Il giustiziere
Di Rino Gobbi
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Alla fine, quando si innamorerà e crederà finita la sua missione, non riuscirà ad uscirne perché la Forza si sarà trasformata in una maledizione.
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Anteprima del libro
Il giustiziere - Rino Gobbi
Napoli.
I
L’auto filava a velocità sostenuta sulla A4, l’autostrada che da Torino porta a Venezia, dove un via vai di macchine e camion pazzesco su tre corsie per ogni senso di marcia trasportava la gente da un'estremità all’altra dell’Italia del nord. La giornata radiosa e il paesaggio ridente venivano ignorati, solo arrivare era lo scopo, per chi sarebbe arrivato… e per chi si sarebbe scontrato prima con esperienze insolite.
«Lo sai che questo è il tratto di autostrada più pericoloso d’Italia? Alza quel tuo piedino dall’acceleratore!». Era Enrico, il passeggero, che parlava. Il timbro rauco della voce, accompagnato da una leggera smorfia della bocca, lo collocava tra gli individui sinceri, ma dotati di una buona dose di spirito che gli facilitava il superamento delle ineluttabili difficoltà del vivere quotidiano. Di corporatura mingherlina, aveva lavorato come dipendente in una officina meccanica e quando s’era impadronito di tutti i segreti del mestiere e si era sentito pronto per il grande balzo, aveva aperto un'attività in proprio, sempre come meccanico. Ci lavorò con l’unico figlio che aveva; scopo del padre era quello di insegnargli bene il mestiere e, gli diceva, il giorno che si sarebbe ritirato l’officina sarebbe stata sua. Il figlio rese soddisfazione al padre dimostrando la sua bravura. Ma gli affari andarono bene finché l’elettronica non soppiantò per buona parte la meccanica: la gente cominciò a portare il proprio mezzo alle autofficine autorizzate, dove il computer regolava ogni cosa; così in quella di Enrico il lavoro scemò inesorabilmente e lui, disperato, si vide affondare sempre più. Prima della chiusura il figlio cambiò mestiere, cominciando a guidare grossi camion, e per il padre fu la tranquillità.
«Va bene, va bene» rispose Roberto con un sorriso di sufficienza. Però non decelerava.
«Dico, vuoi andare più piano o no!». Non si sapeva se Enrico scherzasse.
Una Porsche nera sfrecciò alla loro sinistra. Non fecero a tempo di raccapezzarsi che la videro scomparire nella galleria sotto i Colli Berici, trecento metri più avanti.
Enrico scosse la testa e aprì la bocca irregolare: «Incoscienti, selvaggi… e poi succedono gli incidenti! Purtroppo ne vanno di mezzo anche gli altri… Maledetti!».
Roberto non ribatté: a frasi fatte non c’erano risposte.
«Questa fra poco ce la troveremo davanti in un cartoccio! Preparati!» sentenziò ancora Enrico.
Superarono anche loro la galleria, allungando il collo con apprensione perché pareva che quella macchina cercasse proprio il disastro.
Lo scorrere regolare del traffico diceva che non era successo niente. La Porsche era già Dio sa dove. Meglio così: un incidente avrebbe causato sicuramente un blocco della circolazione e avrebbero dovuto assistere controvoglia a uno spettacolo terrificante, soprattutto sarebbero arrivati in ritardo all’Hotel Plaza di Mestre, presso il quale doveva avere luogo il meeting dell’AMC, una ditta che aveva immesso nel mercato un nuovo sistema di cottura, più salutare e veloce.
