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Stazione omicidi. Vittima numero 3
Stazione omicidi. Vittima numero 3
Stazione omicidi. Vittima numero 3
E-book398 pagine5 ore

Stazione omicidi. Vittima numero 3

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Scampato a una faida tra bande criminali rivali per il controllo del traffico di droga a Roma, Flavio Gambari regna ormai su un piccolo impero. Al  suo  fianco  Marzia,  la  sua  compagna; Vasile, il suo braccio destro, che viene dalla schiavitù dei campi nomadi, e Jean Luc, un anziano gangster marsigliese che ha guidato i suoi giovani amici nel loro apprendistato criminale. Alla minaccia a cui ormai Flavio e Vasile sono sfuggiti, si è ora sostituita un’altra, ben più preoccupante: l’ultimatum ricevuto da una gang che sta molto più in alto di quella di Flavio. La furia omicida che sta mietendo vittime in città rischia di concludersi in un bagno di sangue, senza vinti né vincitori. E nel frattempo la polizia è sulle loro tracce e sembra sul punto di porre fine alla loro inarrestabile ascesa...

Autore bestseller
Finalista al Premio Strega
Uno dei migliori scrittori italiani nel suo genere

Hanno scritto dei suoi libri:

«Con l’istinto del grande cronista, Massimo Lugli ha trasformato in romanzo il mondo di “mafia capitale”»
il Venerdì

«Lugli è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

«Lugli ha fiato narrativo, ha tenuta, appassiona.»
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 ore

«Marco Corvino, un personaggio che, fossi nel mondo delle fiction, terrei d’occhio.»
la Repubblica
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1 e Vittima numero 2, nella collana LIVE, La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2016
ISBN9788854194434
Stazione omicidi. Vittima numero 3

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    Anteprima del libro

    Stazione omicidi. Vittima numero 3 - Massimo Lugli

    PARTE PRIMA

    Ecco, io farò venire contro di te degli stranieri, i più violenti fra le nazioni ed essi sguaineranno le spade…

    Ezechiele, 28, 7

    Capitolo 1

    Tre mesi prima

    Marzia tira su col naso e s’asciuga la lacrima macchiata di blu. Il cameriere del bar Fleming le dà una sbirciata tra il curioso e il compassionevole. Così gnocca, così triste. Se potesse, ci penserebbe lui a consolarla come si deve, ma Francesca si gira con la sua miglior espressione da bullmastiff incazzato e lo fa battere in ritirata, improvvisamente attentissimo ai bicchieri vuoti in equilibrio sul vassoio.

    «Allora che vuoi fare?», miagola Francesca zuccherosa come una tortina Fiesta. Se solo non avesse giurato di star zitta… Altro che gossip, quella è la servata del secolo.

    «Magari lo sapessi… È la domanda da un milione di dollari». Marzia si consola con una bella sorsata di spritz e accende una Marlboro light.

    «Non dovresti fumare…».

    «Cazzo, falla finita. Non so ancora se lo tengo…». Francesca abbozza e torna in modalità amica-comprensiva-che-ascolta.

    «Perché non glielo dici e basta?»

    «Perché lo conosco. E lo amo da morire. Non voglio incasinare tutto».

    «Se s’incazza vuol dire che lui…».

    Marzia la stoppa come un arbitro che decide un rigore. Cartellino rosso.

    «Tu non lo conosci. È completamente fuori. Non ragiona come la gente normale, non sai mai quello che pensa o cosa farà. Magari mi si butta al collo, mi giura eterno amore e corre a comprare l’anello di fidanzamento, magari dà di matto e mi mena, io…».

    «Ti mena?», inorridisce Francesca mentre pesca una sigaretta dal pacchetto di Marzia. Non è lei che deve starci in campana. Neanche con l’alcol, se è per questo e infatti si è già scolata il secondo Negroni e comincia a veleggiare verso la beatitudine cosmica.

    «Dicevo per dire… No, con me non ha mai alzato le mani. Non è un violento, cioè, se perde la brocca diventa una furia ma non con me… Mai successo, magari urla ma neanche uno schiaffo».

    «Di quanto sei?»

    «Cinque settimane, ho fatto il test a casa e quello in laboratorio».

    «Sarebbe una cosa facile».

    «Lo so… Ma non so se voglio».

    «Prova a parlargli, no? Al limite decidete insieme».

