologia che questa si portava dietro – seppe davvero avvicinarsi agli africani e apprezzarne – in un continuo meravigliarsi – le bellezze, le infinite risorse e le culture altre (ne imparò ad esempio la lingua e vi adottò due dei suoi “figli” portandoseli a Capodimonte).
Infermiera, ispettrice, presidente, membro del CNDI (Consiglio Nazionale delle Donne Italiane), di sangue e cultura europei, ella si fece italiana sotto le bombe e a ridosso delle trincee, meritandosi sul campo di battaglia, come i due figli ed il marito, medaglie ed onori militari. Famiglia di soldati ed eroi la sua, gli Aosta, Elena dovette affrontare la morte dei suoi cari: prima del marito e poi, dolore indicibile per una madre, quella di entrambi i bellissimi e valorosi figli Amedeo ed Aimone. A più di sessant’anni la tenace duchessa attraversò il Sahara con una propria carovana lungo un itinerario da sud a nord da lei stessa tracciato: vera e propria impresa umana, e quando tornò a Napoli, si prodigò ancora in opere di pietà private e minute e qualcheduna pubblica, come testimonia il tuttora funzionante Piccolo Cottolengo di Don Orione. Eppure sui libri di storia – anche accademici – o fra i nomi di donne “impegnate”, spesso non c’è il suo nome o è ricordato superficialmente e senza quei criteri di «significato» e «verità storica» di crociana memoria. Bastano le etichette di “donna”, di “Savoia”, di “aristocratica” e sopratutto di “fascista”, a cancellare e far dimenticare le azioni di una donna che su molti fronti fu eccezionalmente “avanti” coi tempi?
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2017
ISBN9788827506721
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    Anteprima del libro

    Elena d'Aosta - Giuseppe Cipolletta

    Giuseppe Cipolletta

    Elena d'Aosta

    Una volontà senza confini

    UUID: da5caa4a-a103-11e7-98fb-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    PREFAZIONE

    INTRODUZIONE

    CAPITOLO I - UN’EPOCA, UNA DONNA SUI GENERIS

    CAPITOLO II - CONOSCERE E AMARE: L’AFRICA DI ELENA D’AOSTA

    CAPITOLO III - AFRIQUE: SEUL REFUGE DE L’AME NOMADE DE HELENE

    LE IMMAGINI

    Note

    A nzuri Maisha nyota yangu

    Habari gani?

    Le immagini di questo volume sono tratte dal testo di Elena d’Aosta, Viaggi in Africa (Milano, Fratelli Treves, 1913, BNN, Fondo Aosta, Bibliografia 7).

    Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo

    © Biblioteca Nazionale di Napoli

    È vietata ogni forma di duplicazione, con qualsiasi mezzo

    © Copyright 2017 Il Terebinto Edizioni

    Sede legale: via degli Imbimbo, n. 8, Scala E

    83100 Avellino

    tel. 340/6862179

    e-mail: ilterebintoedizioni@libero.it

    PREFAZIONE

    Quella di Elena d’Aosta (1871-1951) è una figura tanto eccezionale quanto dimenticata della storia italiana. Membro della famiglia reale francese degli Orléans, e moglie del duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, condusse la sua esistenza tra Francia, Italia e Gran Bretagna. In questo volume, Giuseppe Cipolletta ne ricostruisce la biografia, tra amori principeschi, avventure militari, opere benefiche e viaggi africani.

    Una figura da riscoprire

    Nonostante la straordinarietà della figura di Elena d’Aosta, in pochi studiosi si sono interessati a lei. Nell’Introduzione, l’Autore si chiede infatti se siano sufficienti le categorie di donna, di Savoia, di aristocratica e di fascista, a far cadere nell’oblio la figura di una donna che ebbe un ruolo da protagonista nella società del suo tempo. Quella della principessa, quindi, è sempre stata percepita come una figura sconveniente, dall’Italia della prima Repubblica fino ai giorni nostri. Per una singolare coincidenza storica, Elena d’Aosta portava con se tutte quelle etichette che potevano contribuire all’oscuramento della sua figura: aristocratica, membro dei Savoia e fascista.