Roberto era un veterano nel commerciare il prodotto; già gli inizi furono incoraggianti per lui, merito della sua dialettica accattivante. A soli 35 anni aveva raggiunto i gradi più alti della gerarchia nel settore, andando comunque casa per casa a dimostrare il funzionamento e la bontà del sistema di cottura. Di corporatura longilinea, capelli nerissimi, portava un paio di occhiali da vista che gli conferivano l’aria da intellettuale. E in qualche modo lo era, poiché gli piaceva essere informato su tutto per poter essere preparato a rispondere a tutto: questa era la sua filosofia, e con il lavoro che faceva ci aveva azzeccato in pieno. La sua strategia consisteva nel riporre le pentole usate per la dimostrazione nei loro contenitori una volta finita la seduta, e cominciare a parlare di tutt’altro, lasciando trasparire qualche lacuna per non essere considerato un presuntuoso. Però se si parlava di fenomeni naturali o dell’universo o comunque di argomenti neutri, cercava di inculcare nelle teste dei presenti la sua conoscenza. Era una tattica che quasi sempre funzionava; e vendeva, vendeva perché distraendo il cliente lo metteva a suo agio. Quasi sempre gli richiedeva ulteriori spiegazioni sul funzionamento del sistema di cottura… e il prezzo. A quel punto era fatta, la vendita era conclusa. Niente di truffaldino: il metodo di Roberto era del tutto onesto poiché la qualità del prodotto era un dogma per lui.
Aveva convinto pure Enrico a buttarsi in questo tipo di commercio che, a 43 anni, iniziava così questa attività totalmente estranea al suo modo di essere. Enrico non aveva ancora condotto una dimostrazione, aveva solamente assistito Roberto a quelle che teneva a suo nome, lasciandogli l’intero guadagno.
Diventando amici, Roberto si era preso sotto la sua ala protettrice quell’ex meccanico in cerca di una fonte di sostentamento e ora, pur non essendo ancora abilitato, lo stava portando al meeting di Mestre dove, tra l’altro, ci sarebbe stato un pranzo luculliano per tutti i partecipanti.
Il viaggio proseguiva silenzioso. Superarono i Colli Berici, mentre già in lontananza si intravedevano i Colli Euganei, di origine vulcanica, posti sulla vasta pianura come postazioni per un'improbabile strategia di guerra. Superarono l’uscita di Padova Ovest, dove una visita alla città non sarebbe stata niente male, pensò Roberto. Lui c’era già stato, e conosceva la Basilica di Sant’Antonio, la Cappella degli Scrovegni, il Museo degli Eremitani, il Prato della Valle eccetera: erano bellezze per cui perdere una giornata ne sarebbe valsa la pena. Il Prato della Valle gli era stato particolarmente impresso: la piazza più grande d’Europa, con le statue che costeggiavano il grande prato, la fontana centrale che lanciava getti d’acqua alle stelle, e i grossi platani, ormai rari perché decimati dalla malattia. Il pensiero si spostò di conseguenza lungo Via del Santo, fino al piazzale antistante la Basilica, dove le bancarelle testimoniavano con grappoli di candele, immagini e altro, la devozione per Sant’Antonio, il santo più venerato del mondo; e i colombi che…
All’improvviso un’auto del servizio autostradale, uscita da non si sa dove, si intrufolò davanti a loro con i lampeggianti sul tettuccio che segnalavano, con un vistoso cartello posto sul retro, l’obbligo di uscire a Padova Est, causa incidente.
La Porsche nera! pensarono entrambi. E avevano ragione. Sul Gazzettino del giorno apparve la notizia del disastro causato dal guidatore della Porsche, abbandonato dalla fidanzata, che in preda alla disperazione si era proposto di sfidare la morte in una folle corsa.
Roberto guardò l’orologio, poi estrasse dal cassetto del cruscotto una carta stradale e la porse a Enrico. «Guarda dove ci andremo a cacciare!».
La carta, in alternativa all’autostrada che portava a Mestre segnava una grande arteria di colore rosso. Scorrendola con un dito Enrico cominciò a elencare a Roberto i paesi; e si fermò a Stra. «Villa Pisani!» esclamò Roberto, «ma è la Riviera del Brenta!». Roberto, appassionato di monumenti e di arte in genere, quasi quasi se lo avesse pensato prima ci sarebbe passato per la strada delle ville anche senza esservi stato costretto dall’incidente. «Meglio così: non tutto il male viene per nuocere, tempo ne abbiamo a sufficienza per osservare magari solo dall’esterno Villa Pisani» esclamò.