    Marzia sospira e si domanda se ha fatto bene a confidarsi. Ma a qualcuno lo doveva dire, sennò scoppiava. Lei e Francesca si conoscono dai tempi del liceo, prime canne insieme, chiacchiere fino alle quattro del mattino, descrizioni minute e dettagliatissime sulle pomiciate coi filarini e tutto il resto, amicizia da Tre metri sopra il cielo. Il problema è che non si vedono da un sacco di tempo e magari, nel frattempo, France è diventata Madame Gossip e cura un blog di servate.

    «Oh, mi raccomando, segreto assoluto», salta su Marzia. Francesca si porta l’indice alle labbra con aria offesa.

    «Sono una tomba».

    E io sono Lady Gaga, rosica Marzia tra sé, ma ormai è andata e l’ha detto. Poteva pensarci prima, se aveva così strizza dei pettegolezzi.

    «A volte penso di farlo da sola e non dirgli niente, m’invento qualche stronzata con i miei e vado in clinica… Conosco una ginecologa a Villa Margherita e farebbe tutto lei», bela.

    «Ma non si fa solo in ospedale?»

    «Sì, ma ’sta tizia lavora anche al Fatebenefratelli. Farei in day hospital. Flavio non lo saprebbe mai».

    «Non mi sembra giusto, però».

    «Neanche a me… E, Francesca, ho una voglia matta di tenermelo… Mi vengono in mente tante di quelle cazzate… Cambio idea ogni dieci minuti, sto completamente fuori, perdo le cose in continuazione, m’incazzo per niente, ieri a momenti beccavo un tizio sulle strisce con la macchina. Se continuo così, va a finire che lo scopre da solo».

    «Magari è quello che stai cercando di ottenere». Francesca alza un dito, con aria giudiziosa.

    «Cos’è, l’ora dello psicologo? Stai facendo un corso di counseling per corrispondenza?».

    Le due amiche ridacchiano, in un afflato di complicità femminile. Francesca mette la mano su quella di Marzia e l’accarezza.

    Occhiata in tralice del cameriere: saranno lesbiche? Il gazebo di legno sul marciapiedi della Flaminia è quasi pieno. Solo le sette e mezzo di sera, in pieno happy hour. Le due ragazze collezionano una quantità di sguardi bramosi, ma nemmeno se ne accorgono.

    «Che devo fare… cazzo, che devo fare?», sospira Marzia per l’ennesima volta. Francesca riesce a sbirciare il Piaget di sguincio: tra mezz’ora ha un appuntamento on line col tizio che ha conosciuto su Meetic e magari stavolta si deciderà a chiederle di uscire. Time over.

    «Tesoro mio, lo sai da te. Diglielo. Se non gliene parli lo rimpiangerai per sempre. Siete in due, no?»

    «Già, siamo in due… Di solito i bambini non si fanno da sole».

    Marzia raccoglie il conto e tira fuori il portafogli. Francesca fa per opporsi più per scena che per altro ma si sta già alzando.

    «Lascia, ti ho invitato io… Be’, grazie di tutto». Anche Marzia si alza, gli occhi di un lampadato sulla cinquantina con mignottone al seguito incollati alle chiappe.

    «Grazie di tutto, France…».

    «E di cosa? Non ti posso consigliare, Marzia, posso solo starti vicino».

    «Di avermi ascoltato».

    «Le amiche ci sono per questo».

    «Ti faccio sapere».

    «Ci conto. Chiama domani».

    Altri due bacetti a vuoto, poi Francesca s’infila il casco e sale sulla Vespa, pronta a battere ogni record del chilometro lanciato su via Vigna Stelluti. Marzia apre la portiera della Smart, ancora più depressa di prima e si ripete il domandone.

    «Che devo fare?».

    Via di Torrenova, esterno giorno. La vecchia borgata macera di caldo, le palazzine dalle tinte spente e disuguali, rosa tenue, verde sbiadito, giallo pallido sembrano sudare sotto il sole a martello. In lontananza, sulla sinistra, i grandi rettangoli di cemento dei palazzi popolari di Tor Bella, coi loro festoni multicolori di panni stesi ad asciugare che penzolano dalle corde plastificate come bandiere stanche.

    Per Gregorio Hamidovich, quello è il regno da conquistare. E come ogni bravo generale, prima dell’offensiva campale, si è dato il tempo di un sopralluogo. Farsi vedere a via dell’Archeologia, per il figlio di Mustata, il capoclan invalido dei khorakhanè, sarebbe una sfida in piena regola e quindi non si è ancora avventurato oltre il confine invisibile dove le vedette della coca, appostate sui tetti o sui balconi, potrebbero avvistarlo e lanciare l’allarme. Per oggi, Gregorio resta nella zona neutra della borgata confinante, il resto verrà a suo tempo, inshallah.