    L’esperienza della guerra

    Durante la Grande Guerra, Elena d’Aosta ricoprì il ruolo di ispettrice nazionale delle infermiere volontarie della Croce Rossa, guadagnandosi presto l’appellativo di generalissima per la sua fermezza e per il rigore delle sue ispezioni. Alla fine del conflitto, nel quale si distinsero per comando e coraggio anche il marito ed il sedicenne primogenito Amedeo, venne premiata con la Medaglia d’argento al Valore Militare. Da quella esperienza, nella quale ella stessa perse molti amici, nacque una delle numerose opere di Elena d’Aosta: Accanto agli eroi (Roma 1930), con prefazione di Benito Mussolini.

    Elena d’Aosta e l’irredentismo

    Per molti, quella italiana della Grande Guerra era stata la «vittoria tradita». Nonostante la vittoria, ottenuta col sacrificio di molte vite, il problema dei territori italiani ancora non annessi allo Stato Italiano restava ancora in larga parte irrisolto. Elena d’Aosta si recò così nella Fiume occupata nel 1919 da Gabriele d’Annunzio, suscitando le ire del Presidente del Consiglio Nitti. Anche a questa causa la principessa diede il suo contributo, con la fondazione dell’ONAIR (Opera Nazionale di Assistenza all’Italia Redenta).

    La lunga residenza napoletana

    Elena d’Aosta coltivò un amore speciale per Napoli, di cui l’autore fornisce una interessante ricostruzione storica che va dal colera del 1884 al fascismo. Giunta nel 1905, Elena vi avrebbe sempre fatto ritorno dopo i suoi numerosi viaggi. Anche nella vita della città, ben consapevole delle sue criticità, ricoprì un ruolo di primo piano anche durante il fascismo, nonostante i non sempre facili rapporti col Duce. Anche a Napoli, Elena si distinse per la sua instancabile attività filantropica, come dimostrato dalla grande partecipazione al suo funerale nel 1951.

    I viaggi africani

    L’altra grande passione di Elena d’Aosta fu l’Africa, che ebbe modo di visitare in diverse occasioni (non senza rischi). L’Autore, seguendo i diari della principessa, documenti di grande interesse come Viaggi in Africa (Milano 1913), ha ricostruito le esplorazioni dell’«eterna camminante», mettendone in evidenza la grande voglia di comprendere e conoscere le variegate culture del continente nero, riuscendo ad andare oltre quei pregiudizi razziali (allora presentati da molti come scientifici)che pure le appartenevano.

    Ettore Barra

    INTRODUZIONE

    Il lavoro qui svolto cerca innanzitutto di restituire alla storia – ed alla memoria storica contemporanea – il profilo di una figura che ricoprì nella sua epoca un ruolo da assoluta protagonista sui suoi caotici palcoscenici: Elena d’Aosta.

    Partendo da una breve ma precisa analisi del contesto storico (1870-1918) e dei luoghi vissuti dalla duchessa Elena (Europa, Italia e Napoli), si passa a tracciare anno per anno, fatto dopo fatto, tutto ciò che la principessa d’Orléans, andata in sposa al duca d’Aosta, condottiero della famosa III Armata, «ha dato all’altro» e alla società di cui faceva parte, e non si contano – anche per la sua discrezione ed umiltà nell’agire – gli oggetti da descrivere. Elena fu infatti una donna attivissima nella sua epoca, nonostante soffrisse di una forma di tubercolosi partecipò, come infermiera volontaria della Croce Rossa (prima volta per le donne italiane), prima al duro conflitto italo-turco in Libia (1911-1912) e poi, in qualità di Ispettrice Generale della Cri, alla Grande Guerra, destando stupore e sconcerto per i rischi corsi ed il rigore e la disciplina imposte alle volontarie e negli ospedali militari e civili. La si ritrova ad aiutare e rendersi utile al prossimo nel Cottolengo di Torino, fra le strade di Napoli durante la spaventosa eruzione vesuviana del 1906, in Calabria e Reggio durante il terribile terremoto del 1908, nel primo dopoguerra istituendo l’ONAIR (Opera Nazionale Assistenza Italia Redenta); di nuovo durante la seconda guerra mondiale, ormai anziana e vedova, a soccorrere malati, poveri, sfollati, mutilati, nei vicoli e negli ospedali di Napoli, dove visse gran parte della sua vita. Elena d’Aosta, «eterna camminante», fu anche un’instancabile viaggiatrice: il suo grande rifugio dalla civiltà delle macchine fu l’Africa.

