Il quarto giorno
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Anteprima del libro
Il quarto giorno - Lucia Amorosi
633/1941.
Prefazione
Fin da bambina ho ascoltato le storie della mia famiglia, raccontate dai parenti e immortalate in tante foto in bianco e nero: vecchi ritratti in posa e polaroid scolorite. Seguivo affascinata mio nonno che, mentre mi insegnava a dipingere (come ha fatto con tanti nipoti prima di me), mi parlava della sua vita. Il destino lo aveva portato lontano dal paese tanto amato, e allora lui lo ritraeva a memoria
nei suoi quadri, raccontandolo con colori accesi nel vecchio castello appollaiato sulla montagna, nella chiesa con davanti una processione di fedeli, nella spiaggia ombrata dalle nuvole e nel mare calmo con le barche da pesca.
Mi sono sempre sentita molto vicina a quei parenti, anche a quelli più lontani
nel tempo, proprio grazie a questi racconti. La consapevolezza che tali ricordi un giorno sarebbero andati perduti mi ha fatto venire il desiderio di farne una storia. Ho iniziato compilando un accurato albero genealogico e poi verificando su internet ambientazioni e contesti storici. Però, quando mi sono trovata davanti al foglio bianco per iniziare a scrivere mi sono bloccata: ho capito che non sarebbe stato possibile.
Come spiega Maria Quinta a sua figlia: «A voler essere sicuri, Nina, nessuno dovrebbe mai raccontare la storia di nessuno. Una storia è sempre questione di punti di vista, e anche le persone che l’hanno vissuta possono dartene versioni diverse.»
Non avrei reso onore alle vite dei miei cari narrando qualcosa di non esatto e così, per il rispetto del vero
, prendendo soltanto spunto da quei racconti, ho inventato dei personaggi e delle storie che non sono mai esistite.
Però chissà, da qualche parte, forse sì.
Roma - 1990
Quei volti sembravano fissarla, e con gli occhi davano l’impressione di seguirla nei suoi spostamenti per la stanza. Maria Quinta non si sentiva inquieta o impaurita, anzi, era serenamente partecipe della loro presenza, come se stessero lì per farle compagnia, per rassicurarla.
Le foto dei morti, tutti della sua famiglia, erano sistemate sul secretaire del salotto, sotto il grande specchio dorato e proprio davanti alla sua poltrona preferita, quella dove amava sprofondare quando era stanca o aveva voglia di rilassarsi. Su quella poltrona, proprio a fianco alla finestra sempre aperta che di giorno illuminava il salone, aveva cercato ispirazione per i suoi romanzi e, soprattutto, aveva preso alcune delle decisioni più importanti della sua vita.
Le foto più grandi dietro, le più piccole davanti, così da non ostacolare la visuale. C’erano le più recenti a colori, come quella di suo marito prematuramente scomparso, o di sua sorella Maria Terzina, che riuscivano ancora a turbarla. Poi c’erano quelle in bianco e nero, alcune ritoccate, così vecchie da sembrare dipinte. Quelle a sua figlia facevano paura.
Quinta ultimamente indugiava su alcune di esse in cerca di consensi e di rassomiglianze.
Sua madre Ninetta, paffuta e sorridente, sembrava la sua immagine riflessa in bianco e nero. Tutte e due somigliavano poi a nonna Giovannina, ritratta con un cappottone abbottonato fino al mento. La sua figura grigia, decisamente abbondante, era poggiata a una ringhiera e sfoggiava un cipiglio da persona dura. Durezza che né Maria Quinta e né sua madre Ninetta avevano però apparentemente ereditato.
Poi c’era suo padre, Beppe, dalla fronte alta e dal viso sottile. A lui i grandi baffoni e gli occhialini tondi donavano un aspetto distinto, da persona colta. Un panama chiaro completava l’immagine di un uomo molto magro e pensieroso, l’unico tra quei volti con lo sguardo perso di lato; nessuno aveva mai capito dove guardasse Beppe, forse nemmeno lui.
Una voce dalla cucina interruppe i suoi pensieri.
«Ti preparo una camomilla, mamma?»
«Grazie Nina, sei un tesoro.»