    Ibrahim arriva puntualissimo, in sella a un Honda Vision che sembra uscito da uno sfasciacarrozze di Hanoi. Pelle nera, cuore biancoceleste. Il negro spacciatore della paranza del Chiodo, al secolo Christian Abate, uno dei tanti cavalli di piccolo e medio livello rimasti senza capo, visto che er Chiodo sta contando i giorni che dovrà passare al gabbio, nell’attesa di un nuovo colloquio col GIP, dopo essersi fatto blindare per un ferro clandestino inguattato sotto una mattonella di casa. Mentre il numero uno si lambicca il cervello alla ricerca di qualche infamata che possa farlo uscire alla svelta ma, possibilmente, gli eviti di essere addobbato appena torna in zona, la gang s’è praticamente disgregata e Ibrahim, come tanti altri, è rimasto su piazza in attesa di un ingaggio. L’ufficio di collocamento degli spacciatori, in zona sud di Roma, è sempre in attività. Et voilà, Gregorio.

    «Ma te regge, quel coso?», lo zingaro indica il motorino che sembra uno schizzetto da sedicenni o da vietnamiti con moglie e figlio sul sellino. «Non ti ci schianti?»

    «Stai a scherzà? Gli ho cambiato testacilindro, me pija i 130», gongola Ibrahim che, due sere prima, ha incassato cento euro per una sfida con un SH modificato a Corso Francia. «Nun pesa un cazzo, si je do a tutta battuta me parte da sotto er culo». Gregorio dissimula il disprezzo dietro un’espressione interessata: giocattoli da pischelli, un uomo va in macchina, altro che quegli aggeggi.

    «Prendi il caffè?», propone tanto per togliersi dal sole.

    «Offro io, zona mia», risponde educatamente Ibrahim senza accorgersi della gaffe. Quella zona, tra poco, sarà tutta degli Hamidovich. Anche lui del resto, ma ancora deve entrare nell’idea.

    Due caffè con schizzo di mistrà, colazione dei campioni.

    «Allora, che me dici?». Hamidovich decide che i convenevoli sono durati abbastanza.

    «Ce posso sta, Gregorio… Ma non voglio fare questione con gli altri», tentenna Ibrahim. Nel suo paese, a quest’ora, la maggior parte dei suoi compatrioti si sta inginocchiando sui tappetini di preghiera rivolti alla Mecca, lui è nato in borgata, non sa una parola d’arabo a parte Ibn sharmootah, figlio di puttana, e non ha la minima idea di cosa sia la ṣalāt. Gregorio è un khorakanè, la gente del Corano, ma dell’islam non potrebbe fregargliene di meno. Quindi sono pari.

    «Quali altri, Ibra’? Canesecco e er Coratella hanno stirato le zampe, er Chiodo sta ar gabbio a contare le gallinelle che gli appiopperanno, non hai più nessuno con cui questionare», elenca implacabile.

    «Be’, c’è Rocco, er Zagaja… Er Banana, insomma, gli altri, che je dico?»

    «Niente, che gli devi dire? Tu ti fai i cazzi tuoi e t’assicuro che svolti. Gli altri… Non ci pensare, compà, vedrai che faranno come te».

    Traduzione: ti metti con noi e hai tutto da guadagnare. Fai lo stronzo e ti ritrovi con più buchi di uno scolapasta, la musica è cambiata. Ibrahim capisce il latino.

    «Vabbè, a Gregò, me fa piacere da lavorà con te…», cede il maghrebino che, in effetti, alternative non ne ha. «Ma si ce so’ casini ce pensi tu?»

    «Naturale».

    «Quanno cominciamo?»

    «Subito».

    «Cioè? Ce l’hai?»

    «Sicuro… Mica so’ er Chiodo io, non mi va di perdere tempo. ’Namo».

    Ibrahim segue il rom, sull’asfalto che sembra bollire, fino alla sua Classe C. La carrozzeria blu notte riverbera barbagli accecanti, dentro dev’essere un forno crematorio. Gregorio indica la macchina con un gesto eloquente come a dire: se fai il bravo potrai comprartene una anche tu, altro che quel trabiccolo da zammammero.

    «Aho, co’ ’sto sole la roba te se squaja… Te strafai senza manco pippà, solo a stacce dentro, ne la machina», scherza Ibrahim che sente già l’acquolina in bocca.