    Scandagliando pagina per pagina, riflessione dopo riflessione i suoi intensi diari di viaggio, veniamo in contatto con un universo altro di straordinario interesse naturalistico, storico ed antropologico; unica costante della sua penna: la voglia di conoscere, di sperimentare, di vedere e toccare con mano il mondo e la realtà di questo sterminato continente in parte vergine ed in parte già corrotto e trasformato dai colonizzatori europei. Voglia di conoscere e di amare l’altro, poiché Elena con una solida formazione umanistica alle spalle e – nonostante l’ideologia che questa si portava dietro – seppe davvero avvicinarsi agli africani e apprezzarne – in un continuo meravigliarsi – le bellezze, le infinite risorse e le culture altre (ne imparò ad esempio la lingua e vi adottò due dei suoi figli portandoseli a Capodimonte).

    Infermiera, ispettrice, presidente, membro del CNDI (Consiglio Nazionale delle Donne Italiane), di sangue e cultura europei, ella si fece italiana sotto le bombe e a ridosso delle trincee, meritandosi sul campo di battaglia, come i due figli ed il marito, medaglie ed onori militari. Famiglia di soldati ed eroi la sua, gli Aosta, Elena dovette affrontare la morte dei suoi cari: prima del marito e poi, dolore indicibile per una madre, quella di entrambi i bellissimi e valorosi figli Amedeo ed Aimone. A più di sessant’anni la tenace duchessa attraversò il Sahara con una propria carovana lungo un itinerario da sud a nord da lei stessa tracciato: vera e propria impresa umana, e quando tornò a Napoli, si prodigò ancora in opere di pietà private e minute e qualcheduna pubblica, come testimonia il tuttora funzionante Piccolo Cottolengo di Don Orione. Eppure sui libri di storia – anche accademici – o fra i nomi di donne impegnate, spesso non c’è il suo nome o è ricordato superficialmente e senza quei criteri di «significato» e «verità storica» di crociana memoria. Bastano le etichette di donna, di Savoia, di aristocratica e sopratutto di fascista, a cancellare e far dimenticare le azioni di una donna che su molti fronti fu eccezionalmente avanti coi tempi?

    CAPITOLO I - UN’EPOCA, UNA DONNA SUI GENERIS

    1. Dal salotto alla trincea (1871-1918)

    Così Croce, sul piano di una storia etico-politica, paladino della religione della libertà, scriveva nel 1931: «Quando, dunque, si ode domandare se alla libertà, sia per toccare quel che si chiama, l’avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: l’eterno»[1].

    L’Europa in effetti, dal 1871 allo scoppio della prima guerra mondiale, raccolse i molteplici frutti dei princìpi del liberalismo storico: dalla pace politica alla crescita economica[2], che fece della società liberale un’unica compagine culturale. La tecnica e la scienza diedero ampio materiale da esporre toccare e provare, sia alle ricche borghesie conservatrici, che usavano gonfiarsi il petto con le idee di civiltà e progresso, sia ai socialisti – compagine nuova ed agguerrita – altrettanto fiduciosi ed ottimisti nel presente e immediato futuro[3].

    Gli spazi e i tempi, accorciatisi di colpo grazie allo sviluppo industriale e commerciale, parevano ora avvicinare gli individui come mai prima di allora, e la possibilità di una futura Europa patria comune come indicato dallo stesso Croce[4], non era poi così irreale.

    Ma fu proprio l’idea di patria, ristretta e piegata agli interessi politico-economici dei singoli Stati-nazione, a calarsi nei fatti e negli uomini della grande guerra, agitando le menti e scendendo nelle piazze, alleandosi con le scienze e la politica internazionale. Difatti il nazionalismo (o imperialismo a seconda del paese) ed il materialismo storico, filosofie della storia con al centro la guerra come mito fondante di palingenesi, giocarono nel conflitto quel match scacchistico che si annunciava come lotta per l’egemonia mondiale, caricando i contendenti delle necessarie ragioni morali atte alla sopraffazione e completa dipartita dell’avversario.

