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Anarchia in corpo mafia
Anarchia in corpo mafia
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E-book188 pagine2 ore

Anarchia in corpo mafia

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Info su questo ebook

ROMANZO (143 pagine) - NARRATIVA - In una Catania in mano ai narcotrafficanti, con la mafia sempre più relegata a fare da sfondo, sventola la bandiera anarchica...

L'ex Falco Marco Ranno e la prostituta Tania Vidic non si conoscono, ma c'è qualcosa che li accomuna: odiano le angherie e non sono disposti a piegarsi al dominio criminale. Hanno un nemico da abbattere: il feroce sicario Carmelo Spatafora. Condizionato dalla più becera superstizione, il malavitoso è a un passo dall'annientare Catania e trasformarla in una piattaforma per lo spaccio internazionale di droga e armi. Ci riuscirà?

Carlo Ragonese è nato e vive a Catania. Dal 1990 esercita la professione di perito assicurativo. Appassionato di narrativa, predilige i romanzi thriller e fantasy. Due suoi racconti sono stati inseriti nelle antologie "365" della Delos Books. Questo è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2016
ISBN9788825400168
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    Anteprima del libro

    Anarchia in corpo mafia - Carlo Ragonese

    romanzo.

    prologo

    2 marzo. Ore 08.13

    Il citofono gracchiò tre volte. Due colpi ripetuti, poi un altro.

    Carmelo sollevò lo sguardo dal tavolo da lavoro mentre filacce di fumo si alzavano dalla punta della sigaretta, stretta tra le labbra. Storpiò un sorriso al nulla, mollò sul tavolo la pezzuola e la .45 che stava pulendo e scattò in piedi. Raggiunse il corridoio con la convinzione che fosse in arrivo una grana, e staccò la cornetta.

    – Che cazzo succede, Zarak?

    – Capo, quattro tipi in moto fermi davanti al portone.

    – Ok. E allora?

    – Aziz ha detto che loro aspettare te quando esci.

    – Fammi capire. Aziz ti ha chiamato dal furgone?

    – Sì, capo. Lui visti arrivare e fermarsi qui davanti.

    – Il portone è chiuso, giusto?

    – Sì. Come sempre. Come vuoi tu.

    – E perché diavolo, secondo Aziz, questi aspetterebbero me?

    – Aziz ha detto che sono armati. A uno lui ha visto gonfiore alla cintola, e anche calcio pistola sotto il giubbotto.

    – Forse sono sbirri.

    – Aziz ha detto no sbirri.

    – Come fa a esserne certo?

    – Capo, lui ha detto che quelli indossano caschi tutti chiusi con vetro scuro e volto non si vede. Polizia mai così. Aziz ha avvertito anche i nostri amici in strada, loro raccogliere merce e andare. Come avevi detto tu.

    – Ho capito. Il nostro Aziz teme che vogliano farmi un cappotto ricamato di piombo appena metto il muso fuori.

    – Giusto.

    – Hai detto che sono in quattro?

    – Sì, capo. Due per moto.

    – Quattro figli di puttana, puoi metterci la firma.

    – Ok, ma tu devi dire che cosa fare noi con figli di puttana.

    Carmelo sospirò soffiando con il naso una nuvola di fumo.

    – Tu, intanto, rimani incollato nella guardiola. Io vado a controllare.

    Carmelo riagganciò. Con il pollice e l’indice dell’altra mano schiacciò la sigaretta sul muro e lasciò cadere la cicca per terra. Nel ritornare sui suoi passi si scoprì a dirsi che le sue capacità medianiche erano, come gli aveva rivelato un giorno il medium di San Giovanni La Punta, un dono del soprannaturale. Un dono per gente dura come lui.

    La tapparella alla finestra era metà alzata, i battenti chiusi. Carmelo scostò le falde della tenda e aprì le ante badando di non far rumore. Chinandosi, mise la testa nel riquadro, poi voltò la faccia verso sinistra e lasciò scorrere lo sguardo in basso, a cogliere lo scorcio di strada davanti all’ingresso del palazzo.