    Gregorio sbircia veloce ai quattro punti cardinali, apre il cofano, tira fuori una busta di plastica di quelle dei supermercati per metterci i surgelati.

    «Mezzo chilo per cominciare, pura al settanta per cento, colombiana DOC…», magnifica mentre Ibrahim s’affretta a far sparire la busta sotto la maglietta inzuppata di sudore. «Poi steccà cinquanta grammi ma niente tagli».

    «Niente tagli?». Ibrahim non ha mai sentito una stronzata del genere. Con cinquecento grammi a quel livello potrebbe rimediare minimo quattro chili e i clienti si butterebbero comunque a pecorone per la gratitudine. Altro che pura al settanta per cento.

    Il rom gli legge nel pensiero. Non per niente è venuto di persona e non ha mandato quel coglione di suo fratello, buono solo a combinare casini.

    «Adesso la spigni così, fratè», spiega pazientemente. «È estate, la gente sta in vacanza, chi resta cerca dove capita. E deve capità da te, Ibrahim, se ce sai fare. Chi rimedia la mejo coca de Roma, torna da te, ce manna altri e tra un po’ c’hai un giro che er Chiodo manco se lo sognava… Tra qualche mese, magari, cominciamo con qualche taglio un po’ più pesante ma per ora no. Offerta promozionale. Ci siamo capiti?»

    «Preciso, Gregò, niente tagli, la spingo com’è e me stecco i cinquanta», riepiloga doverosamente Ibrahim. Gli piange il cuore ma sa che fare una paraculata è fuori questione. Nei prossimi giorni, gli Hamidovich, di sicuro, manderanno in zona i loro ispettori, a comprare qualche stecca e assaggiarla. Se beccano roba zozza o troppo gonfiata, addio Ibrahim, quindi, come diceva il tizio in TV mezzo secolo fa, non capisce ma si adegua.

    «Quando se vedemo, Gregò?», Ibrahim brucia di prescia, adesso. È fuori zona, con mezzo chilo addosso. Pessima situazione. Se lo beccano le guardie o quegli infami dei vigili dell’VIII gruppo, addio core.

    «Tra ’na settimana, sempre qui… M’aspetto grandi cose, negro. Oh, me raccomando…».

    E il figlio di Mustata rimonta in macchina per andare a spiegare al padre che la faccenda è partita alla grande. Ibrahim ficca la coca sotto la sella del Vision e parte come un furetto col pepe al culo, smanettando a centoventi su via di Tor Bella per l’incazzatura: del negro se ne fotte, ci è abituato e qui in zona, dove nessuno sa che vuol dire politically correct, ma vive spalla a spalla con gli immigrati da anni, è perfino affettuoso ma quel niente tagli gli è rimasto di traverso sul gargarozzo.

    «Mi spiace Bruno… sul serio».

    Gianni Cairo esita un attimo prima di posare la mano sulla spalla del suo uomo di punta. L’ispettore è una bomba a orologeria, con un grugno da spavento e una carica di TNT a fior di pelle sotto la simil Lacoste inzuppata di sudore, potrebbe esplodere o mettersi a piangere come niente.

    Invece Bruno Pelizzi manco se ne accorge, perso nei suoi fantasmi.

    «Prenditi qualche giorno… per sistemare le cose», incalza Cairo, comprensivo.

    «C’è poco da sistemare, dottore. Pensano a tutto quelli dell’ospedale e delle pompe funebri. Preferisco restare in servizio, grazie».

    Cairo annuisce e disapprova in silenzio. Un ispettore della narcotici incazzato come un bufalo e distrutto per la morte del nipote, a caccia di spacciatori in una città devastata da una guerra di mala è come un rinoceronte sbronzo in una fabbrica di lampadari, ma non può mandarlo in ferie forzate d’imperio, ergo abbozza.

    «Quando è il funerale? Ci voglio venire…».

    «Lunedì, credo, le faccio sapere…».

    Il guaio delle conversazioni post decesso è che, dopo un po’, nessuno sa cosa dire. Di solito si rimedia magnificando le virtù del caro estinto ma l’unica virtù del fu Giorgio Pelizzi, di anni venticinque, era quella di spappolarsi il fegato e tutto il resto a forza di chicche, quindi l’argomento è off limits e Gianni Cairo si limita a scuotere la testa tristemente e ad allungare un’altra, goffa pacca sulla spalla di Pelizzi, con lo stesso risultato di prima.