    E così il fare per il fare, il distruggere per il distruggere[5],resero i paesi belligeranti (Germania e Inghilterra in primis) luoghi protagonisti di assurdi esperimenti di darwinismo sociale (alla Spencer), e le masse civili e militari coinvolte, strumenti ed oggetti attraverso i quali l’uomo-maschio freudiano dava ora pieno sfogo ai propri istinti e impulsi inconsci.[6] L’artiglieria, i bombardamenti aerei, i gas tossici, reificano e annullano i valori e l’integrità psico-fisica del cittadino-soldato europeo. La trincea è il simbolo di questa nuova condizione alienante, di ubbidiente rassegnazione del soldato: all’assalto e alla quasi certa morte del domani, presentificata davanti ai suoi occhi dai tanti cadaveri che convivono con lui, vicino alla sua nicchia, fossa, in quella terra di nessuno divisa soltanto dal reticolato nemico. Nel 1914 l’Europa passava dalla frenesìa del cancan e dell’arte impressionista a quella della mitragliatrice e del sangue, sprofondando nella più grande tragedia umana[7] della sua storia, quasi come ubriaca di sé e della sua incontrollabile velocità di sviluppo.

    L’Italia unita seppe approfittare delle congiunture economiche internazionali e della pax europea, inserendosi efficacemente nel processo di crescita mondiale, nonostante l’arretratezza iniziale ed i numerosi problemi interni. Il Paese risanò il bilancio nel ’76 ed uscì a testa alta dalla tremenda crisi finanziaria (poi politica e sociale) di fine secolo, e da quella bancaria del 1907, espandendo il Pil ed il settore industriale alla vigilia della grande guerra[8]. Come scriveva Croce però, con la consueta flemma etico-politica:

    la politica è quella che è, e chi prova repugnanza a certi accomodamenti, a certe maniere, a certe qualità di persone, ben si comporta col trarsene da parte o farne solo quel tanto che può senza ripugnanza, sia per rispetto verso sé stesso, sia perché tutto il rimanente non potrebbe, per mancanza di attitudine, farlo se non contro voglia e goffamente[9].

    In effetti il Parlamento italiano nel periodo qui considerato, si rispecchiò perfettamente in quest’idea della politica generale, anzi si può dire che con le sue continue riformulazioni e maggioranze progressivamente sempre più instabili e assortite, restituisse un’immagine tanto fedele di questa politica compromissoria, e irrimediabilmente ab initio compromessa, da risultare quasi fittizia e plastiforme. Se l’organicità – su base censitaria – di intenti e d’ideali della Destra storica, concretatasi in un esecutivo centralizzatore forte e ad ampio spettro, venne a mancare nei governi successivi al ’76, nondimeno il paradigma lampedusano di conservare il conservabile (le élites dominanti) e assecondare l’assecondabile (gli interessi della nuova borghesia imprenditoriale e l’ascesa del partito socialista) resse ancora agli urti.

    Un protezionismo – che potremmo con qualche riserva definire di Stato –accompagnò l’industrializzazione del paese a scapito del Mezzogiorno che, se defraudato dei suoi capitali fin dall’Unità (attraverso soprattutto una politica fiscale vessatoria), ora veniva relegato a produttore di emigranti e miseria, proprio in ragione e difesa dei grandi latifondisti del Sud, irrinunciabili raccoglitori di voti[10]. Il fenomeno massiccio dell’emigrazione (quasi 13,5 milioni le persone coinvolte tra il 1876-1913), il fallimento di una sostanziale riforma tributaria, le lotte sociali dei braccianti e degli operai, riuniti nelle leghe e nei sindacati, culminate negli scioperi di primo Novecento e nei conseguenti eccidi e stati d’assedio, la dichiara neutralità giolittiana nei confronti della questione, aprirono non poche ferite all’interno di quella maggioranza liberal-democratica rappresentata nella persona dello statista piemontese. Le elezioni del 26 ottobre 1913, a suffragio quasi universale[11], che diedero ai cattolici – finalmente eletti ed elettori col patto Gentiloni – il ruolo decisivo nella costituzione del Ministero Giolitti IV, misero in luce tutte le fratture ormai insanabili fra i radicali e socialisti (cresciuti entrambi di numero) da una parte, e i ministeriali liberali della sua maggioranza, dall’altra. La crisi di governo (già alla prese con la situazione economica stagnante e il malessere sociale) aperta dai radicali portò, nella primavera del ’14, il nazional-liberale Salandra al potere e la guerra imminente non fece che accelerare quell’esautoramento di prerogative parlamentari, praticamente in atto e coesistente all’Unità, che consegnerà nelle mani di pochi, ai ministri Sonnino, Salandra, Orlando e ai generali Cadorna, Diaz e Dallolio il futuro del Paese e di molti (dell’esercito innanzitutto)[12].