    Caschi integrali con vetri schermati, giubbotti di pelle e scarpe da tennis. Un branco di sinistrorsi su potenti BMW LK 1300 R. Si erano piazzati ai lati del portone d’ingresso chiuso. Le ruote anteriori, bloccate contro il frontone del marciapiede, tra loro convergevano verso il portone. I due davanti tenevano le mani strette alle manopole del manubrio, i piedi puntellati a terra. Quelli dietro poggiavano le suole sui pedalini, il braccio sinistro serrato intorno al busto del compagno davanti e la mano destra ficcata nella tasca del giubbotto. Uno di loro aveva una grossa borsa di ginnastica messa a tracolla. Carmelo avrebbe scommesso dieci contro uno che ci teneva dentro un fucile a canne segate, un mitra o magari un fucile a pompa. Arma di scorta che sarebbe saltata fuori al momento opportuno, per il colpo di grazia. Non ci pioveva. Come non ci pioveva che quelli erano sicari, ed erano lì per lui. Il loro brand image parlava chiaro: erano sagome in appostamento. Glielo confermavano quel fuggevole senso di familiarità che lui coglieva nei loro atteggiamenti e quella spiacevole sensazione di trovarsi tra le sottili ortogonali di un mirino.

    Lo sguardo di Carmelo si spostò lentamente sul furgone bianco parcheggiato lungo il marciapiede, alle spalle dei motociclisti. Lì dentro, attraverso piccoli fori praticati nella lamiera dello sportello sulla fiancata, Aziz, Omar e gli altri tenevano sotto mira i motociclisti. Carmelo percepiva la passione dei suoi uomini, un commando di cinque animali da combattimento da lui stesso addestrato, con armi d’assalto e tuta mimetica nera. La situazione era nettamente a vantaggio dei suoi uomini. Lui ne aveva creato le condizioni. E non poteva che esserne orgoglioso. Assaporò il momento sapendo che nel giro di pochi minuti là sotto si sarebbe scatenato l’inferno. E nel prefigurarsi l’imminente scenario di morte, fu investito da una botta di adrenalina.

    Carmelo venne via dalla finestra, compì qualche passo sul pavimento disseminato da cicche di sigarette calpestate, rottami di lattine di birra e lercio sudiciume, e raggiunse il tavolo da lavoro. Raccolse i proiettili che aveva lucidato con tanto impegno e li inserì nell’apposito vano. Con il caricatore inserito e il colpo camerato infilò la .45 nella cintola e ritornò nel corridoio.

    Staccò il ricevitore del citofono e premette il pulsante sul guscio.

    – Ti ascolto, capo – rispose pronto Zarak.

    – Fa’ il segnale ad Aziz. I quattro figli di puttana devono fare il botto. Non ci si presenta sotto casa dell’Anarchico in maniera così insolente. Tu, però, non devi bruciarti. Bada di non farti vedere in strada.

    – Ok.

    Carmelo chiuse la comunicazione e ritornò nella stanza. Protese una mano verso il telefono sul tavolo, sollevò il ricevitore e batté su tre tasti.

    – Polizia – risposero.

    – Buongiorno. Una cortesia. Dovrei rinnovare il passaporto ma non ricordo l’ufficio dove devo recarmi per fare la richiesta. Mi può aiutare?

    – Signore, scusi, lei chiama il centotredici per chiedere delle informazioni?

    – Chi dovevo chiamare, il centodiciotto?

    – Non faccia lo spiritoso, che non le conviene.

    – Stia calmo, agente. Le ho solo chiesto un’informazione e sono certo che lei può aiutarmi.

    Dall’esterno dell’appartamento alcune armi automatiche crepitarono tutte assieme. Impatti, colpi stridenti e raschianti.

    – Che sta succedendo? – gracchiò l’agente dall’altra parte del filo, mentre le armi da fuoco continuavano a far sentire la loro voce rabbiosa.

    – Non lo so. Sembrano petardi per la celebrazione della festa di Sant’Agata.

    – Ma che dice, la festa si è svolta il mese scorso.

    – Era per dare l’idea. Lei invece preferisce analizzare le parole come se fossimo al doposcuola. Attenda in linea, per cortesia. Vado a vedere che diavolo succede.

    Carmelo mollò il ricevitore sul tavolo e andò ad affacciarsi alla finestra.