Si fermarono prima in un bar alla periferia del paese, e qui qualcosa modificò il loro programma.
L’orologio tondo di acciaio appeso al muro, stranamente preciso, segnava le 8,20. Il locale, appena accettabile nel suo vecchiume, denotava la mancanza di una donna, dove il gestore manifestava solamente la buona volontà nel tenerlo pulito. Anche i cappuccini erano al limite della bontà, e le brioche, che a un primo sguardo parevano decisamente stantie, una volta addentate lasciavano in bocca un gusto di marmellata quasi andata a male. Roberto ed Enrico, più spaesati che stanchi, osservarono i quadri che pendevano alla rinfusa alle pareti, in stile con l’ambiente.
Regnava un silenzio in quel posto che metteva a disagio, qualsiasi suono emesso avrebbe accresciuto questa sensazione. Nonostante questo, da un tavolo all’angolo della piccola sala, uno dei tre avventori alzò la voce: «Mi dica, cos’è questa storia di un paese qua vicino dove si vive a meraviglia, tutti sono contenti perché non si hanno preoccupazioni e non succede mai niente di male?». Il volto tirato ed emaciato dell’individuo fissava il barista con il coraggio di chi si sente onnipotente nella sua arroganza.
Il barista non rispose.
«E allora?…» ribadì questi rude sentendosi ignorato.
Il barista, squadrandolo capì all’istante cosa doveva fare, e rispose: «Sì, c’è un paesino strano, ma non vi consiglio di andarci. È un paese maledetto, non conviene a nessuno andarci…». E si rintanò dietro al banco.
«Come maledetto? Se è tutta gente onesta, che non toglie un capello a nessuno?…». Era un altro dei tre a parlare: magro, dal viso brutto, sarebbe andato bene per fare l’attore nei film western, naturalmente nella parte del cattivo.
Il barista non aveva conseguito nessuna laurea in psicologia, ma aveva lo stesso cominciato a comprendere la gente, specialmente quella di malaffare: quattro volte aveva subito delle risse nel suo locale; i carabinieri erano sempre intervenuti e avevano portato via non si sa per quanto poco tempo gli attaccabrighe; ma i cocci, come si dice, erano stati veramente suoi perché i danni non erano stati pagati nessuno. Perciò sapeva fin quando tirare la corda.
«Vedo che lo conoscete, perché me lo chiedete allora?».
«Perché vogliamo sapere dove si trova, mi sembra abbastanza chiaro, no?». Era ancora quello con la faccia tonda, che ora mostrava insofferenza.
Il barista: «Meglio non andarci, ve lo dico io».
I tre si guardarono in faccia e scoppiarono in una risata; poi fu il primo, quello magro, a parlare ancora: «Sbaglio o ha intenzione di darci ordini? Se noi vogliamo andarci noi ci andiamo!».
«Dicevo così perché chiunque entri in quel paese, e non conosce le sue abitudini, ne rimane stregato. Come vi ho detto, se ne avete sentito parlare saprete anche com’è la situazione là… Io proprio non ve lo consiglio». Voleva salvare loro, o salvare il paese da loro? Questo nemmeno lui lo sapeva.
Il terzo individuo era il più giovane, il suo bel viso non gli si addiceva: una qualità addossata alla persona sbagliata. Dal ghigno lo si reputava il più strafottente: per tutta la discussione si era immobilizzato con lo sguardo fisso sul barista in atto di sfida; ammiccò ai suoi compagni e ribatté: «E chi vuole andarci? Lo dobbiamo riferire ai nostri nipoti, che vengano lì a fare gli esercizi spirituali». Seguì un’altra risata.
Enrico e Roberto ascoltavano con apprensione: da un momento all’altro la situazione poteva degenerare con chissà quali conseguenze. Cosa costava a quel barista dire subito dove si trovava questo paese?
si domandò Roberto.