    Non si può in alcun modo scindere in questi decenni la politica interna da quella estera, né comprendere il suddetto svuotamento di poteri del parlamento italiano, senza tener conto della sua politica coloniale e dei rapporti internazionali – radicalmente nuovi ed in fieri, vista la recente unità monarchica del paese – con le altre potenze imperialiste. L’intreccio degli interessi politico-economici degli stati europei più forti e solidi (Regno Unito, Germania, Francia) e quelli dei più deboli e insicuri (Austria-Ungheria, Italia, Russia) condussero l’Europa dal pacifico ordine bismarckiano del ’78 ( Congresso di Berlino), alla stipulazione dei trattati difensivi della Triplice (1882) prima e dell’Intesa poi (1907) ed, infine, alla Grande Guerra (1914-18) fra queste due macro coalizioni che trascinarono con sé infine le altre potenze mondiali (U.S.A., Giappone, Turchia). Tali interessi da soli però, non spiegano il passaggio dalle parole ai fatti, dalle minacciose assicurazioni e contro assicurazioni diplomatiche alla mobilitazione e utilizzo – e spreco! – di milioni di individui e di capitali. Bisogna soffermarsi, quindi, anche sui desideri individuali e collettivi e sulle passioni ed azioni ad essi correlate e ispirate, poiché la corsa sfrenata alle armi, le piazze incitanti alla guerra, le parole imprevidenti del Kaiser Guglielmo II e, infine, la stessa uccisione dell’arciduca asburgico Francesco Ferdinando da parte dell’estremista serbo Gavrilo Princip, non nascono da meri calcoli e strategie ma dal fuoco dei nazionalismi, coi suoi desideri di rivalsa e gloria da appagare subito.

    Nell’Italia sabauda le accese discussioni parlamentari e le disordinate operazioni militari in Africa, dimostrano quanto sia difficile districare l’amor patrio dalle ragioni di stato, gli arcana imperi dalla vox populi e, con icastico fulgore, quanto – ancora una volta! – gli eventi e il protagonismo dei singoli (come presidenti del Consiglio e ministri degli Esteri) abbiano reso superfluo e inabile il legislativo rispetto all’esecutivo. Dall’occupazione pacifica di Assab (ceduta dalla società Rubattino allo Stato nel 1882) a quella militare di Massaua (1885, poi parte della colonia di Eritrea) e alla più onerosa fatal guerra per la Libia (1911-12 terminata con la pace di Ouchy[13]) passando per la rovinosa sconfitta di Adua (1896): è tutto un susseguirsi convulso di botte (dal campo e dall’opposizione in parlamento) e di risposte (Mancini, Crispi, Di Rudinì, Giolitti), di ratifiche, annessioni e decreti emergenziali o comunque in ritardo rispetto agli eventi politico-militari sulle coste africane[14].

    Dal suo osservatorio di Asmara, il governatore dell’Eritrea, Ferdinando Martini, guarda all’Italia di fine secolo con viva preoccupazione, colpito dal ‘decadimento intellettuale e morale del paese’, ma anche dall’enorme confusione che vi regna. ‘Insomma che cosa vuole? – si chiede – Non vuole sapere di politica coloniale, ma si arrabbia se non gli riesce strappare un pezzo di China; vuole rimanere chiusa nel proprio guscio, ma Dio guardi se gli toccano la Tripolitana. In maggio chiede o approva magari lo sterminio, per paura; in giugno, per un’altra specie di paura, incoronerebbe quelli che ha desiderato di sbranare ieri. Tale è il parlamento e tale il paese. La Torre di Babele, vista dall’Africa[15].