    «Sa che m’ha detto, il medico?». L’ispettore parla più a se stesso che al funzionario e Cairo, di spalle, non può vedere che gli luccicano gli occhi. «Aveva il fisico di un ottantenne. Un ottantenne, si rende conto? Se l’avesse visto solo quattro anni fa, quando pattinava… Stavano per prenderlo per le selezioni regionali e invece s’è fottuto con quelle chicche del cazzo».

    Cairo annuisce come una nonna amorevole.

    «Cinquantadue chili. Cinquantadue chili pesava. Ed era oltre 1,80…».

    Cairo fa cenno di sì con la testa e si augura con tutto il cuore che squilli il telefono. Qualunque cosa pur di non doversi sorbire la giaculatoria e l’elenco completo dei sintomi dell’overdose da Vertigo.

    «…Non aveva più capelli. E gli erano rimasti sì e no dieci denti… La pelle, dotto’, doveva vedere la pelle. Sembrava una lucertola tant’era squamata… Il fegato era grosso il doppio del normale».

    Cairo pensa che tanto valeva leggere il referto dell’autopsia. E comunque anche la solidarietà coi subordinati ha un limite, specie con trentasette gradi all’ombra e il condizionatore in sciopero. Pelizzi, se non altro, può andarsene in giro sbracato come gli pare, lui si sta squagliando nel completo di lino.

    «Ti capisco, Bruno, sul serio… Se posso fare qualcosa…».

    Pelizzi gli pianta in faccia due occhi da labrador come se quella frase di circostanza fosse una promessa di sangue.

    «Li becchiamo, dottore… Mi metto in pista e giuro che li becchiamo».

    Il funzionario sospira in cerca di una risposta diplomatica. Pelizzi era già fissato prima, figuriamoci adesso che il nipote ha tirato il calzino.

    «Certo, Bruno, certo che li becchiamo. Ma adesso cerca di stare un po’ più tranquillo, devi pensare alla famiglia…».

    «Quale famiglia, cazzo? L’unica famiglia di Giorgio ero io…».

    … e non l’ho saputo proteggere. Ho solo guardato mentre crepava.

    Bruno Pelizzi infrange il galateo poliziesco e si alza senza essere stato congedato, con gran sollievo del superiore. Non ha più niente da dire.

    I due uomini si stringono la mano severamente e fanno il gesto di abbracciarsi, toccandosi appena le spalle pro forma.

    «Allora, Bruno, mi raccomando, fammi sapere per il funerale».

    Bruno Pelizzi annuisce, anche se del funerale se ne fotte e preferirebbe di gran lunga che il nipote finisse cremato alla svelta, senza doversi sorbire tutte le stronzate.

    Requiescat in pace, amen. Risplenda a lui la luce perpetua. E chi ci crede più?

    Per lui l’unica cosa che conta è blindare chi ha messo quella merda in mano a Giorgio. E non ha bisogno di grandi strategie investigative, intercettazioni, pedinamenti e tutto il resto: chi ha ammazzato suo nipote ha un nome e un cognome. Flavio Gambari.

    La Prius si ferma dopo un tragitto di soli tre quarti d’ora, molto più breve che all’andata.

    Jean Luc non può trattenere un brivido. Buio totale, la mascherina e gli occhiali neri sono impenetrabili, neanche un barlume di luce.

    È il momento in cui potrebbero sparargli. Un colpo alla nuca, il cadavere buttato in una marrana o seppellito in una fossa e la sua carriera di ex gangster della Banda delle tre B, ex barbone, ex assassino a pagamento e attuale consigliere del gruppo di Vertigo finisce qui. Dopo quello che ha sentito dalle labbra del Prudente, potrebbe anche essere.

    Visto che non può fare assolutamente nulla, bendato com’è, il marsigliese si prepara a morire com’è vissuto: senza pensarci troppo.

    Agim, sul sedile posteriore, vede le spalle di Jean Luc irrigidirsi leggermente e si gode il momento: in fondo anche Jean Luc ha qualcosa di umano, dopo tutto. Poi si decide.

    «Siamo arrivati».

    Il francese esita qualche secondo, poi si leva occhiali e mascherina. La luce è un cazzotto dritto nelle pupille. Sbatte le palpebre e poi, molto lentamente, apre la portiera e scende. Piazza Esedra è il solito casino di traffico, smog, buche, eterni cantieri, ambulanti abusivi e tutto il resto. Per un attimo gli sembra il paradiso.