    Non ebbe bisogno di sporgersi, stavolta. La scena si stava svolgendo nello scorcio di strada proprio lungo la verticale della finestra, tre piani sotto. Con i volti mascherati dal passamontagna, in mimetica da combattimento nera, armati da pistole a tiro rapido e mitra con caricatori ricurvi, il commando composto da cinque dei suoi migliori uomini avanzava camminando a semicerchio sulla carreggiata sparando contro uno dei motociclisti che correva a zigzag lungo la via per offrire meno bersaglio. Gli altri tre giacevano sull’asfalto davanti all’ingresso del palazzo, tra le moto rovesciate, dentro pozze di sangue nero.

    Il fuggiasco continuò a correre finché non fu colpito a una coscia. Crollò picchiando a terra, ma non sembrò perdersi d’animo. Strisciò come un verme, aiutandosi con l’altra gamba e lasciando sull’asfalto una scia rossa, dietro una vecchia Mercedes alcuni veicoli più avanti di una fila di cassonetti della spazzatura.

    Il commando si divise. Tre di loro si fermarono acquattandosi dietro ai cassonetti. Gli altri deviarono a destra e proseguirono lungo il marciapiede facendosi scudo delle sagome dei veicoli in sosta. Il motociclista distese il braccio armato oltre l’auto allineandolo al di sopra del cofano e cominciò a sparare in rapida successione contro questi ultimi avversari. A ogni colpo l’arma gli si impennava in pugno, scossa da un movimento sussultorio dei meccanismi di trascinamento. I bossoli fiottavano dalla camera di espulsione ballonzolando sul cofano e sulla carreggiata. Poi la culatta batté a vuoto e fu costretto a ripiegare dietro la sagoma dell’auto. Mentre i tre commando dietro ai cassonetti fecero partire un fuoco di copertura, gli altri due uscirono dai loro ripari. Si sistemarono i mitra sotto le ascelle e, avanzando imperterriti verso il loro avversario, cominciarono a sgranare i colpi: un’infilata di proiettili che colpì la Mercedes contorcendone la lamiera da sportello a sportello, fino a raggiungere la bocca del serbatoio della benzina. L’esplosione che seguì formò un ventaglio di fiamme: un pezzo di muro crollò sul marciapiede, il cofano e altri parti della carrozzeria della Mercedes vennero strappati via dall’onda d’urto che li proiettò in un volo verticale di circa venti metri. Per poi ricadere infuocati sul marciapiede e sulla carreggiata con un picchiettio osceno.

    Dal veicolo sventrato e dai rottami divelti si sviluppò fuoco e fumo. Nel silenzio innaturale che seguì, il corpo del motociclista era una poltiglia sanguinolenta.

    Carmelo si fregò le mani. Come in un magistrale scenario bellico ripreso da un elicottero che, in soggettiva del pilota, scende sulla strada e fa vedere gli effetti più crudi dello scontro, la via gli mostrava tutta la sua drammaticità. Fiamme e fumo color seppia. Rottami e macerie. Cadaveri e pozze di sangue nero. Dei quattro motociclisti non erano rimaste che le loro mummie su cui si posava la pallida luce della morte.

    Fine della storia.

    Con una calma olimpica, Carmelo venne via dalla finestra, raccolse il ricevitore del telefono e se lo portò all’orecchio.

    – Una carneficina – sentenziò.

    – Che intende dire? – chiese l’agente del centotredici.

    – Una sparatoria, giù in strada. In quattro sono rimasti a rosicarsi l’asfalto.

    – Ma cosa…

    – Gliel'ho detto, mister. Morti ammazzati. Sparati. Fatti secchi. Kaputt.

    – Intanto mi dica lei chi è.

    – Ai suoi ordini, mister. Mi chiamo Carmelo Spatafora. La sto chiamando da casa mia, via De Caro numero quindici, Catania.

    – Rimanga a casa, signor Spatafora. Tra poco i miei colleghi la raggiungeranno.

    – Ok, io non mi muovo. Ma lei non mi ha ancora detto che cosa devo fare per rinnovare il passaporto.

    – Continua a prendersi gioco della polizia?