    «Dobbiamo ottenere una fetta di questa magnifica torta africana»[16], confidava in una lettera privata del 1877, Leopoldo re del Belgio, rendendo giustizia all’occupazione quasi totale dell’immenso territorio africano da parte della Gran Bretagna e della Francia in primis, e poi di Germania, Belgio, Portogallo e Italia in secundis, alla vigilia del primo conflitto mondiale. I pregiudizi razziali, basati principalmente sugli studi scientifici anglo-francesi e sui diari degli esploratori dell’epoca, diffusi dalla stampa e dalle associazioni internazionali ed Enti preposti (come l’Associazione africana internazionale e la Società antropologica di Londra) e, soprattutto dalle foto, immagini e caricature contemporanee: ebbero un ruolo determinante nel veicolare alle popolazioni europee l’idea di civilizzazione giusta e doverosa (da compiersi anche con l’uso delle armi) di quei negri inferiori e barbari. Purtroppo, come già accennato in precedenza, la barbarie perpetrata lontano dall’Europa presto fece capolino fin nel suo cuore e rese i civilizzatori vittime e carnefici di se medesimi.

    E se i politici tedeschi, nei parziali acquisti di vittoria dei loro eserciti, imposero gli esosi trattati di Brest-Litovsk e di Bukarest, quelli dell’Intesa, una volta vinta la guerra, invece di levarsi a più alta sfera, li ricambiarono col congresso o trattato di Versailles: dove la coscienza umana fu dolorosamente offesa dallo spettacolo dei vincitori che traevano al loro tribunale l’eroico avversario, grondante il sangue di cento battaglie, e si ergevano sopra lui giudici di moralità ed esecutori di giustizia, e lo costringevano ad ammettere la sua colpa, essi colpevoli a lor volta, se pure di colpa si vuol parlare e non piuttosto, come a noi sembra, di un comune errore che chiedeva comune espiazione. La guerra che si era annunciata ai popoli con la promessa di una generale catarsi, nel suo corso e al suo termine mancò affatto a questa promessa[17].

    2. Cenni su Napoli: dal colera del 1884 al fascismo

    Nella più popolosa città del Mezzogiorno italiano, dove a migliaia s’addensavano come insetti per i vicoli, nei bassi e fondachi, lungo cortili e sottoscala e finanche in sotterranei, grotte e nel bel mezzo delle putride strade, lavarsi le mani o far bollire l’acqua potevano ben considerarsi atti inconsueti o comunque difficili a ottenersi nel quotidiano, cosicché nel 1884 il colera poté diffondersi e mietere – per l’ennesima volta! – le sue numerose vittime fra le inermi fila del popolo napoletano. Se anche fossero state sconfitte le sue secolari ritrosie e paure verso gli ospedali e le cure istituzionali (quasi assenti), come – c’era da chiedersi – un popolo che beveva acqua infetta, mangiava poco più di un trancio di pizza al giorno e lavorava oltre le dodici ore per meno di una lira, avrebbe potuto giovarsi delle recenti scoperte dell’illustre medico Koch o seguire un minimo di profilassi igienica?[18]

    Le accorate richieste del neoletto sindaco Nicola Amore al governo Depretis portarono alla legge emergenziale per il risanamento (1885) che nei fatti però, si risolse nel paravento del Rettifilo, nel completamento del pretenzioso e ridicolo Rione della bellezza (Chiaia) e nella costruzione di alcuni quartieri e case popolari che nessun popolano andò ad abitare perché non poteva permetterselo[19].