    Agim sfodera il suo miglior sorriso da iena.

    «Ci si vede, francé…».

    «Ci si vede, albanese. Grazie del passaggio». La Prius fruscia via, spinta dal motore elettrico e il marsigliese ha una fugace visione della nuca del guidatore, lo stesso nordafricano che l’ha accompagnato all’andata e che non ha mai aperto bocca.

    Jean Luc s’incammina verso via Volturno, la pensione di Gao, il cinese che tiene i contatti con Vasile e, tramite il romeno, con gli altri del gruppo. Nessuno conosce il numero del cellulare segretissimo, che cambia scheda ogni mese e che usa al massimo tre o quattro volte all’anno, neanche gli amici più stretti. Per contattarlo, Flavio incarica Vasile di lasciare un messaggio a Gao e, un’ora, un giorno o una settimana più tardi, il marsigliese si presenta all’improvviso nella villa dell’Infernetto dove Gambari vive col romeno e Felipe, il maggiordomo che tiene i contatti con i fornitori all’ingrosso di Chrystal Meth, la sostanza base da cui si ricava la nuova bomba chimica che sta completamente stravolgendo la piazza di Roma: Vertigo.

    Formula segreta, un canale di rifornimento dall’Estremo Oriente che nessuno conosce, un gruppo di spacciatori di strada strutturato a compartimenti stagni, sul modello delle Brigate Rosse. Un’organizzazione impenetrabile, professionale, efficientissima per un business che ha cambiato il panorama della droga nella capitale. La coca è in declino, l’eroina una faccenda da vecchi tossici irriducibili, le altre chicche non le vuole più nessuno: solo il fumo regge, col suo mercato trasversale di nicchia, ma sono spiccioli.

    Incassi da multinazionale, profitti in ascesa costante anche perché Vertigo non perdona: dopo quattro o cinque chicche ci sei dentro fino al collo e per sempre. Giorgio Pelizzi, il nipote di Bruno, ne sapeva qualcosa.

    Un meccanismo perfetto fino a poche ore fa, e adesso cambia tutto. E il marsigliese si domanda come farà a far ingoiare quello che ha appena sentito a Flavio. Impulsivo e irascibile com’è, il ragazzo può dare di matto, e sarebbe una catastrofe.

    All’improvviso, Jean Luc sente la gola secca come una pietraia ed entra in un bar, sotto i portici della piazza, a bere un’orrenda mistura caramellosa spacciata per tè freddo. Ma, sete a parte, ha bisogno di una pausa per schiarirsi le idee e fare il punto della situazione con se stesso, prima che con gli altri.

    Il Prudente ha parlato e la sua parola è legge.

    Un arbitrato di mala non è una faccenda semplice e non va mai preso sottogamba, sempre se hai deciso di continuare a vivere. In sostanza ci rimettono tutti tranne chi giudica.

    Jean Luc rivede la figura del nano sprofondata nella poltrona, col suo bel vestito di lino, cravatta e pochette in tinta, la bocca che sembra un taglio, gli occhi da crotalo. Tutto s’aspettava meno che un mezz’uomo da un metro e cinquanta centimetri, che irradia potere e pericolo come un’aura e parla come un magistrato di Cassazione. Nella sua lunga vita di bandito, solo questo gli mancava e adesso che l’ha visto potrebbe anche morire.

    Il Prudente. Una figura leggendaria, l’unico, vero burattinaio della mala capitolina, anche se molti, tra narcotrafficanti, spacciatori al dettaglio, biscazzieri, truffatori, magnaccia, usurai, barabba, zammammeri, rapinatori, ladri, falsari e magnaccia sono pronti a giurare che non è mai esistito, è crepato da un pezzo o si è ritirato.

    Il Prudente che vive in una villa trasformata in un fortino sull’Appia Antica, che dispone di decine di nascondigli segreti come quello da cui proviene il francese (ed è già un gran bel culo che sia tornato), che ascolta istanze, dirime questioni, giudica arbitrati. Sopravvissuto alle guerre di gang senza mai schierarsi, ha visto la calata dei Marsigliesi, l’ascesa della Magliana, la faida di sangue col clan dei Proietti, l’implosione della gang del Freddo, Dandy, er Secco e gli altri tra arresti e omicidi, i sequestri e le sparatorie di Lallo La Belva, la follia assassina di Johnny Lo Zingaro, le irruzioni degli ex terroristi rossi e neri riciclati in commando da rapina, l’arrivo di cellule di camorra, ’ndrangheta e Cosa Nostra, gli investimenti delle cosche russe, delle Tong cinesi e delle organizzazioni maghrebine, nigeriane, albanesi, romene e polacche, la graduale trasformazione del milieu, la divisione di Roma in quadranti e fette di profitto, il grande business degli appalti e della corruzione, l’inchiesta su Mafia Capitale che, sostanzialmente, ha lasciato tutto come prima. Tutto.