    – E lei continua a non volermi rispondere.

    – Glielo faccio passare io questo spirito, sa?

    – Davvero? Perché non viene anche lei, allora? Così ci conosciamo di persona e chiariamo tutto.

    – Senta, lei…

    Carmelo interruppe la comunicazione. Afferrò il giubbotto dallo schienale della sedia e se lo infilò al volo. Prese l’ascensore e scese al pianterreno.

    Zarak era al suo posto. Magro, sguardo intelligente, naso aquilino, occhi infossati e capelli neri. Quando vide Carmelo si alzò, uscì dalla guardiola e gli venne incontro.

    – Tutto a posto, capo?

    Carmelo fece cenno di sì con il capo, poi si sfilò la pistola e gliela consegnò nelle mani.

    – Tieni, nascondila dove sai.

    Zarak mise l’arma nella cintola nascondendone il calcio sotto il golf e si allontanò nella direzione dove era arrivato Carmelo, che lo seguì con lo sguardo fino a quando non lo vide sparire per le scale che conducevano ai sotterranei del palazzo.

    Carmelo si avviò verso l’uscita, fermandosi davanti al portone chiuso. Con gesti lenti, a cacciare via la tensione e l’adrenalina accumulate, si passò le mani sui capelli, dall’attaccatura fino alla nuca. Poi emise un sospiro, aprì il portone e uscì.

    La via odorava di sangue, cordite, reagenti chimici e idrocarburi combusti. L’odore della violenza.

    La gente cominciava ad affacciarsi sui balconi e a farsi vedere anche in strada. Era come raggelata. Alcuni gironzolavano con la bocca aperta tra le macerie, portandosi ogni tanto le mani tra i capelli, per il raccapriccio. In preda allo shock, guardavano i cadaveri intorno a loro, le lamiere bucherellate dei veicoli, la Mercedes che svaniva inghiottita dalle fiamme, le nuvole di fumo che si arricciavano verso l’alto.

    Carmelo era al settimo cielo. I suoi uomini avevano raccolto la loro messe di sangue senza subire perdite. Il piano d’emergenza, ideato per neutralizzare eventuali killer che un ipotetico nemico avesse deciso di mandargli in qualsiasi momento, aveva funzionato alla grande. Ora doveva solo capire chi fosse il mandante di quei quattro sicari. Doveva assolutamente scoprirlo.

    Le macchine della polizia piombarono sul posto dai due imbocchi della via, trascinandosi dietro il consueto casino. Sirena a tutto spiano, stridio di gomme e arresto a sbandata. Per completare il quadro, gli agenti saltarono fuori dagli abitacoli come bossoli in eiezione rapida.

    Il solito teatro. Dopotutto, diamo a Cesare quel che è di Cesare, pensò Carmelo.

    Appoggiato alla fiancata di una vettura, a braccia conserte, accanto a un cadavere la cui schiena crivellata di proiettili era ridotta in poltiglia, se la rideva di tutto gusto. Quando vide lo sbarramento di poliziotti che si avvicinava urlandogli di non muoversi, alzò le mani per aria, in un gesto plateale, e disse:

    – Ehi, calma, calma, ragazzi, che non sono un bandito rimasto sul campo giusto per farsi arrestare da voi.

    – Allora dica lei qual è il suo ruolo in questa faccenda.

    La voce arrivò alle spalle di Carmelo. Roca, dura. Inconfondibile.

    Marco Ranno.

    – Ruolo? – rispose Carmelo girandosi. – Che ruolo? Ho sentito sparare e sono sceso in strada. Non c’è altro da dire. Per giunta stavo parlando con un vostro collega al telefono.

    – Già! Che come minimo presenterà querela nei suoi confronti per l’arroganza con cui gli ha parlato.

    Ranno aveva la solita faccia da duro, celata dietro una barba ormai screziata di bianco. L’occhio di lince, quello, era sempre uguale.

    – Andiamo, arrogante! – ribatté Carmelo. – Se mettete degli imbecilli a rispondere al telefono non è mica colpa mia. Gli ho soltanto chiesto dove si trovava l’ufficio per rinnovare il passaporto.

    – Al centotredici lo chiede? Di

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