    I lavori protrattisi a fatica fino addirittura agli anni Trenta del nuovo secolo (la sistemazione di piazza Municipio è solo nel 1939), invece di risanare e migliorare la vita della plebe e dei meno abbienti, furono occasione per accattonaggio ed arricchimento illeciti di banchieri e speculatori privati, e dimostrazione d’incompetenza e cattiva gestione del Comune, oramai sempre più centro di interessi e affari extra amministrativi (ad esempio la giunta Capomassa e Summonte). Lo scadimento politico e morale della classe dirigente cittadina verrà messo sotto accusa a fine secolo in special modo dal quotidiano La Propaganda, testata dei giovani socialisti partenopei. Forza ideologica nuova e propulsiva con istanze politico-sociali improntate alla lotta sindacale in difesa dei lavoratori al centro- nord, il partito socialista al sud, scontava la sua origine borghese e soprattutto l’esiguità di ascoltatori, data l’arretratezza dell’economia cittadina. E se la commissione Saredo (1900) cercò di intervenire sul piano amministrativo, la legge speciale sull’incremento industriale del 1904 cercò di ridurre tale arretratezza e di promuovere lo sviluppo delle industrie all’interno della città. Purtroppo entrambi i tentativi fallirono: da un lato, le dinamiche clientelari, gli scambi tra vertice e società, le incompetenze e scorrettezze continuarono ad avere seguito e attrattiva, dall’altro, i flussi di capitali e d’investimenti, le relazioni e le sinergie con banche e aziende settentrionali ed estere si esaurirono ben presto, mettendo in luce tutta la debolezza strutturale e la fragilità finanziaria e la precarietà sui mercati dei pochi istituti ed industrie campane, valga per tutti, come esempio attuale e futuro, gli impianti dell’Ilva di Bagnoli.

    Le responsabilità, le colpe degli insuccessi, non erano da imputarsi solo ai meridionali: all’ignoranza diffusa, allo scarso senso civico, alla poca trasparenza dei suoi uomini politici, né solamente alle conseguenze di uno status secolare di città di consumo che faceva di medici, avvocati o rentiers la maggioranza delle borghesie locali a scapito della formazione di una più autonoma, capace e moderna classe industriale del tutto assente invece in città (F.S.Nitti). Le difficoltà incontrate dalle élites dirigenti napoletane ad immettersi favorevolmente, con mezzi e a rischi propri, nei mercati europei, allargando referenze e committenti e generando posti e qualificate manodopera, si devono pure – ancora una volta! – ai provvedimenti di natura emergenziale, all’inorganicità delle politiche prefettizie del governo centrale, geloso dello status quo – compresi i termini e l’impostazione della questione meridionale – che vedeva la medesima classe di granicultori padroni del Mezzogiorno da decenni, e il popolo degli aventi diritto, fonte primaria di voti a cui attingere per le maggioranze parlamentari.

    Dell’incongruenza a Napoli, fra abitanti occupati e abitati occupati, o lasciando perdere il gioco di parole, fra capacità produttive e di consumo, della divaricazione, insomma, fra ricchi e poveri e della medievale forbice prezzi-salari, a farne le spese con ricadute sui tassi di mortalità, fame e malattia, erano, come al solito, sempre gli stessi: le folle di contadini, di venditori, di artigiani, di commercianti, di ambulanti, di donne e bambini, di ladruncoli e piccoli usurai e di giovani della malavita più o meno organizzata, ognuno a suo modo interprete partecipe e spettatore non pagato di un degrado più che mai ambientale e morale.

    Napoli, in qualità di porto più grande del sud Italia, fu tappa obbligata e protagonista (da fine secolo alla grande guerra) di quei traffici e commerci ruotanti intorno al fenomeno di massa nazionale dell’emigrazione: «In queste operazioni l’ex capitale confermò la tradizionale capacità di vivere di transazione scarsamente produttive, ma fortemente lucrose e in mano, sovente, a persone di pochi scrupoli»[20]. Esempi di queste transazioni e del complesso di attività inerenti ai costi e agli spostamenti di uomini e denaro, specie oltreoceano, possono ravvisarsi nella figura dell’agente o del subagente di emigrazione e nelle agenzie come la Società Italiana per l’Emigrazione e Colonizzazione.

    La notte dell’11 marzo 1918, il dirigibile tedesco L. 59 bombardò numerosi quartieri abitati del centro cittadino di Napoli, provocando ingenti danni e 16 vittime; la riconversione industriale nel dopoguerra e il ridimensionamento delle commesse statali fu ulteriore causa di disoccupazione e malnutrizione del popolo napoletano. La guerra aveva posto una frattura ideologica all’interno del paese e della sua classe dirigente borghese e distrutto l’equilibrio partitico liberal-democratico, inoltre, mobilitando masse largamente analfabete e contadine, essa aveva fatto

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