    Il Prudente non si è mai fatto coinvolgere. Non ne ha bisogno ma non c’è affare da cui non abbia rimediato, in qualche modo, la sua percentuale. I suoi contatti sono a livello inimmaginabile, il suo piccolo esercito è composto da un pugno di professionisti formati in guerra e da un reggimento di carne da cannone che prende ordini senza neanche immaginare da dove arrivino. Mai arrestato, mai denunciato, mai sospettato se non a livello di barbe finte, dove il fascicolo col suo nome è protetto da un impenetrabile segreto di Stato. Senza il Prudente, il panorama criminale di Roma sarebbe completamente diverso e, forse, è proprio grazie a lui che nessuno è mai riuscito a prendere le redini di una mala anarchica, sanguinaria, sbrasona, acefala, indomita. Quando qualcuno arriva troppo in alto, come nel caso di Franco Giuseppucci, Marcello Colafigli, Maurizio Abatino e compagnia, la caduta è inevitabile e rovinosa. Uno solo deve regnare, anche se nell’ombra e in incognito.

    «Ciao flancese».

    «Ciao, cinese… Come va la zampetta?».

    Gao si porta la mano alla coscia dove il pugnale di Hernan Alvarez gli ha squarciato il muscolo, pochi giorni prima che Jean Luc uccidesse lo zingaro spagnolo. Una vecchia questione personale che poteva finire solo nel sangue. È passato poco più di un mese ma sembra un secolo.

    «Bene adesso, gualisce. Dottole culato con agopuntula, moxibustione, On Son Zu, medicina tladizionale», sorride Gao che ancora si domanda chi cazzo glielo ha fatto fare di correre in aiuto di Jean Luc con la sua mannaia per tagliare le verdure, a rischio di lasciarci la buccia. Comunque, ormai è fatta. La gamba, più o meno, funziona e il francese sa come mostrarsi riconoscente.

    «Vuoi mangiale?». Il fatto che siano le quattro e mezzo del pomeriggio non sembra minimamente un problema per Gao: i suoi ospiti mangiano e dormono a turno a qualsiasi ora, prima di tornare a infilarsi come topi nei ristoranti, nei laboratori, nelle sale massaggio o nelle bische clandestine per i loro turni di quindici, sedici ore al giorno.

    «Grazie Gao, oggi non ho voglia di serpente fritto. Vado un po’ di fretta».

    «Neanche tè?»

    «Davvero, amico… Come se avessi accettato. Ci sono messaggi per me?»

    «Lumeno passato due volte».

    Jean Luc dà una scorsa ai bigliettini, nell’elementare codice criptato del romeno. Vieni.

    Flavio e gli altri devono stare sulle spine e ne hanno tutte le ragioni. Ancora una volta, il marsigliese si domanda come farà a fargli ingoiare quel boccone di fiele.

    Maurizio Loca tenta di rilassarsi sotto il getto bollente della doccia e, malinconicamente, si prepara a fare la conta delle contusioni, abrasioni, lividi e ammaccature che costellano il suo corpo lungo e secco, da fenicottero. Un fenicottero abbacchiato.

    A cinquantacinque anni suonati, la boxe, anche se a livello amatoriale, non è lo sport ideale e Loca si domanda se non sarebbe il caso di passare a qualcosa di più adeguato tipo bocce, scacchi o battaglia navale ma, visto che un giornalista passa tre quarti del suo tempo col culo incollato alla sedia e lui ci tiene a mantenersi in forma, ha deciso di tornare ad allenarsi. Pessima idea, come quella di fare un po’ di sparring leggero leggero, con quel testa di cazzo gasato che poteva essere suo figlio. Risultato: gancio alla mascella, diretto allo stomaco, jab sul grugno, sorgozzone al bersaglio grosso, sventola dietro l’orecchio che sta assumendo la forma e le dimensioni di un cavolfiore… E meno male che ha chiuso con l’onore delle armi, senza andare al tappeto o gettare la spugna. Lo stronzo ha avuto perfino la sfrontatezza di fargli i complimenti per come combatte alla sua età.