«La presentazione del libro è stata un successone. Ogni volta mi stupisco per la quantità di persone che riesci a radunare.»
«Mi stupisco anche io, secondo me non hanno niente di meglio da fare.»
Quinta si alzò a fatica dalla poltrona e si avvicinò al secretaire. Specchiandosi, si passò la mano tra i capelli striati di bianco. Lo faceva spesso, a volte chiacchierando con lo specchio, altre volte con la famiglia lì schierata.
Si guardò e vide la stanchezza impressa sul viso. Non la spaventava la sua età, non le facevano paura le rughe. L’unica cosa che le pesava era sentirsi sempre più spesso stanca, debole, vulnerabile. Aveva paura delle malattie perché la costringevano a dipendere dagli altri, e quella era una condizione che non riusciva proprio ad accettare. Si scopriva sempre più simile alla povera nonna Giovannina.
Pensò ad alta voce: «Povera me! Passo troppo tempo qui davanti, si vede che sto invecchiando.»
Chi l’aveva sempre affascinata era sua nonna Teresa, la madre di suo padre, forse perché non l’aveva mai conosciuta. Dei folti capelli raccolti sulla nuca, nella vecchia foto in bianco e nero, non era possibile coglierne il colore, si racconta fossero rosso fuoco; quell’acconciatura di altri tempi e due piccoli orecchini di perla incorniciavano un volto dai tratti delicati e sensuali. La foto a mezzobusto la ritraeva con un abito scuro dal quale emergeva un colletto di pizzo che le avvolgeva le spalle. Teresa aveva lo stesso sguardo e gli stessi occhi chiari del figlio Beppe: dalla foto ti fissava e ti affascinava con un sorriso lieve e malinconico.
«La camomilla vieni a prenderla o te la porto lì?»
Quinta si scosse e ripensò all’argomento che voleva affrontare con sua figlia.
«Il prossimo mese saranno settanta primavere».
Si passò ancora la mano tra i capelli, e sorrise al suo volto seminascosto da enormi occhialoni.
«I ragazzi ti stanno organizzando una festa con i fiocchi, lo sai? Non dovrei dirtelo ma tanto lo scopriresti.»
Quinta raggiunse sua figlia in cucina e si sedette al tavolo.
Nina non le assomigliava per niente. Era tanto alta e sottile, quanto lei era bassa e pienotta. La figlia era rossa di capelli, mentre lei era stata una mora. Neanche negli occhi si poteva cogliere una qualche somiglianza. Nina li aveva grandi e verdi, Quinta piccoli e marroni. Scorrendo le foto non c’erano dubbi: la giovane Nina aveva preso i tratti genetici di nonna Teresa, e lei quelli di nonna Giovannina. A prima vista madre e figlia potevano apparire come due estranee, almeno finché non sorridevano.
Quinta mise da parte quei pensieri con un profondo sospiro; era decisa ad affrontare il problema.
«Settanta anni sono tanti, e ho ancora tante cose da raccontare.»
«Allora hai già in mente il prossimo capolavoro?»
«Veramente qualcosa ho in mente, ce l’ho da una vita. L’ho iniziato ma non ho mai avuto il coraggio di finirlo, però di tempo non ne è rimasto tanto e allora chiedo il tuo aiuto.»
«Mamma, di cosa stai parlando?»
«C’è una storia che non riesco a raccontare.»
«Tu? Non ci credo.» Si sedette di fronte alla madre porgendole la tazza di camomilla.
«E che storia sarebbe?»
«Sarebbe, sarebbe la storia di quelle fotografie di là.»
Nina la fissò incredula.
«La tua famiglia? Non sarà certo un racconto giallo, però l’idea non è male.»
«Le storie di famiglia sono sempre piene di giallo, anche di rosa e a volte pure di nero. Non l’ho scritta prima perché non era il momento giusto.»
«Adesso lo è?»
«Adesso o mai più.»
Quinta iniziò a soffiare nella tazza, se la rigirava tra le mani e cercava le parole giuste.
«Ho provato tante volte, ma certi ricordi pesano. È più facile scrivere di fantasia che toccare storie vere, di