Finalmente l’esercente fece la cosa più saggia: forse per darsi un contegno controllò se ci fossero stati abbastanza succhi di frutta nel comparto sotto il banco e proferì il nome del paese, come gli fosse scappato di bocca: «Si chiama Costareno».
Il terzo individuo saltò su dalla sedia e piombò sul banco. Il barista fece appena in tempo a portarsi fuori dalla sua portata, considerò la faccia del prepotente e lo sfidò con lo sguardo. L’altro, dotato di una personalità limitata, che sopperiva a quella degli altri due manifestando comportamenti arroganti, voleva farsi valere agli occhi dei suoi compagni. Questi lo richiamarono, ma lui, con supponenza, sfidando anche loro, apostrofò il barista: «Non basta il nome, vogliamo sapere dove si trova questo dannato paese!».
Gli altri due lo richiamarono ancora, e lui alla fine tornò al suo posto.
La questione pareva risolta: i tre ritornarono ai loro ruoli di avventori mettendosi a discutere di tutt’altro, come un acquazzone che smette all’improvviso; infatti, leggendo il giornale a un tratto cominciarono a sbellicarsi dalle risa, battendo i pugni sul tavolo e spintonandosi. Era rilassante vederli così, se non fosse stato per il loro parlare volgare.
«Quanto, quanto? Dimmi quanto?» sogghignava uno.
«Due e cinquantaquattro, capisci, solo due e cinquantaquattro!». Quello che aveva risposto si girò verso il terzo tipo, il più giovane: «Come il suo!». E giù a ridere. «Napoleone, tanto basso, tanto piccolo… Ma, aspettate, aspettate, quello di Roby Sagrato…».
«Chi è?» chiesero all’unisono gli altri due.
«Un attore porno. Ce l’aveva lungo ventidue nella sua piena efficienza».
«Uhhh!».
«E qua dicono che il record lo detiene Rasputin, il famoso santone e imbroglione russo».
«Quanto, dimmi quanto?». La curiosità aveva preso gli altri due.
«Indovinate!».
Buttarono giù una serie di numeri come giocassero a morra, mentre il primo dimenava la testa. «Trentatré centimetri!» fu la risposta finale, «Almeno così afferma il suo cameriere».
«Il suo cameriere?... Forse ne sapeva qualcosa». Sghignazzarono ancora.
«Sicché Napoleone si è fermato a Villa Pisani una notte? Buono a sapersi». Era quello magro che parlava.
«E quella notte era di cattivo umore. Qua dicono così, doveva essere un lunatico».
«Per forza, con un pisellino così!».
I nostri due viaggiatori tirarono un sospiro di sollievo: sì, meglio discorsi sconci che aggressivi.
«Su, finisci di bere!». Roberto aveva fretta di uscire da quel posto che poteva esplodere nonostante la bonaccia, inutile affrontare il pericolo quando lo si può evitare: anche questa era una filosofia che lui metteva in pratica non per qualunquismo, ma per opportunismo: perché vivere male quando si può vivere bene? I falsi problemi li relegava agli altri. Ma Enrico non poteva assecondare il suo desiderio: un bisogno impellente lo costringeva a ritardarne la partenza. Si alzò di fretta, passò davanti al banco e fece capolino in una saletta una volta adibita al gioco delle carte, dove i tavoli vuoti testimoniavano il fermento dei tempi andati. Sulla porta malridotta all’angolo della stanza, due figure, una con i pantaloni e un’altra con la gonna indicavano che quella era una toilette. Enrico imboccò la porta e poco dopo fu il sollievo.
Il barista, desideroso che i tre se ne andassero il più presto possibile, distese le mani sul banco e parlò come tra sé: «Per arrivare a Costareno dovete attraversare il centro di Stra, poi seguite la Riviera fino al secondo semaforo, là girate a destra, dopo sei o sette chilometri attraversate il paese di Francone. Continuate per la strada principale e dopo cinque chilometri troverete il ponte sul Brenta, canale Brenta intendo, non il naviglio della Riviera, e sarete subito al centro di Pasino.