    Mentre si avvolge nel grosso asciugamano di spugna targato Ikea, Maurizio pensa a come si sentirà domani e si affretta a rovistare nell’armadietto dei medicinali alla ricerca di una dose da rinoceronte di arnica che ovviamente, nell’arcipelago di flaconcini tutti uguali contrassegnati da un nome latino, preoccupanti contenitori di pillole ayurvediche e tubetti di pomate d’erboristeria scaduti, non riesce a trovare. Merda.

    Un’endovena di Voltaren, ecco cosa gli ci vorrebbe ma quando hai lasciato la medicina allopatica per quella olistica non puoi cambiare bandiera e Maurizio Loca è un uomo di saldi principi.

    Tanto per non mettersi a rimuginare sulla strapazzata che si è beccato nella palestra di Fiermonte, ai Parioli, Loca decide di concentrarsi sul lavoro. Niente di buono sotto il sole neanche su questo fronte.

    L’inchiesta su Vertigo è in stand by. Due puntate piene di allusioni, insinuazioni, sospetti ma il piatto forte deve ancora arrivare. Il reportage è uscito, con perfetto tempismo, poco prima delle regionali. La campagna elettorale del «Tempo» a favore del centrodestra che puntava tutto sulla sicurezza: città allo sbando, faide criminali, strade imbrattate di sangue, giovani falcidiati dalla droga, le borgate come il Far West e tutto il repertorio di stronzate dei luoghi comuni. Naturalmente è stato un buco nell’acqua: i Cinquestelle hanno vinto alla grande, il PD ha preso una batosta memorabile e la destra, lacerata dalle divisioni e dalle impuntature di Fratelli d’Italia, è rimasta al palo. Risultato scontato in partenza ma non per questo meno deludente. Maurizio Loca ancora si domanda se qualcuno, in direzione, credeva veramente che le quindicimila copie scarse del «Tempo» potessero fare la differenza.

    A ogni modo, la vita continua, the show must go on e a Maurizio tocca inventarsi una terza puntata, direttore dixit. Con una nuova tornata di cassa integrazione in arrivo, dire di no equivale più o meno a mettere la testa sui binari della linea Roma-Milano e aspettare l’arrivo del Frecciarossa.

    Il problema è che per scrivere un pezzo ci vogliono le notizie. E Loca non sa da dove accidenti cominciare.

    Mentre s’infila i jeans e la maglietta che costituiscono, da sempre, la sua tenuta estiva da ufficio (quella invernale è più o meno la stessa con l’aggiunta di maglione e piumone) Maurizio decide di iniziare ab ovo, quindi dalla fonte che gli ha dato il primo spunto e cerca il numero di Bruno Pelizzi.

    Capitolo 2

    «No, cazzo, non ci sto…».

    Flavio schizza in piedi dal divano e si mette a camminare avanti e indietro, nel salotto, come una tigre in gabbia, i capelli biondo grano scarmigliati, gli occhi verdi che mandano lampi, il corpo snello e atletico che sembra scosso da scariche di elettricità come quello di un condannato sulla vecchia sputascintille.

    Jean Luc, gambe accavallate, bicchiere di Bushmill davanti, non muove un muscolo. Si aspettava di peggio.

    Vasile, un po’ imbolsito, le spalle cadenti, l’aria attonita, sembra inebetito. Tutto, nella sua espressione, nella posizione del corpo, nello sguardo che fissa il vuoto dice cinque parole: era troppo bello per durare.

    Felipe… Felipe non fa testo. Non dispone di mimica facciale e, come al solito, non fiata mentre va e viene dalla cucina con un vassoio carico di stuzzichini. A guardarlo, si potrebbe pensare che Flavio, il marsigliese e il romeno stiano concionando sulla formazione della Roma, per quanto sembra coinvolto. Eppure c’è dentro anche lui fino al collo anzi, probabilmente, più degli altri visto che è il terminale ufficiale del flusso di Chrystal Meth dalle Filippine. Senza di lui finisce tutto.

    Ma forse è già finita.

    «È finita, merda…», rincara Flavio. «Quello stronzo vuole toglierci tutto».

    Se c’è una cosa che il francese ha imparato nelle sue sessantaquattro primavere di vita è che interrompere uno sfogo emotivo non serve a niente. Quindi aspetta che finisca.

    «…Noi abbiamo creato Vertigo», ruggisce Flavio. «Ce la siamo inventata. Abbiamo trovato

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